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Alzheimer - Un'infinita tristezza.

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Lino, protagonista malato di Alzheimer in Una sconfinata giovinezzaL’Alzheimer è una delle peggiori malattie perché porta via tutto a una persona: la dignità, la memoria, gli affetti. Soprattutto, non fa sapere nemmeno più sapere chi si è, lasciando completamente indifesi e alla mercé di chiunque, facendosi sfruttare perché ci si fida di chiunque, bastando un sorriso o una parola gentile per affidarsi al primo che passa.
Già era stato preso a esempio, ma perfetto nel mostrare questa realtà è il film Una sconfinata giovinezza di Pupi Avati, ma non solo questo: riesce perfettamente a mostrare il regredire delle persone, il loro perdere contatto con la realtà, vivendo in un mondo tutto loro. Un mondo che non esiste e non può esistere più, perché è il passato che loro hanno vissuto, ma che è assolutamente inconciliabile con il presente, che si scontra con esso. Ed è proprio questo scontro che rende spaesati, impauriti le persone colpite di Alzheimer, proprio come dei bambini che scoprono il mondo. Bambini in corpi di adulti che rivivono il proprio passato in quella che può sembrare, come dice il titolo del film, una sconfinata giovinezza, ma che è invece una profonda e infinita tristezza; perché non si può fare assolutamente nulla per loro.
Non esistono medicine che li possono guarire o far stare meglio.
Non ci sono parole che li possono consolare o far comprendere quello che stanno vivendo, chiusi come sono nel loro guscio che si fa sempre più piccolo.
Si può solo stare a guardare, consapevoli che tutti gli sforzi cadranno nel vuoto, che si è impotenti di fronte a qualcosa di più grande delle proprie capacità, vivendo una tristezza senza fine perché in tutto ciò non c’è speranza. Ed è emblematica di ciò una delle ultime scene del film dove Lino, il protagonista del film, parte per un sentiero in mezzo a un campo alla ricerca del suo cane.

Malattia come insegnamento

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Spesso si sente dire che nulla accade per caso: il più delle volte non si riesce a comprendere il motivo del verificarsi di certe condizioni, ma se si fa attenzione ci si accorge che accadono in prossimità di un cambiamento, di una svolta, quando c’è necessità d’imparare qualcosa.
Si potrebbe dire che l’inconscio è all’opera e fa andare verso la direzione di cui si ha bisogno in un determinato momento, una sorta d’attrazione verso qualcosa utile all’evoluzione, all’andare avanti: quindi, anche se inconsapevolmente, siamo noi stessi i fautori di quanto andiamo incontro, di ciò che ci capita.
Oppure, possono essere le forze dell’universo ad agire, intervenendo per riequilibrare situazioni che hanno preso una piega sbagliata, una sorta di reazione uguale e contraria all’azione perpetrata. Può sembrare una teoria assurda o fantastica, ma non da accantonare, dato che non si ha che una minima conoscenza delle leggi e delle energie che pervadono tutto quanto è esistente.
Quale che sia la realtà, chi ha avuto modo di viverla sulla propria pelle, sa che una malattia cambia il modo di vivere, d’approcciarsi alle cose; in un certo modo si può vedere come un insegnamento, un intervento per bloccare un modo di fare sbagliato e mettere sull’avviso di non tornare a perseguitare certe scelte e atteggiamenti.
Su questi basi sorge una riflessione. Già in un post precedente ho parlato dell’Alzheimer, una malattia che praticamente è l’opposto dell’evoluzione, un’involuzione che fa regredire una persona adulta un passo alla volta agli stadi precedenti: giovinezza, adolescenza, infanzia. Sempre più persone in tutto il mondo sono colpite da essa.
Certo le condizioni di vita, le scelte personali, l’ambiente che non aiuta l’individuo, la privazione di scopi e motivazioni, il non mantenersi attivi, sono fattori determinanti nello sviluppo di questa malattia.
Ma se il progredire di essa fosse un modo per mettere sull’avviso della necessità di dover modificare un sistema completamente sbagliato, arido, insensibile, un modo per riscoprire quell’innocenza, quella semplicità tipica dei bambini? Un tornare a occuparsi di cose più sane quali il vivere a contatto con la natura, a riscoprire i rapporti con le persone e soprattutto a dargli quell’attenzione che meritano, a seguirle, saperle ascoltare e comprenderle? E se questo fosse un modo di riscoprire la nostra umanità, dopo che istituzioni, media, mode, hanno fatto di tutto per sradicarla?
Perché è questo che deve fare chi segue un malato d’Alzheimer: deve prestargli attenzione, seguirlo, acquisire una sensibilità, una comprensione che magari prima non possedeva, deve andare in profondità nel proprio essere e far venire alla luce quelle capacità che aveva, ma che non sapeva di avere.

