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Sanjuro

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Sanjuro è il protagonista del primo capitolo di L’Ultimo Demone, come ha avuto modo di vedere chi ha letto il brano, ed è uno dei personaggi al centro delle vicende della storia narrata. Già in L’Ultimo Potere c’era un discorso tra Tempo e Guerriero sull’importanza dei nomi e anche in questo caso la scelta del nome del personaggio non è casuale. Sanjuro infatti indicativamente significa “nessuno”. Perché la scelta di un nome che in pratica è l’assenza di un nome?
Toshirô Mifune nella parte di Sanjuro, samurai vagabondo e senza nome in La sfida del samuraiQuesto è legato al passato del protagonista e c’è un motivo per cui ha deciso di farsi chiamare in questa maniera (ma questa è una cosa da scoprire leggendo). Quello che invece si può scoprire è che cosa mi ha influenzato in questa decisione. Dalla prima scena e dal titolo del primo capitolo si capisce che Sanjuro è un vagabondo che viaggia in cerca di qualcosa: questo quadro si rifà in parte a La sfida del samurai, un film di Akira Kurosawa del 1961 con Toshirô Mifune nella parte di Sanjuro, samurai vagabondo e senza nome. Come si sa, La sfida del samurai ha ispirato diversi registi: Sergio Leone per la realizzazione di Un pugno di dollari (anche se forse sarebbe meglio dire che è stato copiato) e ci sono scene di Guerre Stellari e Kill Bill Vol.1 cui Lucas e Tarantino si rifanno a quanto realizzato da Kurosawa. Io, oltre al nome del personaggio e a una scena che cita un’azione del samurai che si vede a inizio film, ho voluto cogliere lo spirito che muove l’agire di Sanjuro: anche se viene celato da un senso d’indifferenza e opportunismo, il personaggio ha una certa carica umanitaria, dato che vuole risanare dal male (in L’Ultimo Demone la presenza demoniaca sulla Terra, in La sfida del samurai un paese dalla presenza di due famiglie malavitose).
Oltre a ciò, in Sanjuro/Nessuno si può vedere un riferimento a Ulisse, protagonista della famosa Odissea, che beffa il ciclope dicendo che il suo nome è appunto Nessuno.
La canzone che riecheggia nella mente di Sanjuro alla fine del capitolo, è una famosa canzone dei Nomadi (qual è, è facile scoprirlo).
Altro non si aggiunge, perché altrimenti si andrebbero a rivelare elementi della storia che risulterebbero spoiler.

Gigantomachia di Kentaro Miura

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Gigantomachia di Kentaro MiuraGigantomachia è un’opera di Kentaro Miura realizzata nel 2014 ed è il motivo per il quale l’altra opera del mangaka, Berserk, si è fermata. Come già suggerisce il titolo, la storia è ispirata al mito omonimo (dal greco: gigas gigante e makhē battaglia) che vede i giganti (aizzati dalla loro madre Gea e dai Titani) voler conquistare l’Olimpo, scatenando una guerra con gli dei greci che vi abitano. Accatastando tre montagne una sull’altra, i ventiquattro giganti ingaggiarono una dura lotta contro i dodici dei, che solo grazie all’aiuto di un semidio, Eracle, figlio di Zeus, riuscirono a ottenere la vittoria: è infatti lui l’ago della bilancia che fa pendere lo scontro dalla parte degli abitanti dell’Olimpo e a infliggere sempre il colpo di grazia ai giganti. Scoraggiati, a questi ultimi non resta che scappare. Da alcuni di loro (o parte di loro) nascono delle isole: è il caso di Encelado che colpito da un masso scagliato da Atena cade in mare e diventa l’isola di Sicilia e di Coo, a cui Poseidone stacca un pezzo e gettandolo in mare fa sorgere l’isola di Nisiro.
Questo è il mito che come si vedrà sarà la base della storia che Miura va a narrare e disegnare. Una storia al momento in un volume unico (disponibile in due versioni, la standard, 5 E, e la deluxe, 7.50 E)), ma che visto il materiale a disposizione può dare spunto per lo sviluppo di altre trame, dato che lascia aperta la possibilità di un proseguimento delle vicende narrate. Un volume quello scritto da Miura che si va a mettere nell’onda del successo avuto da L’attacco dei giganti, opera realizzata da Hajime Isayama e iniziata a essere pubblicata da settembre 2009; visti alcuni disegni e l’essere stato pubblicato successivamente, può sembrare la nascita di questa storia non essere una coincidenza. Ma chi ha seguito Berserk, già ha potuto accorgersi che Miura aveva cominciato a far uso nel suo lavoro di esseri giganteschi: creature grandi si sono viste fin dall’inizio (gli Apostoli al servizio della Mano), ma è con l’imperatore dei Kushan, Ganishuka, quando s’immerge nel demoniaco utero stregato usato per creato i Pishacha e diviene l’incarnazione di Shiva, dio della distruzione, (numero 66 dell’edizione regolare di luglio 2009), che si vede la piega che l’autore sta facendo prendere alle sue idee.
Veniamo alla storia vera e propria: si avvisa che da qui in poi ci sono spoiler inerenti la trama.

