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Fuga dal pianeta delle scimmie

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Fuga dal pianeta delle scimmieFuga dal pianeta delle scimmie si mantiene più o meno sul livello del secondo film, L’altra faccia del pianeta delle scimmie, ovvero si va di perplessità e scivoloni. Nella pellicola precedente, la Terra del futuro viene distrutta completamente da una potente testa nucleare, ma prima che questo avvenga, Zira e Cornelius si salvano fuggendo dal pianeta con l’astronave di Taylor precipitata in un lago, che è stata recuperata e riparata dal dottor Milo. E qui ci sono le prime grandi perplessità. Uno, come hanno fatto a tirarla fuori dall’acqua con i mezzi che avevano? Due, come hanno fatto a ripararla avendo una tecnologia inferiore a quella dell’astronave?
Non bastasse questo, l’onda d’urto che colpisce l’astronave in volo la spedisce indietro nel tempo, facendola finire nella Terra abitata ancora dalla civiltà umana. Zira, Cornleius e Milo finiscono in uno zoo, trattate come scimmie comuni, almeno fino a quando non si scopre che sanno parlare. Milo muore praticamente subito ucciso da un gorilla, mentre Zira e Cornelius diventano praticamente delle star, finendo sotto l’attenzione sia dei media, sia del pubblico, sia del governo. Almeno fino a quando non hanno a che fare con il dottor Otto Hasslein, che li vede come una minaccia e vuole scoprire cosa è accaduto all’umanità nel futuro; durante l’interrogatorio, oltre a raccontare il conflitto che ha portato alla distruzione del pianeta e la convinzione (più che convinzione) trasmessa che l’uomo distrugge se stesso e quanto ha a che fare con lui, si scopre che un’epidemia aveva sterminato cani e gatti, facendo così divenire le scimmie gli esseri scelti dall’uomo come animali domestici; col passare del tempo le scimmie presero consapevolezza della loro condizione e si ribellarono agli esseri umani.
Sempre più convinto che Zira, Cornelius e il piccolo che lei porta in grembo siano una minaccia (specie dopo aver saputo che Zira aveva dissezionato umani nel suo lavoro), il dottor Otto Hasslein ha l’ok del presidente degli Stati Uniti a sterilizzare la coppia e sopprimere il futuro nascituro. Zira e Cornelius scappano e, aiutati da due umani, si rifugiano in un circo, ma lo spietato dottore continua a dargli la caccia, uccidendo loro e il piccolo da poco nato. Tuttavia, quello che viene ucciso non è il piccolo della coppia, ma una scimpanzè da poco nata nel circo dove si erano rifugiati; Milo, questo il nome del loro figlio, è rimasto nel circo sotto la protezione del proprietario del circo.
Se non fosse per l’escamotage per fare un seguito della serie, che a mio avviso fa cascare un po’ le braccia, e per certi dettagli che lasciano un poco a desiderare, Fuga dal pianeta delle scimmie non sarebbe un film malvagio, ha degli spunti interessanti, anche se non sono molto innovativi: qui si ribaltano i ruoli che si avevano nel primo film (sono le scimmie intelligenti e parlanti a essere viste come attrazione, curiosità e anomalia), ma il copione rimane sempre lo stesso, ovvero che alla fine, in qualsiasi società ci si ritrovi, il diverso viene visto come qualcosa che va eliminato. L’unica cosa a mio avviso meritevole è il fatto che il film fa da anello di congiunzione tra il passato della Terra (il presente in cui sono finite le scimmie) e il suo futuro (il mondo in cui vivevano le scimmie), con gli eventi che si verificano che determinano quello che dovrà accadere; in poche parole, sono gli stessi umani, inconsapevolmente, a creare il proprio destino, costruendo così un fato ineluttabile: se non avessero inviato l’astronave alla ricerca di un nuovo mondo, le scimmie intelligenti non sarebbero potuto arrivare, mettendo così il seme della nuova stirpe che col tempo si sarebbe sviluppata fino a essere dominante.

