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L’Ultimo Potere – Secondo Atto – XIV Ceneri (parte 2)

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Aveva perso il conto dei giorni da quando era disceso nel sottosuolo. In quel luogo il tempo sembrava essersi congelato in un’ibernazione dove nulla cambiava, dove la gente ripeteva i soliti gesti in una consuetudine portata avanti per inerzia, dove tutti erano uguali.
Tutti tranne uno.
A pochi metri di distanza, Guerriero rimase a fissare il vecchio seduto su un cumulo di blocchi di cemento: indossava una giacca militare logora e rattoppata, priva di bottoni, che lasciava vedere un grosso maglione pieno di buchi e bruciature; se ne stava con una mano abbandonata su pantaloni neri ingrigiti dalla cenere, mentre l’altra non faceva che lisciare la pelata che aveva in mezzo al capo, sfiorando appena i disordinati capelli grigi che gli ricadevano sulle orecchie. Lo stesso incurante abbandono. La stessa quieta rassegnazione. Uno come i tanti che vivevano lì sotto.
Uno che però non era come gli altri.
Dove gli altri facevano silenzio, lui parlava. Dove la moltitudine passava senza emozioni, lui era bruciato da esse, come se cercasse di compensare quello che gli altri più non avevano o che avevano gettato lontano, come la maggior parte delle cose lì sotto. Quando iniziava a parlare, e quando lo faceva cominciava a scuotere il capo in un modo da spezzare il cuore, si percepiva una viva disperazione: c’erano lacrime asciutte nei suoi occhi. Occhi che vedevano due mondi allo stesso tempo: due mondi che non facevano altro che rammentargli la triste verità che in continuazione rammentava.
«Mi ricordo…mi ricordo tutto. Non dimentico nulla, ogni cosa è impressa nella mia memoria, ogni evento, ogni emozione, ogni attimo trascorso è confinato nelle cellule del mio cervello. Dolcezza, rimpianto, delusione, esultanza: tutto io ricordo. Ogni stagione, ogni età della vita.» Sconsolato scosse il capo. «Ma gli altri dimenticano ogni cosa, come se non avesse importanza, come se fosse cartaccia da gettare.» Mormorò disperato. «Lasciano andare, senza tenere stretto nulla: ogni giorno li vedi come un fiore che perde i petali, finché non rimane più nulla. E a loro non importa. Si lasciano appassire, come se quello che è stato fosse nulla. Loro non soffrono, non si accorgono. Ma io vedo. E fa male. Un male da impazzire.»
Il vecchio non parlava a nessuno in particolare, dava solamente sfogo a pensieri che rischiavano di farlo scoppiare.
«Chi?» Domandò Guerriero.
«Loro.» Il vecchio allargò le braccia come se volesse abbracciare tutti quelli che gli gravitavano attorno. «Si lasciano andare avanti senza vivere. Non c’è più niente in loro. Sono grigi: hanno lasciato sbiadire ogni cosa, come se fossero slavati. Si sono rifugiati in un’amnesia volontaria, un limbo che non li faccia più essere, come se si volessero dissolvere, come se niente importasse più. Vivono in un mondo d’ombre, come se fosse l’unico possibile: un luogo tetro, dove cercano di stare rintanati in angoli i più profondi possibili.»
Guerriero distolse lo sguardo dal vecchio, lasciando che lo sguardo vagasse per l’area. Ascoltando le parole dell’uomo, s’accorgeva degli anfratti di cui era costellata la grande sala: piccole sacche di densa penombra che davano all’ambiente l’aspetto di una cattedrale. Una cattedrale decadente i cui muri trasudavano dimenticanza e dissipazione, come un acido che lentamente e indolore cancellava le memorie, spingendo verso uno stato catatonico.
Il vecchio ripeteva le stesse parole ogni giorno; una nenia che sapeva di preghiera, che parlava di dimenticanza, di ricordi. Che cosa ricordava? A che cosa si riferiva?
Non gliel’aveva chiesto. Forse non lo voleva sapere. O forse già lo sapeva e il vecchio non faceva che parlare di quanto accadeva da sempre nel mondo, in ogni uomo: ci si dimenticava delle cose importanti.
Ma in fondo che importava? Forse quell’uomo era semplicemente impazzito e non c’era nulla di sensato in quanto diceva.
Con un movimento deciso del capo, il vecchio aveva piantato lo sguardo su di lui: nei suoi occhi c’era una lucidità così bruciante che ogni pensiero di follia avuto nei suoi riguardi svanì.
«Non dimenticare mai: è la cosa peggiore che puoi fare. Perché se dimentichi, è come se uccidi due volte.» Gli sussurrò come se stesse confidando il segreto più grande del mondo, raddrizzando per un attimo le spalle. «Ma non dimenticare è una maledizione, un carico di sofferenze se non si può condividere con altri: il peso da portare diventa troppo grande e ti si chiude addosso, togliendoti ogni speranza, acuendo il dolore. I ricordi non fanno resuscitare: sono solo un aquilone che è sfuggito di mano e che il vento spinge sempre più lontano, finché non scompare. Ma l’illusione non abbandona, dice che c’è ancora, che può essere ancora raggiunto, ma non si sa come.» Tornò a rannicchiarsi su se stesso, riprendendo la solita cantilena. «Tutti hanno dimenticato, nessuno si è dato da fare per impedirlo.» Rimarcò con voce rotta dalla disperazione.