I protagonisti sono Delos (ex gladiatore e wrestler) e Prome (una creatura dalle apparenza di ragazzina dotata di poteri soprannaturali che nel manga viene definita sia spirito, sia dea) che viaggiano in un lontanissimo futuro in un mondo deserto: la Terra, come spiega Prome a Delos, è stata sconvolta da eventi d’impatto astronomico, del fenomeno del superpennacchio e del congelamento globale. Momenti che ciclicamente si presentano (ogni centinaia di milioni di anni), in cui i corpi celesti cadano dal cielo, la terra si spacca sputando fuoco e il mondo viene coperto dal ghiaccio; in questo scenario la maggior parte degli esseri viventi è scomparsa, ma come accade in questo ciclo che si ripete immutabile, quando la vita viene esposta al rischio d’estinzione, essa muta e si espande di nuovo. In questo contesto, gli uomini (vengono chiamati hyuu) sono sopravvissuti e altre razze sono nate: si vedono meduse (creature metà umane e metà serpente), satiri, uomini-felini. E’ proprio una di queste razze, gli scarabei umani (esseri umani con elementi di coleotteri chiamati anche myuu), che i due sono in cerca: fin da subito si capisce che Delos e Prome hanno una missione da portare a termine e che hanno un legame particolare, che presto si rivela essere quello del dio che ha bisogno dell’uomo per compiere la sua opera. Delos con il suo fisico possente, la sua forza, la sua resistenza e il suo modo di combattere ricorda molto l’Eracle del mito che aiuta gli dei nel suo compito. Prome, nel ruolo della dea, corrisponde al patto che li lega donandogli guarigione quando viene ferito, ma non solo questo: i due possono unirsi in un’entità sola, Gohra, una sorta di gigante che ricorda in parte un evangelion (visto il legame che esiste tra quest’ultimo e chi lo guida).
Proprio questa creatura è il mezzo per compiere la missione che li vede impegnati, perché senza di essa non potrebbero contrastare l’Impero, il regno degli uomini che senza pietà avanza e distrugge tutte le forme di vita diverse da loro pur d’impossessarsi dei corpi dei giganti che essi custodiscono e che permettono di rendere fertile e vivibile la terra in cui si sono stanziati. Di nuovo salta fuori il mito di gigantomachia, dove il corpo dei giganti (sono un frammento di Gea, la terra) è fonte di creazione di vita. Lo scopo di Prome è infatti raccogliere tutti questi frammenti di Gea per far sì che al mondo ci sia una quantità di esseri diversificati e che l’umanità viva in simbiosi con le altre specie; per fare questo occorre ritrovare tutti i giganti caduti in sincope e combattere i giganti (nel fumetto chiamati anche titani) che l’Impero usa per conquistare e annichilire le altre creature.
Si sa poco dell’Impero, di cosa se ne fa dei corpi dei giganti in sincope raccolti (non viene detto, ma è chiaro che lo fanno per avere maggiore potere, anche se non viene specificato il modo in cui questo avviene); come si sa poco di Prome e Delos (di quest’ultimo si sa che era un ex-gladiatore e che il suo maestro gli ha insegnato il wrestling per far sì che nell’arena non sopravvivesse solo il vincitore del combattimento, ma entrambi i lottatori). Gigantomachia, anche se è un unico volume, più che una storia conclusiva in se stessa pare essere la base, la presentazione di un progetto più grande: è solo una sensazione, non si hanno fonti che confermino questa percezione, ma la storia ha in sé un potenziale che ha ancora tanto da dire e approfondire e quanto visto è solo un accenno. Forse è per questo che si rimane un po’ delusi, almeno per chi ha avuto modo di conoscere altri lavori di Kentaro Miura: Gigantomachia ha un tono più leggero, meno duro e cruento di Berserk, dà più spazio alla speranza, ma non possiede la densità, la profondità dell’opera che ha reso famoso il mangaka. Si è molto lontani da capitoli come quelli riguardanti il Conte Lumacone, gli anni d’oro della Squadra dei Falchi, Lost Children: non ci si avvicina minimamente a simili vette e pertanto chi si approccia a questa nuova opera, conoscendo l’altra di Miura, può rimanere insoddisfatto se ha certe aspettative, dato che Gigantomachia ripropone le atmosfere fantasy che Berserk ha preso da quando è comparsa Shilke, e non quelle dark e horror delle prime storie (che prendono spunto tra le altre cose dai film di Clive Barker e dalle favole dei fratelli Grimm, tanto per far capire di che stampo sono fatte).
Tuttavia Gigantomachia presenta alcuni spunti interessanti: il motivo per cui Delos combatte in un certo modo, la scelta di non lasciarsi andare alla violenza, di non voler odiare, di far scemare la sete di sangue presente nelle creature. E’ apprezzabile la scelta di Miura, specie in un periodo carico d’odio e di violenza come quello attuale, di cercare di creare una storia sì di lotta, ma anche volta a far sì che ci sia la spinta di ricercare la comprensione e la convivenza tra razze diverse e non cedere alla sete di vendetta, dove creature e pianeta vivono in armonia tra loro. Una storia che parla di tolleranza tra esseri viventi, che lancia anche uno sguardo all’ecologia, al rispetto della natura, criticando quella parte degli uomini che vogliono accaparrarsi tutte le risorse fino a esaurirle per divenire sempre più ricchi e potenti, non lasciando nulla agli altri.
Roderick Von Staufen, uno dei personaggi di BerserkChi vuole leggere Gigantomachia si dimentichi la violenza di Berserk, sapendo che avrà di fronte toni meno calcati ed estremi, anche più scanzonati (ricorda in un certo senso Berserk The Prototype) e un protagonista, Delos, molto meno oscuro e tormentato di Gatsu, più pacioccone, sorridente e scherzoso ma ugualmente risoluto e forte, spesso impegnato in gag alle volte un po’ stupide e sciocche con Prome (vedere il suo essere imbarazzato, a ragione, quando lei cura le sue ferite con il suo “nettare”); anche nei tratti fisici i due sono differenti (Delos non ha menomazioni, con il volto che ricorda, anche se un po’ più paffuto, quello di Roderick Von Staufen, fidanzato di Farnese e comandante di una flotta marina). A livello grafico, Miura si mantiene su ottimi livelli, dimostrando una gran cura per i dettagli, una predilezione per le creature bizzarre, facendo un lavoro minuzioso e particolareggiato, come già dimostrato nel tratto dell’ultimo periodo in cui ha lavorato a Berserk; belle le creature giganti, così come ben realizzati sono gli scontri (anche se vedere il gigante dell’impero sconfitto con mosse di wrestling risulta surreale, anche se si tratta di qualcosa d’inventato e fantastico). Il mangaka, su questo aspetto, continua a confermarsi una sicurezza e segno di qualità.
Un buon lavoro e pertanto una lettura piacevole (ma che non spinge alla rilettura), consigliata per i disegni, ritornando a precisare che si è lontani da quel capolavoro che è stato la prima parte di Berserk (fino alla conclusione dei capitoli di Lost Children).

Archetipi - La grotta

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IMG_5232La grotta è un simbolo, un archetipo potente. Come la foresta, in tante culture e religioni è stato un luogo iniziatico dove avveniva il cambiamento, la maturazione dell’individuo che si addentrava al suo interno. Nella concezione comune occidentale, l’iniziazione è la cerimonia con cui nelle società arcaiche o antiche, gli adolescenti venivano ammessi alla cerchia degli adulti, oppure la cerimonia con cui, in ogni tempo, si viene ammessi a particolari culti, sette, ordini o a loro superiori gerarchie (1). Ma di un altro significato dell’iniziazione si trovano abbondanti tracce nelle Scritture, nelle fiabe, nei miti e anche in numerose opere narrative che alle Scritture Sacre e ai miti sono sorprendentemente affini. In queste altre iniziazioni il ruolo dell’infanzia appare ribaltato, l’io bambino non è ciò da cui occorre liberarsi, ma il fulcro di una rivelazione. Mai ne risulta un’integrazione dell’iniziato alla sua collettività, alla generazione precedente alla sua o alle gerarchie degli anziani. Egli diviene invece libero ed eccezionale, spesso ribelle, il più delle volte eroe e ogni tanto re; diverso, comunque, dagli adulti ordinari. (2)
E’ da questo punto che si può osservare che la grotta è uno di quegli elementi dove l’individuo affronta le proprie paure, incontra in un qualche modo una sorte di morte rituale e viene a contatto con un Aldilà dal quale impara verità, segreti, rivelazioni che lo portano a essere più di quello era prima. Tali luoghi hanno un forte fascino e attrazione verso l’individuo, che si sente spinto ad addentrarsi nelle sue tenebre, di scendere nelle sue profondità probabilmente perché è la materializzazione, la proiezione del meccanismo di conoscenza che l’uomo fa verso se stesso quando si addentra nel suo inconscio, nella parte di sé che non conosce e che è ancora oscura.
Secondo Carl Gustav Jung la grotta è una delle rappresentazioni dell’archetipo della Grande Madre: la magica autorità del femminile, la saggezza e l’elevatezza spirituale che trascende i limiti dell’intelletto; ciò che è benevolo, protettivo, tollerante; ciò che favorisce la crescita, la fecondità, la nutrizione; i luoghi della magica trasformazione, della rinascita; l’istinto o l’impulso soccorrevole; ciò che è segreto, occulto, tenebroso; l’abisso, il mondo dei morti; ciò che divora, seduce, intossica; ciò che genera angoscia, l’ineluttabile. Spesso viene associata a uno dei luoghi di procreazione o di nascita, rappresentazione dell’utero femminile da cui sorge la vita. Non è un caso che in molte versioni del racconto della sua nascita, Gesù Cristo venga fatto nascere all’interno di una grotta, al freddo e al gelo, riscaldato dal fiato e dal calore del corpo di un bue e un asinello (altri simboli potenti): si tratta di una delle rappresentazioni più forti che stanno a rappresentare l’importanza della riscoperta del Bambino, del ritornare all’inizio (da qui il nome iniziazione), del riscoprire quanto è andato perduto durante l’esperienza di vita avuta.
Altra storia molto potente con al centro una grotta è quella di Aladino. Il giovane venne portato da un mago a una caverna perché vi entrasse (il varco era stretto e poteva passare qualcuno di piccolo, come un ragazzino) e riportasse la lampada in essa custodita; al suo rifiuto, venne rinchiuso al suo interno. Aladino rimase nella grotta al buio e in silenzio per tre giorni (proprio come Gesù rimase per tre giorni nel sepolcro, anche qui una grotta, dopo la sua crocefissione e morte prima di uscirne risorto), fino a quando riuscì a uscirne con l’aiuto di un jinn apparso dallo sfregare l’anello (un talismano) datogli dal mago per entrare, scoprendo che la lampada era un talismano altrettanto potente che evocava un jinn al suo servizio. Da questo momento il giovane vivrà molto avventure straordinarie, piene di portenti e magie, fino a quando diverrà sultano.
La storia, come altre storie simili, sta a indicare lo svelamento del proprio vero io, delle capacità nascoste di cui fino a quel momento si era ignorata l’esistenza, la scoperta, documentata dagli antichi testi sacri, del due che diventa uno, del mondo materiale e spirituale che collaborano per dare forma a un’energia che dà il via a creazioni e cambiamenti.
Facendo un altro esempio, anche Giuseppe d’Egitto, come Aladino, ebbe le sua iniziazione nell’adolescenza quando i fratelli maggiori lo buttarono in fondo a un pozzo (ha la stessa funzione della grotta) e poi venne venduto e condotto in Egitto, dove nella prigione (di nuovo, stessa funzione della grotta) scopre la sua capacità d’interpretare i sogni e da lì cresce poi in gloria e potenza, divenendo una delle figure più influenti del paese. Stessa cosa succede con Giona quando uscì dal ventre della balena che l’aveva inghiottito (identia cosa accade a Pinocchio), dove il buio altro non rappresenta che la maschera del non sapere. E quando si esce da questo buio, si è diventati qualcosa di nuovo.