The Fabelmans

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The FabelmansThe Fabelmans è stato uno dei film di Spielberg che non ha avuto un gran successo a livello d’incassi (per il regista è stato il peggiore), probabilmente perché il pubblico da lui si aspetta azione, avventura, effetti speciali come con i vari Indiana Jones, Jurassic Park, Incontri ravvicinati del terzo tipo, E.T., Lo squalo, tanto per citarne alcuni, ed è un peccato, perché si è dinanzi a un buon film. In esso c’è molto del regista e attraverso Sammy, il protagonista, rivela com’è nata e si è sviluppata la sua passione per il cinema: i suoi primi lavori, dai due treni giocattolo che si scontrano tra loro a un cortometraggio western e uno di guerra, mostrano il suo cammino di crescita nella realizzazione di pellicole. Seppur tutto sia interessante, la parte più forte è quella intimista, ovvero come la sua passione ha influenza sul suo guardare il mondo, sulla sua crescita e soprattutto su come vede e conosce la sua famiglia, cosa che lo turba non poco; una delle parti migliori del film è il dialogo che ha con lo zio Boris (ex domatore di leoni), venuto a trovare la famiglia dopo la morte della nonna, che gli spiega come l’arte lo lacererà, lo farà soffrire e creerà divisioni con gli altri, ma che non potrà fare a meno di seguirla. Lo zio gli spiegherà che proprio seguire la sua passione aveva portato una frattura con la sorella (la nonna di Sammy), cosa che aveva infuito anche su Mitzy, la madre di Sammy, che aveva sacrificato la sua vocazione (era una pianista) per le pressioni fatte dalla nonna, contraria al seguire la strada dell’arte.
Cosa che si presenta anche nel rapporto tra Sammy e suo padre, ingeniere elettronico, che vede la passione del figlio come un semplice hobby che dovrebbe lasciar perdere per cercare di fare qualcosa di utile per la società. Ciò crea dei contrasti in famiglia, non solo tra padre e figlio, ma anche tra i genitori, con la madre che lo supporta mentre il padre cerca di scoraggiarlo tutte le volte che può. A un certo punto Sammy pensa di abbandonare tutto non tanto per accontentare il padre, quanto per il fatto che attraverso le riprese che fa scopre il legame sentimentale che c’è tra la madre e Bennie, il miglior amico di famiglia.
A questo periodo difficile della sua adolescenza si aggiunge il trasferimento nella nuova scuola, dove viene preso di mira per essere ebreo.
Il pubblico non avrà saputo apprezzare The Fablemans, ma si è dinanzi a un film fatto bene, sensibile e anche profondo, che merita di essere visto. Promosso a pieni voti.

L'altra faccia del pianeta delle scimmie

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L’altra faccia del pianeta delle scimmieSe Il pianeta delle scimmie mi era piaciuto, il suo seguito, L’altra faccia del pianeta delle scimmie mi ha lasciato perplesso e non poco. Il film riprende da dove finisce il precedente, con Taylor e Nova che viaggiano nella Zona Proibita; tutto sembra tranquillo, fino a quando dal nulla compaiono fiamme e fulmini. Taylor va a controllare e sparisce nel nulla, lasciando da sola la povera Nova, che però non rimane poi tanto da sola: nella Zona Proibita precipita un’altra astronave terrestre, mandata in missione per ricercare la precedente nave.
Questo è il primo punto che mi fa storcere il naso. Uno, se la missione precedente doveva durare settecento anni, perché mandarne un’altra? Due, anche se l’astronave è partita dopo, come fa ad arrivare praticamente nello stesso posto e nello stesso momento? C’è per caso un wormole? Mi sembra essere una bella forzatura, ma di quelle belle grosse, così grosse da essere assurde. Non potevano limitarsi a seguire le vicende di Taylor e Nova nello scoprire la Zona Proibita? Questa sarebbe già stato interessante e invece hanno voluto metterci un altro arrivo dalla Tera del passato.
E figurati se anche questa missione può andare bene: l’astronave si schianta e sopravvive solo un membro dell’equipaggio, Brent, che naturalmente incontra Nova e scopre che Taylor è giunto lì come lui.