Guerriero lo osservò scuotere la testa con forza.
«Ma perché? Perché fanno così? Perché niente dura per sempre? Perché le cose devono cambiare?»
L’ambiente si era di nuovo riempito di persone che si dirigevano da un cunicolo all’altro come tanti rigagnoli prossimi a seccarsi, incuranti della discussione che c’era tra i due. Uomini e donne gli passavano accanto senza degnarli di uno sguardo, senza farsi toccare dalle parole, dalle emozioni del vecchio, come se fosse un pezzo di lamiera o un macchinario inservibile. C’era qualcosa di incommensurabilmente sbagliato in quella scena, strideva come metallo su altro metallo. Le cose non dovevano andare così; non ci doveva essere quella distanza tra esseri della stessa razza. Gli animali, perfino i mutantropi e le chimere, si davano una mano tra loro; e se non era per compassione o solidarietà, almeno sapevano che unendo le forze aumentavano le possibilità di sopravvivenza. Non c’era da stupirsi se l’umanità era stata decimata così in fretta: l’uomo non era più la razza dominante, ma questo non sembrava essere entrato nella testa della gente.
O forse non gliene importava più nulla: era inquietante il livello di lassismo raggiunto.
Temeva però che fosse più di quello. Qualcosa di molto peggio; qualcosa che sapeva di morte.
Le parole gli uscirono come schegge. «Vecchio, perché te la prendi tanto per loro? Nemmeno ti vedono.»
«Perché niente torna più come prima. Perché tutto finisce. Perché tutto muore e non ritorna più. Ma se siamo ancora vivi, perché vivere come se fossimo morti? Perché dimenticare?» Angosciato, il vecchio sbarrò gli occhi. «Sono l’ultimo che si ricorda. E tu non sai quanta solitudine e desolazione c’è nell’essere l’ultimo. Tutto perde sapore, niente ha più senso.»
L’affermazione colpì Guerriero più di quanto credesse, seguendolo anche quando s’allontanò. Com’era possibile che cose di valore potessero essere dimenticate? Foglie portate via dal vento, il prezzo da pagare per sopravvivere, per poter andare avanti.
Quanta tristezza: era una sensazione che sapeva di fine, quell’amarezza che s’attaccava al palato e impastava tutta la bocca. Una sensazione che sapeva di perduto, d’irrimediabile. Forse era questo l’andare avanti: era il dimenticare, il dissolversi. La morte di ogni cosa. Sollievo e disperazione. Dimenticare la sofferenza, ma anche la felicità, perché tutto fosse limbo, solo una vita di quieta disperazione.
Guerriero s’addentrò nella penombra di un sottosuolo di cui non conosceva la via per uscirne.

Come sospettato dopo essere sceso oltre il livello della metropolitana, si era ritrovato in una città sotto la città. Centinaia di persone vivevano in quel luogo, in un’esistenza che si poteva dire non essere malvagia; di certo era molto migliore di quella degli altri esseri umani che aveva incontrato nei suoi spostamenti. Aveva dato uno scorcio ai magazzini ed erano riforniti per decenni; stessa cosa valeva per comodità e servizi dati dalla tecnologia. Avevano tutto quello che serviva senza avere la minaccia di Demoni, Posseduti o mutantropi; potevano condurre un’esistenza normale, come doveva esserlo stata un tempo. Eppure pareva che questo non avesse alcun valore. Vivevano come sbandati, senza organizzazione, senza una struttura di base: ognuno andava per i fatti propri, senza sapere quali fossero, senza accorgersi della fortuna che avevano. Anche se trasandato, era un mondo ricco: era come se tutte le cose della superficie fossero finite lì sotto. C’erano montagne di vestiti, suppellettili per la casa, macchine utensili e, elemento molto utile, armi: erano state accumulate disordinatamente, ma separate in base al genere; poi erano state abbandonate, quasi dimenticate: la gente gli passava accanto accorgendosi della loro presenza solo per non urtarle.
Stessa cosa valeva per i macchinari che tenevano in vita quel posto, riscaldandolo, dandogli aria pulita, acqua potabile e naturalmente energia elettrica. Realizzazioni tecnologiche che si stendevano nei livelli sotto i suoi piedi, affondando cavi e condotti nelle viscere della terra per ottenere l’alimentazione di cui necessitava. Una tecnologia avanzata, come gli aveva narrato Vecchio, ma che lentamente sarebbe divenuta inutilizzabile, dato che su di essa non veniva fatta alcun tipo di manutenzione. I segni erano già visibili nei corridoi e nelle zone abitate con cavi penzoloni e neon fulminati. Non sarebbe avvenuto subito, forse fra qualche decina d’anni, ma sarebbe accaduto: tutto avrebbe smesso di funzionare.