Non va dimenticato il famoso mito della caverna che Platone nella Repubblica usò per spiegare il complesso concetto di idea, ovvero che le idee sono le forme eterne, immutabili di tutto ciò che ci circonda (dagli oggetti inanimati agli esseri viventi, a noi stessi). Sono idee anche alcuni concetti astratti come la Virtù, il Bene. Esiste un mondo delle idee (iperuranio), reale, immutabile, eterno. Il nostro mondo, fenomenico, è una “copia” imperfetta del mondo delle idee. Nel racconto, in una dimora sotterranea, in forma di caverna, con l’entrata aperta alla luce e larga quanto tutta la caverna,… uomini, che vi stanno dentro fin da fanciulli, incatenati gambe e collo, così che devono star fermi e possono vedere soltanto in avanti, incapaci, per la catena, di volgere attorno il capo. Alta e lontana, brilla alle loro spalle la luce d’un fuoco e tra il fuoco e i prigionieri corre rialzata una strada. Lungo questa… un muricciolo, come quegli schermi che i burattinai pongono davanti agli spettatori per mostrare al di sopra i burattini… Platone, La Repubblica (L. VII, 514).
Platone paragona la situazione di noi uomini a quella di un gruppo di schiavi in una caverna; incatenati, essi non possono voltare il capo e vedono sulla parete di roccia ombre proiettate da figure mosse da burattinai; poiché i burattinai parlano tra loro, gli schiavi attribuiscono le voci alle ombre che di fatto considerano come oggetti reali. Lo schiavo liberato, che può uscire dalla caverna, è abbagliato dal Sole: se gli si mostrano gli oggetti di cui prima vedeva le ombre, dicendogli che essi sono reali, rimarrà assai dubbioso e tenderà a considerare più reali le immagini che ha per tanto tempo visto sulle pareti della caverna
(3).

1. Il Mondo Invisibile. Igor Sibaldi. Frassinelli 2006, pag.28
2. Il Mondo Invisibile. Igor Sibaldi. Frassinelli 2006, pag.29
3. Il grande libro della Grecia. Giorgio P.Panini. Arnoldo Mondadori Editore 1987, pag.176, 177