Nel mentre, le scimmie, sotto la pressione del gorilla Ursus, cui si oppone il professor Zaius, vogliono invadere la Zona Proibita e poterla sfruttare. Altro punto che lascia perplessi: se la consideravano arida (e la pensano così da secoli) perché ora la vogliono usare? E poi perché invaderla, se non sanno se è abitata o deserta? Il tutto si basa sul fatto che gli esploratori mandati là non sono mai tornati.
Presi dalle scimmie (copione che si ripete), Brent e Nova, con l’aiuto di Cornelius e Zira, fuggono, finendo in una grotta che si rivelerà essere una stazione della metropolitana di New York. Arriveranno così nei resti di New York ed entrano in una cattedrale, dove scoprono una società di discendenti dei sopravvissuti dell’olocausto nucleare, individui in apparenza normali (portano maschere che simulano la pelle umana, perché in realtà la loro è deturpata a causa delle modifiche subite dagli antenati dalle radiazioni) ma dai grandi poteri telepatici, capaci di leggere la mente, controllarla e creare illusioni. Non bastasse questo a renderli poco normali, ci si mette che adorano come dio una bomba atomica non esplosa. Lasciamo correre l’evoluzione di questa nuova specie umana, lasciamo perdere cosa adorano, ma che dopo duemila anni una bomba atomica sia in perfetto stato come se fosse stata appena fabbricata lascia alquanto perplessi. Ma andiamo avanti.
Si scopre che Taylor è ancora vivo, catturato dai telepati. E con l’esercito di scimmie che sta per invaderli, gli umani mutati che fanno? Fanno combattere Taylor e Brent tra loro per divertimento, tanto hanno già deciso di far esplodere la bomba. L’intervento di Nova interrompe la connessione che i telepati avevano sui due, ma questo serve a poco: gli scimmie invadono la cattedrale, Nova muore e poco dopo la segue Brent. Taylor, anche lui ferito mortalmente, cerca di disinnescare la bomba, chiedendo aiuta a Zaius, che però si rifiuta; con le ultime forze, pieno di rabbia, attiva la bomba, distruggendo completamente il pianeta.
L’altra faccia del pianeta delle scimmie ha troppi buchi per poter essere credibile e apprezzabile e non conta che fosse un b movie: ce ne sono tanti che si lasciano guardare e sanno pure divertire. E invece con questa pellicola è spesso un “ma che cavolo”. Peccato, davvero un peccato, perché il film precedente era valido (nonostante delle ingenuità), mentre L’altra faccia del pianeta delle scimmie conferma la regola che i seguiti spesso non sono all’altezza.

Il pianeta delle scimmie

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Nel 1968 Il pianeta delle scimmie ha lasciato un segno nell’ambito della fantascienza; derivato dal romanzo del 1963 di Pierre Boulle La Planète des Singes, il film ha dato il via a un filone vivo ancora oggi e non soltanto per quanto riguarda le pellicole cinematografiche. Devo ammettere che ancora oggi Il pianeta delle scimmie conserva un certo fascino e seppur siano passati quasi sessant’anni dalla sua uscita si mantiene ancora interessante anche sotto l’aspetto visivo; rivisto poco tempo fa (mi ricordavo davvero poco della prima visione, ero bambino), mi ha preso più degli ultimi film (quelli usciti dopo il remake del 2001, compreso).
Perché ho voluto riverderlo?
Avevo dei ricordi frammentari della serie televisiva uscita negli anni 70 ma la memoria che avevo di essa era positiva e ho voluto vedere se il giudizio rimaneva positivo rivedendo il primo film da adulto; devo dire che il riscontro è stato buono, benché la storia abbia qualche ingenuità ed errore. Un gruppo di quattro astronauti nel 1972 viene mandato nello spazio su un’astronave alla ricerca di un nuovo pianeta da popolare; essendo il viaggio lungo, vengono ibernati. Le cose però non vanno come dovrebbero: l’ibernazione che avrebbe dovuto durare settecento anni, in realtà, stando al calendario di bordo, è durata più di duemila anni. Ma i guai non finiscono qui: l’astronave, attratta da un pianeta desolato, precipita in un lago, finendo inabissata, senza contare che che uno dei membri dell’equipaggio, l’unica donna del gruppo, è morta durante l’ibernazione per un problema della sua cabina.