Malattie e società

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In un post di tempo fa scritto che la società in cui viviamo è una malattia; malattia che ha tante forme per colpire. Lo stile di vita che si attua condiziona la salute di una persona e può influire in maniera più o meno grave: depressioni, stati psicologici ossessivo-compulsivi, tumori.
Ciò su cui mi sono soffermato ad analizzare è solo una fetta di una grossa torta poco gradevole. In un altro post ho parlato dall’Alzheimer, una malattia che sta prendendo sempre più piede: il numero di persone colpite cresce esponenzialmente, i dati riportati danno un quadro della situazione allarmante.
Riassumendo in breve come agisce questo morbo, si tratta di un’involuzione: parti del cervello smettono di funzioanre, come quando avviene un black out in una città e si cominciano a spegnere le luci, partendo dal centro fino ad arrivare alla periferia. Si perde la facoltà d’agire da soli; si riesce a mantenere una certa autonomia finchè i neuroni a specchio funzionano.
E’ questo il punto che mi fa riflettere.
Un neonato sviluppa le proprie facoltà partendedo dall’imitazione, facendo ciò che vede fare: da lì si sviluppano i processi mentali conosciuti e che permettono di divenire una persona indipendente. Col malato d’Alzheimer si va a ritroso: invece di crescere, si decresce.
Ma come si arriva a questo punto? Quali sono le cause?
Genetiche? L’alimentazione? I conservanti o le manipolazioni genetiche avvenute nel cibo? L’inquinamento?
La medicina sta cercando di scoprirlo.
Quanto riporto è una riflessione personale, non ha nulla di scientifico: è solo una riflessione nata da un’osservazione.
Viviamo in una società dove poca gente ragiona con la propria testa, appoggiandosi a quanto dicono gli altri: una grossa fetta d’influenza viene dai media, specie la televisione. La gente si adegua a quando trasmesso da tale mezzo, magari anche inconsciamente (la goccia che cade sulla roccia e che lentamente la frantuma): si seguono mode (di parlare, di vestire, di comportanrsi), ci si adegua a modi di pensare che non sono propri, ma quelli voluti da chi sta in alto, considerato portatore dei valori e dei voleri della maggioranza.
Media, famiglia, amicizie, lavoro: sono tutti sottosistemi facenti parte di un sistema più grande, che bombardano, sollecitano costantemente la mente umana. In un ambiente del genere i neuroni specchi sono portati a un lavoro continuo, sono sovraccaricati. Si sa che essere sempre sulla corda, senza mai un attimo di pausa comporta un crollo: è naturale. C’è sempre un prezzo da pagare, prima o poi.
Se ciò è vero, questo modo di vivere comportante un continuo adeguarsi e imitare può predisporre, se non far scaturire, questa malattia che si fa sempre più largo e colpisce fasce d’età sempre più giovani (oggi ci sono casi di persone colpite sotto i sessant’anni, non solo oltre gli ottanta o i settanta). L’uso smodato dei neuroni a specchio porta l’atrofissazione delle altri parti del cervello; può esserci un nesso tra i fattori appena elencati.
Certo, scoprire una cura a questa malattia è importante; anche solo trovare un modo di bloccarla e non farla evolvere. Ma più di tutto occorre lavorare sulla prevenzione. Alle volte uno stile di vita equlibrato conta molto di più delle medicine; uno stile di vita naturale, che rispetta l’individuo per ciò che è (ognuno deve essere se stesso, non esiste la ricetta universale: deve trovare ciò che lo fa stare al centro dell’essenza che possiede), rende felici e quindi sani. Non è un caso che quando si è felici si sta meglio e quindi più resistenti alle malattie (quando non ci si ammala affatto).
E questo comporta un’altra deduzione: se ci sono tante malattie, significa che le persone non sono felici dell’esistenza che conducono.
Il sistema di vita tanto decantato e pubblicizzato è sbagliato.