Hunger Games e il mito di Teseo e del Minotauro

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Hunger gamesQuella che segue è una breve riflessione incentrata, più che sui film o sui romanzi di Hunger Games di Suzanne Collins, sull’idea che sta alla base di questa storia. Una storia che ricorda molto il mito di Teseo e del Minotauro.
Il mito narra che Atene era soggiogata a Creta e che per questo era costretta a sottostare al suo volere: quando Androgeo, figlio di Minosse, morì nei giochi tauromachici, Minosse decise, per vendicarsi della città di Atene, che questa dovesse inviare ogni anno sette fanciulli e sette fanciulle da offrire in pasto al Minotauro. Nel mito classico il Minotauro (creatura dal corpo umanoide e bipede, ma con zoccoli, pelliccia bovina, coda e testa di toro) viene mostrato come selvaggio e feroce, perché la sua mente era completamente dominata dall’istinto animale, avendo la testa, e quindi il cervello, di una bestia, ma è interessante la rilettura che fa Igor Sibaldi in Quando hai perso le ali: di questo se ne parlerà alla fine dell’articolo.
Tèseo, eroe figlio del re ateniese Ègeo, per porre fine a questa brutalità si offrì di far parte dei giovani per sconfiggere il Minotauro. Grazie all’aiuto di Arianna, figlia di Minosse e Pasifae, che si innamorò di lui per poi essere abbandonata dopo aver lasciato l’isola, riuscì nell’impresa. Impresa che viene interpretata come segno di una liberazione dal giogo dell’impero minoico su Atene, che in seguito sarebbe divenuta una nuova potenza marinara.
Osservando, si può vedere la stessa storia in Hunger Games: Capitol City impone il suo giogo ai distretti che si sono ribellati, costringendoli a pagare un tributo: ogni distretto deve inviare un ragazzo e una ragazza agli Hunger Games, un gioco mortale pieno di trappole e nemici dove solo uno può sopravvivere.
Rispetto al mito classico c’è la spettacolarizzazione dell’evento, dove tutto è seguito da telecamere e trasmesso in televisione, ma il concetto rimane lo stesso: i giovani che vengono fagocitati, cannibalizzati dal sistema più forte, il modo per spezzare la resistenza di un popolo e minarla in modo che non ci si ribelli più, perché lo si colpisce nella sua risorsa vitale, perché giovani e bambini sono il futuro di un popolo, il mezzo con il quale esso evolve e sopravvive; se si menoma questa parte, l’intero popolo diviene più sottomesso e controllabile, impedendo che si ribelli. Se la ribellione però viene dai giovani, come dimostrano Teseo e Katniss, allora tutti ritrovano coraggio e forza.
Ma il sacrificio dei giovani, la ribellione che viene da uno di loro, non sono i soli temi ricorrenti. Esempio di Labirinto di Barvaux Durbuy in BelgioC’è l’analogia arena/labirinto, archetipo di morte simbolica dove si rinasce, c’è un cambiamento interiore che porta a crescere, perché “Nel labirinto non ci si perde. Nel labirinto ci si trova. Nel labirinto non si incontra il Minotauro. Nel labirinto si incontra se stessi.” (H. Kern). Il labirinto è una struttura in apparenza caotica, ma in realtà creata appositamente in questo modo per mettere alla prova, per testare le capacità, il modo di affrontare le paure. Un modo anche per coprire gli orrori creati: nel mito, un mostro nato dalle scelte dei genitori; nell’opera di Suzanne Collins, la distopia di un sistema. Un luogo che è l’incarnazione dell’alienazione della coscienza: in un caso di quella di Minosse che non avrebbe potuto distruggere il Minotauro perché sarebbe equivalso a uccidere se stesso, nell’altro della parvenza di governo che in realtà è una dittatura. Un luogo dove regna violenza, dove può esserci collaborazione, alleanza, ma non può esserci amore, almeno non ricambiato: è così per Arianna che non è corrisposta da Teseo e viene solamente usata, è così per Peeta che non è corrisposto da Katniss (almeno all’inizio).
Il labirinto, gli Hunger Games, sono una maschera del nulla, del vuoto. Come il Minotauro, i pericoli dei giochi sono la maschera della brutalità del potere. Maschere che pochi sono in grado d’infrangere: solo chi ha volontà e valori più grandi di quelli cui i più seguono può farlo.
Come accennato in precedenza, il Minotauro ha una connotazione negativa, è il nemico da abbattere e superare per ottenere la ricompensa (la vita). Ma Igor Sibaldi lo pone sotto una luce diversa. Asterios (quello che viene dalle stelle) è il suo vero nome e tutti ne avevano timore perché era diverso, in lui scorrevano i geni del dio da cui discendeva, qualcosa di più gande degli uomini. Asterios è Figlio, ovvero colui che impara ad aver paura di sé perché il padre ne ha paura. E’ chi rifiuta e nasconde, come fosse una colpa inconfessabile, la propria individualità, perché il padre, i padri lo accettino e si salvino e rimangono. Poi diverrà più rapidamente come loro; imparerà a non saper reagire a ciò che di nuovo, di grande e di fragile ancora si manifesterà nei suoi figli. (1)
Il Minotauro non era il demonio divoratore di giovani che tutti credevano, ma piangeva sui resti dei bambini che erano uccisi dalle guardie: queste erano le urla che si udivano. Il labirinto era il monumento all’oblio e in ciò che si vuole dimenticare abitano e crescono gli incubi. Perciò l’infanzia che dimentichi ed escludi può diventare, nella mente dei molti, una minaccia. (2) Un monumento al tradimento del Bambino, dove si segue il rassegnarsi e a collaborare con chi opprime, mentendo agli altri, ma soprattutto a se stessi.
Thésée et le Minotaure, Étienne-Jules Ramey, 1826. Giardino delle Tuileries (Parigi)Asterios, come ogni bambino, era arrivato a credere che gli altri avessero ragione di odiarlo, d’esser davvero la causa degli orrori del labirinto, vivendo in un incubo continuo, fino a quando venne ucciso da Teseo, l’eroe. Come fa notare l’autore, tra i due ci sono analogie. Entrambi figli illegittimi concepiti attraverso l’inganno. Entrambi cresciuti lontano dal padre. Ma mentre Asterios è il Bambino sconfitto, che si rassegna, Teseo è quello che crescendo non cede. E mentre Asterios era odiato, Teseo era amato: è questa la grossa differenza tra i due, che cambia il loro essere; è la mancanza d’amore che può creare mostri, creature squilibrate che vivono male e fanno vivere male. Certo la volontà dell’individuo di non seguire un modello conta, ma conta anche l’ambiente circostante, soprattutto se non si hanno avuto mai davanti esempi che possono aver mostrato che può esserci qualcosa di diverso da quanto conosciuto e che la vita non è solo il mondo in cui si è vissuto.
Asterios e Teseo sono le due possibilità di scelta: il primo a rassegnarsi a obbedire, rispettare i muri creati dagli altri e rinnegare ciò che c’è di diverso. Il secondo elimina tutto ciò che è il primo, sciogliendo legami e costrizioni; certo è duro, faticoso e rischioso, ma è l’unica via per la libertà e il vero vivere, altrimenti è solo schiavitù.
Come scritto da Brandon Sanderson in Parole di Lucetutte le storie sono già state narrate. Le raccontiamo a noi stessi, come hanno fatto tutti gli uomini che siano mai vissuti. E tutti gli uomini che vivranno. Le uniche cose sono i nomi” (3) che cambiano. Adesso si hanno Katniss e Hunger Games, allora si avevano Teseo e Minotauro, in futuro si avrà qualcun altro, ma la storia rimarrà sempre la stessa, con il suo insegnamento da apprendere.

1. Quando hai perso le ali – Igor Sibaldi. Frassinelli 2008 pag.62
2. Quando hai perso le ali – Igor Sibaldi. Frassinelli 2008 pag.66
3. Parole di Luce – Brandon Sanderson. Fanucci Editore 2014 pag.809