I tre sopravvissuti iniziano a esplorare il pianeta, che dapprima sembra inspitale, ma poi scoprono essere abitabile; mentre fanno un bagno i loro vestiti vengono rubati da un gruppo di uomini selvaggi e poco dopo sono attaccati da un gruppo armato di gorilla a cavallo. Uno viene ucciso, uno stordito e il terzo, Taylor, viene ferito alla gola da un colpo di fucile, perdendo per qualche tempo la voce. Scambiato per uno dei tanti selvaggi, viene rinchiuso in una delle celle di uno specie di zoo all’interno di una città abitata da scimmie capaci di parlare e con una tecnologia pre industriale.
Il Pianeta delle scimmieCon il suo modo di fare attira l’attenzione della veterinaria Zira e del suo compagno, l’archeologo Cornelius, venendo chiamato Occhi Vivi perché dimostra di avere un’intelligenza evoluta, a differenza degli altri umani che sono considerati poco più di animali da cacciare o su cui fare esperimenti. Riuscito a scappare una prima volta, scopre con orrore che il compagno morto è stato imbalsamato e usato come attrazione in un museo; ritrova la voce quando viene ricatturato destando grande scalpore tra le scimmie, attirando soprattutto l’attenzione del professor Zaius, che ha molta paura di lui e per questo vuole lobotomizzarlo, come ha già fato con l’altro suo compagno sopravvissuto. Sottoposto a processo, viene difeso da Zira e Cornelius che vogliono dimostrare che è l’anello mancante della loro teoria, ovvero che le scimmie discendono da un’antica specie umana intelligente. Assieme al nipote Lucius, Zira e Cornelius liberano Taylor e Nova, una donna primitiva che aveva condiviso la cella con lui, e si recano nella Zona Proibita, un posto dove ci sono grotte con resti della civiltà umana.
Zaius, a capo di un manipolo di soldati, li raggiunge, ma viene catturato. Zira e Cornelius, portandolo dentro la grotta, gli mostrano degli oggetti (occhiali, dentiera e una bambola parlante che, piccola nota, dopo duemila anni non dovrebbe neppure più esistere, figurarsi parlare, dato che le batterie dovrebbero essere belle che andate) che Taylor riconosce. Con loro sorpresa, Zaius rivela che già sapeva la verità e che un tempo era davvero esistita una civiltà umana evoluta: fu lei a rendere la Zona Proibita il deserto che è tutt’ora. Taylor non crede alle sue parole ma viene lasciato andare via assieme a Nova. Il finale di Il pianeta delle scimmie è per me una degna conclusione della storia: cavalcando sulla spiaggia arriva a ciò che resta della Statua della Libertà e comprende il significato delle parole di Cornelius e perché teme tanto la razza umana, oltre a capire che il pianeta in cui si trova è la Terra dopo duemila anni, distrutta da un conflitto nucleare capace di distruggere la civiltà facendo regredire gli uomini a bestie ed evolvere le scimmie.
A parte alcune sciocchezze (la bambola che esiste e funziona ancora dopo duemila anni, il perché dopo duemila anni le scimmie abbiano scoperto le armi da fuoco ma non il motore (almeno quello a vapore) o l’elettricità), Il pianeta delle scimmie è un film interessante con il ribaltamento dei ruoli (l’uomo usato come cavia e gli animali che si comportano come persone) e un messaggio per niente banale contro la stupidità umana, la sua arragonza e l’essere l’unica specie capace di distruggere tutto. Bella la citazione durante il processo di una frase, parafrasata, di La fattoria degli animali di Gearge Orwell “Some apes, it seems, are more equal than others” (“Certe scimmie, a quanto pare, sono più uguali delle altre”).