Non riusciva a capire: poteva essere un luogo dove vivere comodamente e tranquillamente e invece non era che un gigantesco magazzino dove uomini e oggetti stavano ammassati senza un ordine, come cose dimenticate e gettate in un angolo per capriccio o negligenza.
«In un mondo di fantasia…»
S’accorse dell’arrivo dell’uomo prima ancora che spuntasse dai cumuli d’oggetti che facevano sembrare il magazzino una regione montuosa in miniatura. Sempre le stesse cinque parole pronunciate in una nenia dolce che usciva da un corpo adulto con voce da bambino.
Ciondolando, con passo strascicato, l’uomo uscì da dietro una montagna di piatti e bicchieri, canticchiando con tono sognante il ripetitivo motivo. Il capo chino, teneva lo sguardo sul pavimento o forse sul libro che teneva stretto al petto con entrambe le braccia. Le dita erano saldamente chiuse sulla copertina di cuoio verde dello spesso volume.
Gli passò davanti, incurante della sua presenza, le spalle ingobbite verso il basso, andando a sedersi a una decina di metri di distanza su una pila di cuscini con la gommapiuma che usciva dalle cuciture sfilacciate. Con le gambe incrociate, prese a dondolarsi avanti e indietro, come se stesse cullando un bambino.
«In un mondo di fantasia…»
Le parole erano una ninna nanna sconfortante visto da chi erano pronunciate: un bambino in un corpo d’uomo, un corpo che si era sviluppato fino a giungere a maturazione, ma che non era stato seguito dalla mente. Un bambino mai cresciuto, rimasto solo in un mondo spietato. Non sapeva come aveva fatto a sopravvivere, ma se la vita avesse avuto un po’ di pietà lo avrebbe tolto di mezzo, non avrebbe permesso che una creatura docile e indifesa continuasse a soffrire. Ma la vita sapeva essere bastarda e crudele, perfino indifferente. O forse semplicemente non era affar suo: una volta messa al mondo una creatura, non era suo compito assicurarsi che le cose andassero bene, fossero giuste. La vita era una forza, non una balia. Questo però non cancellava né la tristezza, né l’amarezza nel vedere certe situazioni.
«In un mondo di fantasia…»
“Povero uomo.” Guerriero appoggiò la nuca al muro, chiudendo gli occhi per risparmiarsi il tristo spettacolo. Ma il dolore che provava sentendo la voce infantile non poteva essere celato, non poteva essere abbandonato.
Un urlo straziante rimbalzò sui pilastri, facendolo scattare in avanti con le pistole spianate.
L’uomo si stava dimenando selvaggiamente, come se avesse un attacco epilettico, scalciando, rotolandosi al suolo.
Una donna era davanti a lui, lo sguardo solcato da un’annoiata sorpresa. Vedendolo con le armi in mano fece spallucce. «Volevo solo vedere la copertina del libro e s’è messo a strillare. Deve essere matto del tutto.» Abbozzò un sorriso, come se volesse renderlo complice del suo commento.
«Lascialo in pace.» Le intimò freddamente Guerriero.
La donna s’affrettò ad allontanarsi, come se fosse stata scottata da una grossa fiamma. La degnò di una sola occhiata, tornando a fissare l’uomo che lentamente si stava tranquillizzando. Imbronciato, se ne rimase accartocciato sui cuscini con il libro ancora più stretto tra le braccia, uno sguardo torvo che non aveva nulla di minaccioso, che era soltanto buffo: era come vedere un bimbo che teneva stretto il suo giocattolo, unico rimasuglio d’affetti e di una vita che non sarebbero più tornati. La mente dell’uomo mai divenuto tale, se ne rendeva conto o aveva l’illusione che tenendo stretto il libro, le cose prima o poi sarebbero tornate come prima?
Gli si fece più vicino vedendo un gruppo di persone girargli attorno. La sua presenza fece allontanare i nuovi venuti. Forse non c’era nulla da temere lì sotto visto che non c’erano atti di violenza, ma l’abitudine con il mondo di sopra era ben radicata e riteneva scontato che un gruppo attaccasse un individuo isolato e indifeso: era normale che il più debole soccombesse. Quante volte aveva distolto lo sguardo o si era allontanato da situazioni come quella, lasciando che la legge della sopravvivenza facesse il suo corso.
Ma non in quel caso. Perché?
S’inginocchiò di fronte all’uomo a tre metri di distanza. L’altro non se ne accorse nemmeno, tutto preso nello stringere il tomo che teneva tra le braccia: un libro di fiabe.
Guerriero strinse le labbra. Una sensazione amara gli scorse lungo la gola, sentendo il cuore stringersi. Lo aveva sempre saputo, ma solo in quel momento avvertì con forza l’ingiustizia del mondo, la sua crudele insensatezza. Lasciandosi cadere su un cumulo di giornali sbiaditi, rimase a guardare l’uomo come fosse la sua immagine riflessa in uno specchio.

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