Conoscenza perduta

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Quanta conoscenza perduta c’è nella storia dell’uomo?
Ci si è mai soffermati a riflettere su questo?
Se ci si pensa, già quando muore un singolo individuo si perde l’esperienza accumulata in tutta una vita e anche se l’individuo scomparso avesse raccontato ad amici e parenti quanto vissuto, nel giro di una/due generazioni questa andrebbe dimenticata e persa. Nel caso lasciasse qualcosa di scritto, come succede con autobiografie di personaggi noti, la conoscenza del suo vissuto potrebbe perpetrarsi un po’ più a lungo; ma va tenuto conto che un individuo non racconta tutto quello che ha appreso, specie per quanto riguarda le esperienze strettamente personali, e questa è irrimediabilmente conoscenza perduta, che andrà scoperta nuovamente da ogni singolo quando rivivrà esperienze analoghe. Anche lasciando qualcosa per iscritto, le esperienze passate vengono dimenticate, soprattutto vengono dimenticate le lezioni che hanno da dare, come purtroppo accade, basta vedere come le promesse fatte nel 1945 di non ripetere più gli orrori della Seconda Guerra Mondiali e poco più di quarant’anni dopo si sono ripetuti in quella guerra che ha diviso la Jugoslavia.
Anche se è brutto dirlo, questo è purtroppo qualcosa d’inevitabile, dato che sembra esserci qualcosa nella mente dell’uomo che spinge a dimenticare, specie le esperienze e gli eventi più nefasti, quando la memoria di ciò dovrebbe essere invece ben salda.
Ma quando è la conoscenza di un’intera civiltà, un popolo, ad andare perduta?
Si pensa a quale patrimonio l’umanità deve fare a meno? Che cosa porta questa perdita? Soprattutto, che cosa la causa?
Alle volte può essere una catastrofe naturale. Anche se per molti si tratta solo di un mito, basta pensare ad Atlantide: tra le varie storie sulla sua scomparsa, si racconta di una catastrofe che l’ha completamente spazzata via, lasciando di lei solo il ricordo, cancellando tutto il sapere che era a sua disposizione (un sapere che si narra ben più avanzato di quello attualmente in possesso dell’umanità). Senza scomodare il mito, basta pensare alla civiltà cretese, distrutta da un terremoto: è vero che non è scomparsa del tutto, ma è anche vero che dopo il disastro non è più riuscita a riavere il fasto di prima e parte del suo sapere è andato perduto.
Il più delle volte però la causa della perdita di conoscenza è dovuta all’uomo e sempre per via di guerre, di conquista, di sopraffazione.
rogo di libri da parte dei nazisti E’ vero che i conquistatori hanno anche saputo inglobare il sapere degli sconfitti, come hanno fatto per esempio i romani con la cultura greca, apprendendo molto dal popolo conquistato, ma il più delle volte alla conquista è seguita la perdita. Non va dimenticato quello che ha fatto la Cina, che con i suoi vari governi ha distrutto interi patrimoni del passato.
Quante storie, lingue, sono andate perdute in questo modo?
Basta pensare ai nativi americani, scacciati dalle loro terre, rinchiusi in riserve quando non uccisi: un popolo spezzato, dove, dopo la morte degli anziani, il sapere delle tradizioni non è stato portato avanti dai giovani, andando così perduto, e ora rimane solo qualche frammento di ciò che si sapeva un tempo.
Adesso si può obiettare che se avessero avuto la tecnologia di cui ora si è in possesso, niente sarebbe scomparso. Ma se ne è davvero sicuri?
La tecnologia è volta sempre a evolvere, a creare cose nuove, ma spesso si dimentica, od omette volontariamente, di creare dispostivi che possano essere compatibili con quelli precedenti, facendo così perdere quanto era connesso a essi; qualcosa che va perduto in nome del consumismo e della ricerca di accumulare sempre più denaro che si nasconde dietro la maschera del progresso. E’ risaputo che a seguito di tale spinta si vorrebbe rendere tutto digitale, informatizzare ogni cosa (riviste, libri), in modo da non avere più nulla di materiale, così da rendere tutto più veloce e avere meno problemi di spazio e di consumo di materie prime.
Ma che cosa succederebbe se si perdessero i dispositivi per visionare i dati, se si perdesse il saper usare tale tecnologia o più semplicemente non si avesse più modo di alimentarli?
La conoscenza accumulata sarebbe qualcosa d’inutile, un grande tesoro cui nessuno potrebbe accedervi.
Su queste fondamenta si basa la trilogia di Il Viaggio della Jerle Shannara di Terry Brooks. Ben inferiore rispetto al ciclo precedente degli Eredi, con una trama meno strutturata e complessa e una caratterizzazione dei personaggi molto al di sotto di quanto l’ha preceduto (tra tutti l’unico che spicca e ha un qualche spessore è Truls Rohk), dove Brooks riesce a rovinare uno dei protagonisti che meglio è riuscito a tratteggiare in precedenza (Walker Boh), questa serie tuttavia riesce ben a mostrare come le conoscenze di civiltà del passato possano andare perdute. Il gruppo partito dalle Quattro Terre per Parkasia, alla ricerca di un tesoro (il sapere accumulato prima delle Grandi Guerre), dopo aver superato pericoli e orrori di ogni sorta, si ritrova a raggiungere l’obiettivo e a non poter farlo proprio, dato che non ha i mezzi per utilizzare i dispositivi tecnologici in cui la conoscenza è contenuta: i personaggi sopravvissuti hanno tra le mani tutto il sapere del passato e non possono farsene assolutamente nulla.
Quello di Brooks è un ciclo di fantasia, ma alcuni aspetti di quello che narra non sono qualcosa d’impossibile: che cosa accadrebbe se il mondo che noi conosciamo venisse distrutto da una grande guerra (cosa tutt’altro che improbabile, visto quello che sta accadendo e visto cosa ha insegnato la storia) e le generazioni nate dopo il conflitto, senza insegnamenti, trovassero i resti del sapere attuale?
La stessa identica cosa.
Fatto che è già accaduto: l’uomo si è diverse volte trovato di fronte a testi di lingue morte di cui non conosce nulla, perdendo così tutto quello che avevano da trasmettere.
Per quanto l’uomo si gongoli delle proprie scoperte, il successo di ciò che porta alla luce è inferiore alla perdita delle conoscenze che gli scivolano dalle mani e finiscono nell’oblio, spesso perdute per sempre.