Siamo in pieno 1984

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1984In tanti avranno sentito le parole di Trump sulla questione Ucraina: Zelensky è un dittatore, non è stato eletto, l’Ucraina non doveva iniziare il conflitto, la Russia non è l’aggressore. Per una persona con un minimo di raziocinio, che non sia di parte, queste affermazioni appaiono come quelle di una persona in totale malafede o come i deliri di uno che non ci sta molto con la testa. Oppure di uno che semplicemente sta facendo il proprio interesse infischiandosene della realtà e della verità (sarà interessante vedere come se la caverà l’attuale governo italiano guidato dalla Meloni, dato che dall’inizio del conflitto ha sostenuto Ucraina e Zelensky ma che da quando è diventuo presidente ha ampiamente sposato la politica e le scelte di Trump). I più pragmatici (o magari cinici oppure quelli che semplicemente vogliono la vita tranquilla e non vogliono sentire di certe cose) asseriranno che il modo di fare di Trump è l’unico per fare finire il conflitto, che consiste nel dare a Putin quello che voleva (ovvero sacrificare l’Ucraina); una scelta questa sbagliata per due motivi: uno, sì dà ragione alla legge del più forte e tanti saluti alla civiltà e al diritto internazionale; due, si lascia strada libera a un individuo (Putin) con continue mire espansionistiche, che vive nell’ombra del ricordo di Stalin e vuole riesumare quel dinosauro che era l’URSS.
Quello che magari non in molti si accorgeranno è che con il modo di fare di Trump siamo in pieno 1984, il romanzo di George Orwell. Non si è convinti? In 1984, per ciò che conviene al governo in un determinato momento vengono modificati e riletti i fatti, quindi se ora conviene che quello che prima era un nemico ora sia un amico, allora si cambia atteggiamento e modo di fare. Proprio come sta facendo Trump.
Ma questo di 1984 non è l’unico aspetto che rispecchia la reltà: il mondo si sta dividendo in tre grandi blocchi, Stati Uniti, Europa, Russia/Cina (anche se la Cina se ne sta un po’ più defilata), e la stessa cosa avveniva nel romanzo di Orwell, con Oceania (che comprende le Americhe, le isole dell’Oceano Atlantico (fra cui le Isole britanniche), l’Africa meridionale, l’Australasia e presumibilmente l’Antartide), l’Eurasia (che comprende l’Europa continentale e l’Asia settentrionale nonché presumibilmente la Turchia e l’Asia centrale) e l’Estasia (che comprende la Cina interna, parte della Cina esterna (aree della Mongolia, della Manciuria e del Tibet), il Giappone, l’Indocina nonché presumibilmente la Corea). (1)
In 1984 nelle città sono appesi grandi manifesti di propaganda che ritraggono il Grande Fratello, con la didascalia «Il Grande Fratello ti guarda», e gli slogan del partito: «La guerra è pace», «La libertà è schiavitù», «L’ignoranza è forza»; proprio quest’ultimo è un motto di cui Trump fa ampiamente suo, visto il contenuto delle affermazioni che fa (una che tanti hanno dimenticato è fare iniezioni di varechina alle persone per sconfiggere il virus del Covid). Il che riporta al bipensiero, l’unica forma di pensiero ammissibile in Oceania, che consiste nel rigettare la logica, perdere e all’occorrenza recuperare la memoria di determinati avvenimenti, e credere simultaneamente a due affermazioni tra loro contrarie, in modo da non cogliere contraddizioni o falle logiche presenti nella propaganda del Partito. Così recitano alcuni slogan del partito come «La menzogna diventa verità e passa alla storia» e «Chi controlla il passato controlla il futuro: chi controlla il presente controlla il passato» (1).
Questo fa arrivare a un altro elemento di 1984 dove i contenuti di libri, giornali, film e documenti vengono riscritti continuamente, rimuovendo tutto quanto non sia in linea con le idee del momento del Socing. Tutti i fatti che rivelino contraddizione o fallibilità del partito vengono periodicamente e sistematicamente cancellati e sostituiti. Il bispensiero permette ai cittadini di non notare la continua riscrittura della storia. In questo modo, per esempio, se si ribaltano i fronti e l’Eurasia diventa improvvisamente alleata dell’Oceania dopo essere stata in guerra con essa fino a un momento prima, tutta la popolazione dovrà comportarsi come se l’Eurasia fosse sempre stata alleata dell’Oceania e non vi fosse mai stata inimicizia tra i due Stati. Tutto viene descritto come una vittoria o un miglioramento: ad esempio, una riduzione di derrate alimentari viene riportata nei documenti come un aumento (1). E c’è da dire che non solo Russia e Stati Uniti fanno questo, ma lo fa per esempio anche l’Italia, dove il governo Meloni non fa che elencare e osannare i suoi successi, anche quando i successi non ci sono.