Una sconfinata giovinezza

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Non si tratta di una recensione sul film realizzato di Pupi Avati, ma un modo per parlare della tematica affrontata da questo film. Un tema legato a un evento avvenuto tempo fa, ma che è passato inosservato, a causa dell’attenzione volutamente distolta dai problemi reali di cui ci si dovrebbe occupare; problemi legati alla gente che si dovrebbe aiutare e supportare.
Il 21 settembre è stata la giornata mondiale sull’Alzheimer.
Simili giornate non risolvono il problema di malattie del genere, ma aiutano a sensibilizzare, a farne comprendere la gravità e la portata. Questa malattia colpisce doppiamente, infierendo sulla vittima, ma anche alle persone che le sono a fianco.
Andiamo con ordine.
L’Alzheimer (detto anche morbo di Alzheimer) è una malattia che colpisce i tessuti cerebrali delle persone anziane, causandone una degenerazione che va a influire sulle funzioni di chi è colpito, portando un’involuzione nella vita che vive.
E’ come vedere il processo di crescita di un bambino, ma al contrario.
Il bambino crescendo impara, sviluppa capacità, divenendo indipendente e autosufficiente.
Nell’anziano colpito dal morbo si verifica un cammino a ritroso, un tornare indietro; da persona matura capace di badare a se stessa con il passare del tempo e l’avanzare della malattia si ritorna a passaggi evolutivi già affrontati e superati: adolescenza, giovinezza, fanciullezza. Ci si ritrova ad avere a che fare con adolescenti, bambini che hanno il corpo di un anziano.
Si tratta di un processo lento che si manifesta dapprima con lievi disturbi della memoria, piccole dimenticanze a cui non si fa caso, che vanno mano a mano intensificandosi; si manifestano alterazioni dell’umore, da euforia a tristezza, da iperattivismo ad apatia, come avviene con i giovani nel passaggio dell’adolescenza, fino ad arrivare ad atteggiamenti infantili, come quando i bambini fanno i capricci e mettono il muso o si lamentano perché le cose non vanno come vogliono loro.
Lentamente la persona scivola via, trovando difficoltà nel fare le cose, non riuscendo più a essere in grado di fare ciò che faceva prima: disimpara tutto, il linguaggio si fa limitato, si trovano difficoltà ad associare oggetti a parole, non si riesce a definirli, si perde la cognizione del tempo passato e presente, li si confonde, rivivendo eventi che non sono più.
Anche le cose più elementari diventano un problema, come può esserlo per un bambino che muove i primi passi nel mondo. La persona malata, spaventata e spaesata, con le funzioni che si fanno sempre più limitate, va per imitazione, ripetendo gesti che vede compiere perché da sola non è più in grado di sapere come e cosa fare (ad esempio osserva un altro usare la forchetta per mangiare e fa così anche lei); i neuroni specchio sono tra i pochi che ancora funzionano.
Ma arriva il momento in cui anche loro ne sono colpiti e il malato arriva a non essere più autosufficiente: va seguito e accudito come un bambino. Non riesce più a parlare, va imboccato, lavato; non sa più dove si trova, cosa deve fare. Non sa più chi è, non riconosce più nessuna delle persone care; è soggetto ad allucinazioni, incubi lucidi e vivi fatto da sveglio.
Fino a quando non sopraggiunge la morte, perchè la malattia arriva infine a portare disturbi neurologici e poi internistici.
Un atto che pone fine alle sofferenze di una persona morta da tempo.
Una crudeltà questa affermazione?
Solo la dura realtà perchè la persona malata non è più la persona che si è da sempre conosciuta: quella persona non esiste più, è finita.
Guardate le immagini.

La prima è un cervello sano; la seconda un cervello colpito dall’Alzheimer.
Si tratta di un simbolo di morte di una malattia bastarda che porta via tutto alla persona, ma anche i bei ricordi che i familiari hanno di lei.
Una malattia che non si ferma solo al malato, ma colpisce e infierisce anche su chi le sta accanto.
Le relazioni sociali e familiari si riducono, ogni interesse, hobby personale viene messo in secondo piano per seguire la persona, fino a quando non si vive esclusivamente per accudire il malato. Oltre alla stanchezza fisica per un compito che lascia poco spazio anche per il sonno, ci si ritrova a convivere con la rabbia, il senso d’impotenza e la perdita della speranza perché non c’è nulla da fare contro questa malattia, non esistono cure.
E ci si ritrova isolati, abbandonati dalla gente, lasciati a se stessi dalle associazioni, dagli enti, dagli amici. E l’isolamento è una carogna come l’Alzheimer: può far ammalare di depressione e altri disturbi psicologici.
Sì, l’Alzheimer è una malattia che richiama altre malattie, che indebolisce le difese di chi assiste, un pò come succede con l’Aids. E’ una sofferenza straziante, resa ancora più forte dall’indifferenza e dal distogliere lo sguardo da chi è colpito da parte della società e delle persone che la compongono.
Fino a quando si potrà non voler vedere?
L’Alzheimer è una piaga dilagante che colpisce solo in Italia un milione di persone. Malati invisibili, famiglie provate psicologicamente, socialmente ed economicamente, dato che sono poche le strutture per supportare le persone colpite dal morbo e che spesso sono i familiari a dover accudire e seguire.
Questi sono i problemi di cui le persone, i governi dovrebbero occuparsi, non dispuste sterili su chi deve tenere la poltrona o qualche altro argomento di poco conto, sterile e superficiale.
L’Alzheimer fa dimenticare. Non dimentichiamoci delle persone che ne sono colpite e dei loro familiari.
Soprattutto riscopriamo la solidarietà, non fuggiamo di fronte alle difficoltà, perché non si può sapere per chi suona la campana: nessun uomo è un’isola, potendosi considerare indipendente dal resto dell’umanità.