Magia, tra figure storiche e immaginate - 1

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Fin dalla preistoria, la magia è stata un elemento presente nella storia dell’uomo. Rituali, incantesimi, segni, sigilli, rune, tomi oscuri, trattati arcani: tutte cose volte a conferire agli esseri umani potere per avere controllo sulle forze della natura, sulla propria vita e su quella altrui, di ergersi sopra la propria condizione.
Credenze che non hanno riscontri nella realtà, ma che tuttavia nel presente come nel passato tanti vi hanno dato importanza: nelle corti ci sono sempre state figure avvolte da aure di mistero, quasi magiche, che si riteneva potessero controllare energie soprannaturali, creando miti, leggende che non hanno fatto altro che conferirgli potere e fascino. L’uomo, nonostante la scienza e la logica abbiano dimostrato quanto tali elementi non fossero autentici, li ha sempre ricercati, ha sempre creduto in essi, seguendo e affidandosi a figure, libri, che riteneva potessero guidarlo verso poteri misteriosi, provenienti da dimensioni dove vigevano leggi differenti da quelle del mondo conosciuto. Proprio la parola “occulto”, così spesso associata alla magia, significa ciò che è nascosto, che non si vede, e l’ignoto ha sempre esercitato un forte magnetismo in chiunque, fin dall’antichità.
Le prime figure “magiche” incontrate nella storia dell’uomo risalgono alle società neolitiche e sono quelle degli sciamani, individui presenti presso le tribù con la capacità di diagnosticare e curare (ma anche causare, se di animo malvagio) le malattie grazie al rapporto che avevano con la natura e gli spiriti che lo popolano; tali personaggi sono esistiti per secoli e hanno continuato a esistere anche con lo svilupparsi di società più strutturate (vedasi i nativi americani) e che tuttora esistono in luoghi lontani dalla cosiddetta società civile occidentale. Lo sciamano è un ruolo che non è per tutti, cui può accedervi solo chi ha subito un evento fortemente traumatico che l’ha messo a confronto con la morte, permettendogli di prendere contatto con il mondo degli spiriti e di essere così guardiano della zona di confine che separa la sfera della vita da quella della morte: solo sopravvivendo a un’esperienza del genere riesce a creare quel legame che gli permette di acquisire capacità tali da avere una considerazione e una posizione privilegiata presso la sua gente, cui essa si rivolge per avere consiglio, aiuto e protezione.
Sebbene questa figura sopravviva ancora, con lo svilupparsi di società più numerose e organizzate da leggi più complesse, con il tempo è stata sostituita da quella dei sacerdoti, aventi associazioni più grandi e articolate, dove i favori, i portenti, sono elargiti dalle divinità, con il sacerdote che fa da tramite tra loro e i mortali. Come gli sciamani, i sacerdoti avevano molta considerazione e un gran rispetto presso il popolo, oltre che un gran potere anche a livello temporale, come dimostrato a esempio società mesopotamiche ed egizie; due società che hanno fortemente condizionato quelle a seguire con il loro sapere e le loro credenze esoteriche.
Di tutte le religioni del mondo antico (non per niente si affacciava sullo stesso bacino mediterraneo), la più incline alla magia fu quella greca, grazie anche a una conformazione del territorio che spingeva l’immaginazione a vedere i suoi luoghi come posti carichi di mistero. Monti remoti avvolti dalle nubi quali l’Olimpo, grotte, bocche vulcaniche, erano teatri perfetti per creature divine, mostri, eroi, maghe, come Medusa che pietrificava con il solo sguardo, Achille reso invulnerabile (tranne che un punto, il famoso tallone) dalle acque del fiume Stige, dei che trasformavano gli uomini in animali. Soprattutto certi luoghi divennero famosi per il sorgere di tempi dedicati agli Oracoli, figure capaci di condizionare anche la politica di uno stato e le decisioni dei re, dato che avevano la capacità di predire il futuro in molti modi (visioni indotte da vapori, sogni) senza dover entrare in contatto con il Regno dei Morti (l’Ade) e i defunti; i sacerdoti avevano gran considerazione, siccome erano loro a dover interpretare le parole e le profezie pronunciate dall’Oracolo.
Solo dopo le guerre persiane nel mondo greco comparve quella che viene chiamata stregoneria: evocazione di demoni, uso di filtri e pozioni per conquistare l’amore o avere la meglio sui nemici o protezione contro di essi. La maga Circe che mutava gli uomini in porci, Medea capace di grandi portenti e malefici, sono alcune delle figure più famose di chi usava la magia; senza contare Orfeo, la cui musica era artefice di prodigi quali farsi ubbidire da chiunque, animali, mostri (vedi Cariddi nell’impresa degli Argonauti) e divinità (Ade, quando scese nel Regno dei Morti per riportare Euridice nel mondo dei vivi). A loro vanno aggiunte figure famose realmente esistite come Pitagora e Apollonio di Tiana, dove le leggende gli conferiscono poteri magici quali l’essere presente nello stesso momento in più punti, richiamare animali e farsi obbedire da loro, guarire, fare profezie. Individui il cui sapere si riteneva nascesse dai contatti con l’oriente. Per tale sapere e credenze, nel caso di Apollonio, ci fu l’osteggiamento dei cristiani, che lo consideravano un operatore di malefici, vedendolo come un nemico (gli venivano attribuiti molti miracoli affini a quelli che i Vangeli attribuiscono a Gesù Cristo, come afferma il biografo Flavio Filostrato) e non prendendo in considerazione che anche lui predicava l’immortalità dell’anima, che la morte non poteva vincere sulla vita, dato che nulla mai moriva, ma cambiava solo sembianze, messaggi molto simili a quelli di Gesù. Da ricordare il suo professare che l’universo è un essere vivente, che ogni cosa che vi appartenga ha una coscienza e che insegnava il sistema alchemico dei quattro elementi (terra, fuoco, aria e acqua), convinto che ce ne fosse un quinto, etere o prana o spirito (se ci si fa caso, questi sono i Cinque Poteri, gli stessi elementi con cui le Aes Sedai intessono i loro flussi quando incanalano l’Unico Potere nella saga di La Ruota del Tempo creata da Robert Jordan).
I viaggi di Apollonio, dove apprese così tante cose, sono avvolti da leggenda, tant’è che attorno a essi si sono creati studi anche a secoli di distanza. Secondo essi aveva raggiunto Shambhala, un regno dove si custodisce e si cura l’anima dell’umanità, dove risiedono adepti di ogni razza e cultura all’interno di una valle riparata dai gelidi venti artici, con un clima sempre temperato e la natura fiorisce rigogliosa. Un luogo cui molti hanno cercato di dare una locazione, spesso indicato nel Tibet, che non è mai stato però trovato, ma che tuttavia ha ispirato scrittori come Andrew Tomas, Victoria Le Page e James Hilton (in Orizzonte Perduto, romanzo del 1933, lo scrittore descrive un luogo simile dandogli nome Shangri-La).
Non solo scrittori si sono lasciati affascinare da persone del genere, ma anche potenti come Nerone, come dà testimonianza Plinio il Vecchio, asserendo che l’imperatore nutriva per la magia una gran passione e per la quale volle avvalersi degli insegnamenti del re armeno Tiridate, famoso mago del periodo in cui la guida di Roma visse.

Merlino interpreteato da Nicol Williamson nel fil Excalibur di John BoormanTuttavia, la figura del mago per antonomasia, nonostante le premesse finora viste, raggiunge il suo culmine solo secoli dopo, incarnandosi in quello che sarà l’archetipo da tutti riconosciuto: Merlino. Individuo conosciuto per il famoso ciclo arturiano, viene citato per la prima volta in Historia Regum Britanniae di Goffredo di Monmouth (1136 ca), le cui vicende vengono fatte risalire al V secolo, prima come consigliere di Vortigern, poi di Uther Pendragon. Merlino ebbe un ruolo importante sul regno di quest’ultimo e della sua discendenza, dato che grazie alle sue arti magiche permise a Pendragon di unirsi con Ygraine e dare così vita ad Artù. Solo in seguito con autori quali Thomas Malory, il mito arturiano si arricchì dei famosi racconti della spada nella roccia e dei cavalieri della Tavola Rotonda.
Secondo alcuni, come Nikolaj Tolstoj, Merlino è ispirato all’ultimo dei druidi (sacerdoti delle antiche regioni celtiche di Britannia, Irlanda e Gallia, la cui esistenza è documentata dal III sec. A.C. da saghe irlandesi e testi romani, specie di Giulio Cesare), secondo altri invece era derivata da un bardo gallese del VI sec. d.C. di nome Myrddin, nome cambiato in seguito appunto in quello ben conosciuto. Nome che però secondo la storica Norma Lorre Goodrich era più che altro un appellativo riferito alla sua natura acuta, scrutatrice e rapace, dato che il merlin è un tipo di falco; i lettori della saga di Earthsea di Ursula Le Guin potranno vedere delle analogie tra Merlino/falco e Ged conosciuto anche come Sparviero, vedendo in questo una possibile fonte d’ispirazione avuta dalla scrittrice americana.
Ian McKellen interpreta Gandalf in Il Signore degli Anelli e Lo HobbitMa Merlino non ha ispirato solo questa saga, ne è un esempio un altro famoso mago, Gandalf, creato da J.R.R.Tolkien, gran conoscitore delle leggende nordiche e celtiche, usandole per dare vita alla Terra di Mezzo; entrambi i personaggi sono andati a creare l’immagine classica, l’archetipo che tutt’oggi si conosce. Danirl Radcliffe interprete Harry Potter nella famosa saga di  J.K.RowlingUn archetipo che è stata arricchito da poco da un altro personaggio, quello di Harry Potter creato da J.K.Rowling, scrittrice inglese che consolida la visione secondo la quale l’essere mago è un talento innato, che non può essere acquisito in nessun modo, distinguendolo così dalle persone comuni. E mantenendo la tradizione dell’immaginario, i maghi per gli incantesimi usano bacchette magiche, hanno proprie scuole con torri e ordini, dove imparare a usare i poteri di cui dispongono e che affondano le loro radici in qualcosa che non è di questo mondo dai libri.
Tutto ciò a differenziarsi dalle streghe, che non hanno bisogno né di maestri (maghi e stregoni hanno sempre scuole) né di gerarchie ufficiali che, per mantenere il controllo sull’utilizzo delle forze invisibili, diano regole e investiture precise ai loro adepti. Strega (femmina o maschio che sia) è chi impara da sé, chi cerca e trova, non smette mai di trovare, sul confine tra Aldiqua e Aldilà. In molte lingue per indicare le streghe si usano parole che letteralmente significano «le sapienti», persone libere e coraggiose, indifferenti a paure superstiziose, ai tabù, con mentalità pratiche. (1) Di fronte a tale descrizione, di nuovo vengono in mente le Aes Sedai di Robert Jordan, etichettate dalla gente comune in senso dispregiativo come le streghe di Tar Valon, ma anche la Strega del Crepuscolo del mondo di Landover di Terry Brooks, ottimo esempio di creatura a ridosso del confine tra Mondo Fatato e mondo materiale che ha appreso da sola l’uso della magia.

1 – Libro degli angeli, pag 93. Igor Sibaldi. Frassinelli 2007

Fonti su cui ci si è basati per realizzare l’articolo (apparso sul numero 9 di Effemme):

  • Storia dei maghi. Alan Baker. I edizione Oscar Mondadori 2005
  • Manuale di storia delle religioni. G.Filoramo, M.Massenzio, M.Raveri, P.Scarpi. Mondadori 1998
  • Dizionario universale dei miti e delle leggende. Anthony Mercatante. Mondadori 2002

Di spade

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Le spade sono un elemento che è stato ben presente nella vita dell’uomo, sia nella realtà, sia nelle storie inventate.
Sono state oggetti ornamentali, fautori di violenza e morte. Sono state anche molto più di un’arma.
Per il loro essere lucenti, nell’antichità venivano usate come specchi. Non per niente un passo della Bibbia si riferisce proprio a questo: “il bagliore della spada che gira su se stessa” (Genesi 3,24) è appunto riferito a qualcosa che riflette, proprio come uno specchio. In questo caso naturalmente va inteso come un simbolo di un limite da superare.
Anche in altre culture la spada è qualcosa di più di un mezzo per difendersi o attaccare, specie per i samurai: nel periodo Tokugawa si diffuse l’idea che l’anima di un samurai risiedesse nella katana che portava con sé, a seguito dell’influenza dello Zen sul bujutsu. Senza contare che il possedere tali spade era simbolo di riconoscimento della casta di cui facevano parte.
Famoso simbolo di riconoscimento nell’immaginario collettivo umano è soprattutto la spada nella roccia (che alcuni associano a Excalibur, mentre altri le reputano due armi differenti), che avrebbe permesso di riconoscere chi sarebbe stato capace d’essere guida per il popolo e governarlo: è grazie a essa che si riconosce in Artù l’essere re del proprio paese.
Ma Excalibur non è la sola spada a essere usata come simbolo di riconoscimento. Anche Robert Jordan in La Ruota del Tempo ha fatto la stessa cosa con Callandor, la spada fatta di cristallo, la spada che non è una spada anche se può essere usata come tale, pur essendo molto di più: essa è un potente ter’angreal (residuo dell’Epoca Leggendaria che usa l’Unico Potere) che può essere liberata dal luogo dove è custodita solo dal Drago Rinato. Questo è uno dei segni che mostra il ritorno del Drago, perché solo lui è in grado di farla uscire dalla Roccia (in questo caso è la fortezza dove è stato custodito l’oggetto).
Ma di spade che sono più di una spada, la letteratura fantasy è ricca. Terry Brooks con la spada di Shannara crea un oggetto capace di mostrare la verità, di abbattere le illusioni e le menzogne (l’arma fu creata proprio per sconfiggere il druido rinnegato Brona, divenuto il Signore degli Inganni, dato che l’unica cosa in grado di sconfiggerlo era la verità su se stesso che tanto aveva cercato di non vedere). A parte Il Primo Re di Shannara dove l’arma viene creata, sia in La Spada di Shannara, sia nel ciclo degli Eredi, l’arma è custodita in un blocco di roccia; anche in questa storia, solo gli appartenenti a una determinata linea di sangue potranno usarla.
Oltre a queste si possono citare Tempestosa della saga di Elric creata da Michael Moorcock e Sanguinotte di Il Conciliatore di Brandon Sanderson, che benché non diano riconoscimenti o vengano estratte dalla roccia, sono molto più di un’arma: sono qualcosa di vivo e senziente, oltre che potente e pericoloso. Non va dimenticata Dragnipur, la gigantesca spada di Anomander Rake nella saga Malazan di Steven Erikson, contenente la Porta dell’Oscurità e capace di rinchiudere al proprio interno l’anima di chi uccideva.
Per non parlare della Spada Nera creata da Margaret Weis e Tracy Hickman nel ciclo Darksword capace d’annullare qualsiasi magia. O di Narsil, la spada che andò in frantumi tagliando il dito di Sauron cui era infilato l’Unico Anello nella famosa Terra di Mezzo creata da J.R.R.Tolkien. O Durlindana, la spada di Orlando, il paladino di Carlo Magno, narrata nella Chanson de Roland. O la gigantesca Ammazzadraghi di Gatsu nel manga Berserk di Kentaro Miura. O Gramr, la spada che Sigfrido usò per uccidere il drago Fáfnir (in I Nibelunghi è chiamata Balmung, mentre nella tetralogia L’anello del Nibelungo è chiamata Nothung).
Quale che sia il contesto in cui essa sia presente, racconto o fatto storico, una realtà è innegabile: chiunque, almeno una volta nella vita ha sognato di impugnarne una.

Il valore delle cose

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Qualsiasi cosa, per essere apprezzata e non sprecata, deve essere conquistata. Occorre impegno, sacrificio, superare limiti e ostacoli: attraverso la fatica arrivare a comprendere il suo valore. Se così non avviene, è un dare le perle ai porci, permettere che ciò che è prezioso non sia apprezzato e gettato nel fango.
Quanti, delle generazioni attuali, sono viziati, capricciosi, superficiali, perché gli è stato dato tutto, dato che basta che semplicemente chiedano per ottenere?
La maggior parte. Sia per quanto riguarda i beni materiali, sia per quanto riguarda valori morali, etici, spirituali. Hanno avuto tutto senza fatica e ritengono che tutto gli debba essere dovuto. Non sono stati abituati a darsi da fare, a conquistare, per questo quando si trovano di fronte a qualche difficoltà crollano o fanno qualche colpo di testa, di cui poi si ritrovano a pentirsi e a chiedere perdono.
Proprio sul perdono verte la riflessione.
I miti, di qualsiasi cultura esistita, hanno sempre narrato di individui che per espiare le colpe commesse dovevano compiere delle imprese lunghe, faticose, che richiedevano tempo. Tempo perché potessero riflettere sull’errore commesso, capire cosa l’aveva spinto a commetterlo. Tempo e fatica per maturare una consapevolezza maggiore, per capire che per ottenere qualcosa occorre dare qualcosa, occorre impegnarsi, darsi da fare, perché nulla che ha valore viene regalato, si ottiene facilmente.
Un mezzo per far evolvere, per far cambiare, per rendere migliori. Emblematico è il mito di Eracle che si reca all’oracolo di Delfi per trovare un modo per scontare la sua colpa e gli viene dato il compito di superare le Dodici Fatiche.
Qualcosa di simile è stato preso, anche se modificato, con la confessione cristiana, dove il credente, dopo aver confessato i propri errori, riceve una penitenza da fare, spesso recitare delle preghiere. Il modo non è sbagliato, ma con il tempo ha perso efficacia, non si ha consapevolezza di quello che si fa, infatti gli errori continuano a essere ripetuti senza che li si comprenda e si riesca ad andare oltre. La gente pensa di cavarsela ed essere a posto con formule recitate meccanicamente; in questo modo però non si mettono in moto i meccanismi che portano a cambiare. Si pensa che basti dire l’errore e dire qualche preghiera per essere a posto.
Così è nei rapporti con gli altri. Si pensa che basti chiedere scusa e si è a posto, lavagna pulita, come se niente fosse, tutto bello come prima.
Ma non basta il dire, occorre anche il fare, dimostrare con i fatti, gli atteggiamenti, l’essere: è questo che conta veramente.
Ma in questa società, chi fa sono veramente in pochi: si è solo capaci di pretendere, che tutto venga dato solo perché richiesto. Ma così tutto perde significato, perde valore.

Dannazione

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Gustave Doré - InfernoQuando si pensa alla dannazione subito sorgono alla mente immagini di luoghi oscuri, violenti, dove la gente prova indicibili patemi, dove ci sono lacrime, disperazione, torture. Lo scenario descritto da Dante Alighieri nella Divina Commedia è l’incarnazione più conosciuta di tale realtà, ma ogni religione ha dato la propria descrizione di questa angosciosa condizione, rappresentandola con deserti, fiamme, ghiacciai, demoni, spiriti orrendi e crudeli che perseguitano l’anima condannata nell’esistenza che comincia dopo la morte.
Quasi tutte le religioni, fin dai tempi antichi, hanno professato regni di patimenti come punizione per le azioni perpetrate in vita: l’Ade dei greci con i suoi mostruosi guardiani, l’Inferno cristiano con i suoi demoni spietati. Ma un’esistenza può essere dannata ancora prima di raggiungere i regni dell’oltretomba, perché la dannazione è innanzitutto uno stato dell’animo in cui l’individuo cade a causa delle proprie scelte quando fa sì che comportamenti e pensieri erronei, ossessivi, prendono il sopravvento.
Odio. Orgoglio. Incapacità d’accettare le scelte, la realtà. Ferite, subite per tradimenti, così profonde che arrivano fino all’osso e non possono più essere riparate. Anche la persona più buona e virtuosa può cadere e divenire un’anima dannata.
Lucifero - Gustave DorèEsempio di questa realtà è Lucifero, che non è stato da sempre Signore dell’Inferno e che è bene ricordare che è stato tra i più grandi, se non il più grande, delle schiere angeliche per virtù. Eppure è caduto. Com’è potuto accadere? Per il non accorgersi di un bisogno che era dentro di lui: questa ignoranza non ha fatto altro che alimentare un male che ha creato una scissione dolorosa, non più sanabile.

E da quelle fiamme nessuna luce,
ma un buio trasparente,
una tenebra nella quale si scorgono
visioni di sventura,
regioni di dolore e ombre d’angoscia,
e il riposo e la pace non si troveranno,
né mai quella speranza che ogni cosa
solitamente penetra.

La parole di Milton sono le più appropriate per descrivere lo stato della dannazione: racchiudono le sfumature cupe e senza via d’uscita che avvolgono coloro che cadono nel suo abbraccio.
Parole che vengono usate come apertura per l’ambientazione di Ravenloft – Domini del Terrore, perfetta incarnazione della natura di un luogo abitato da esseri maledetti, vere e proprie creature dell’oscurità recluse in un mondo isolato delle nebbie, dove hanno grandi poteri, ma a cui non è concessa pace alcuna. Padroni di una terra di cui sono anche schiavi, dato che non possono lasciarla, torturati dalla maledizione che è stata impresse nel proprio animo.
strahd von zarovich - ravenloftLa forza di un’ambientazione ideata per il famoso gioco di ruolo Dungeons&Dragons non risiede solo nel cupo paesaggio in cui si svolgono le vicende o nel mistero che aleggia nel Semipiano nel Terrore, quanto nello scavare e scoprire la profondità delle tenebre dell’animo umano, nel rivelare dove possano portare desideri, sentimenti che con il tempo e gli accadimenti si sono mutate in ossessioni e di conseguenza poi in vere e proprie dannazioni. Ed è questo che accade quando un pensiero diventa ricorrente, quando in continuazione non si fa altro che arrovellarcisi sopra, quando si perde ogni tranquillità, ogni pace interiore. Al giorno d’oggi con gli studi e le scoperte fatti, questo potrebbe essere etichettato come un disturbo della mente, un’ossessione compulsiva che rende la vita un inferno, facendo vedere tutto come un tunnel del quale non si riesce a scorgere la via d’uscita, se non cadere in un vortice che trascina nella pazzia.
Ma senza andare a scomodare manuali di psicologia, andando a utilizzare linguaggi tecnici, alle volte basta una buona storia per accorgersi di atteggiamenti e meccanismi mentali da evitare; è quello che facevano i greci attraverso le rappresentazioni teatrali, dove gli spettatori potevano vedere e riconoscersi attraverso esempi e quindi avere un monito per non intraprendere certe strade.
I Domini del Terrore possono essere considerati un semplice gioco, ma a mio avviso Ravenloft è molto più di questo: i suoi autori sono riusciti ad andare oltre il divertimento, sono riusciti a creare qualcosa di profondo e toccante (inteso non certo come commovente, ma bensì capace di toccare e risvegliare corde sopite).
Non è difficile riuscire a riconoscersi in uno dei Signori dei Domini che è diventato tale in seguito a un amore tradito o non corrisposto, dove questo sentimento s’è mutato in una rabbia e un odio profondi.
Non è difficile riconoscere una brama, un’ambizione smodata capace di arrivare a sacrificare tutto pur di soddisfarla.
Non è difficile riconoscere un sentimento così forte da divenire possessivo, reclamante di essere esclusivo e totalitario. Oppure un desiderio così forte da spingere a stringere qualsiasi patto pur di riuscire a raggiungerlo.
Quale che sia l’origine della dannazione che affligge uno dei Signori di Ravenloft, ciò che è sicuro è che la forza del loro potere nasce dall’intensità delle emozioni che provano, perché le emozioni sono un’energia sconfinata, anche tremenda: più è sentito il sentimento, più è capace di scendere in profondità e raggiungere energie del Multiverso capaci di concedere poteri incredibili. Ma per ogni cosa c’è sempre un prezzo da pagare, per avere bisogna anche dare.
E quello che si sacrifica per il potere è sempre la propria umanità. Non è un caso, anche nella realtà, che le persone più importanti e famose, quelle che hanno raggiunto le posizioni più ambite, quali possono essere politici, manager, industriali, appaiono come individui distanti, freddi, incapaci d’empatia per il prossimo: impegnati nell’accumulare potere e scalare posizioni per averne sempre di più, quindi occupando sempre più tempo in questo compito, hanno dovuto togliere spazio ai rapporti umani, ai sentimenti, divenendo sempre più lontani, aridi, insensibili e incomprensibili agli altri. Certo attirano a sé molte persone, ma non è certo per quello che sono, ma per quello che hanno: potere. Tutti ne vogliono, tutti anelano possederlo e sfruttarlo. Quello che però non riescono a comprendere è che è il potere a sfruttarli, non il contrario, lasciandoli vuoti e inservibili quando esso trova un ricettacolo migliore per interagire nel mondo.
Nessun potere merita la perdita di se stessi, della propria umanità; così come nessun pensiero, oggetto o persona può divenire un’ossessione, altrimenti davvero l’esistenza si muta in una maledizione creando un inferno che tormenta sempre più. Anche nel male l’uomo dimostra la sua natura di creatore, fautore di quella regola della vita da lungo tempo conosciuta; per questo mai dovrà cadere nell’oblio il motto tanto famoso dell’Oracolo di Delfi: conosci te stesso.