Si arriva così alla neolingua, un nuovo linguaggio in cui sono ammessi solo termini con un significato preciso e privo di possibili sfumature eterodosse, in modo che riducendone il significato ai concetti più elementari si renda impossibile concepire un pensiero critico individuale. Con la creazione della neolingua il partito censura quindi l’utilizzo di molte parole, convogliando tutti i termini ad esso sgraditi (ad esempio “democrazia”) nella parola “psicoreato” (thoughtcrime in lingua inglese, crimethink in neolingua): in questo modo diventa impossibile formulare e a lungo andare anche solo pensare a un argomento proibito, in quanto i concetti contrari all’operato del Partito diventano inesprimibili. La stessa parola “psicoreato” va ben oltre il divieto di esprimersi e si spinge appunto a vietare anche solo di concepire pensieri o provare emozioni non in linea con il Socing e il bispensiero (1). Il fine del Partito è di dare non solo un mezzo espressivo che sostituisse la vecchia visione del mondo e le vecchie abitudini mentali, ma di rendere impossibile ogni altra forma di pensiero. Si riteneva che, una volta che la neolingua fosse stata adottata in tutto e per tutto, ogni pensiero eretico (vale a dire ogni pensiero che si discostasse dai principi del Socing) sarebbe stato letteralmente impossibile, almeno per quanto riguarda quelle forme speculative che dipendono dalle parole. Il lessico della neolingua era articolato in modo da fornire un’espressione precisa e spesso molto sottile per ogni significato che un membro del Partito volesse correttamente esprimere, escludendo al tempo stesso ogni altro significato, compresa la possibilità di giungervi in maniera indiretta. Ciò era garantito in parte dalla creazione di nuovi vocaboli, ma soprattutto dall’eliminazione di parole indesiderate e dalla soppressione di significati eterodossi e, possibilmente, di tutti i significati secondari nelle parole superstiti. Tanto per fare un esempio, in neolingua esisteva ancora la parola libero, ma era lecito impiegarla solo in affermazioni del tipo “Questo cane è libero da pulci”; o “Questo campo è libero da erbacce”. Non poteva invece essere usata nell’antico significato di “politicamente libero” o “intellettualmente libero”, dal momento che la libertà politica e intellettuale non esisteva più neanche come concetto e mancava pertanto una parola che la definisse. A prescindere dall’eliminazione di vocaboli decisamente eretici, la contrazione del lessico era vista come un qualcosa di fine a se stesso, e non era permessa l’esistenza di una parola che fosse possibile eliminare. La neolingua non era concepita per ampliare le capacità speculative, ma per ridurle, e un simile scopo veniva indirettamente raggiunto riducendo al minimo le possibilità di scelta (2).
Purtroppo, quello che sta accadendo non è qualcosa di recente, ma è un meccanismo che si è già messo in moto da anni; riporto un pezzo di un articolo che avevo scritto undici anni fa.
Che 1984 di George Orwell abbia molto da insegnare è fuori discussione. Nell’articolo precedente si è visto come attraverso la tecnologia l’individuo che vive nella società attuale non sia libero, ma continuamente studiato, monitorato, la sua sfera privata invasa. Già di per sé questa situazione è allarmante, ma ugualmente preoccupante è il fatto come la memoria sia labile, ci si dimentichi di quanto è stato, come se nulla fosse successo e quelli che un tempo erano nemici e rivali ora siano alleati. Come si sa, questo è il gioco della politica, attuato da chi è al potere per cercare il maggior numero di consensi e appoggi e consolidare la propria posizione, ma a tutto c’è un limite: un contesto assurdo se si pensa per esempio a quello italiano dove la sinistra, la destra e il centro non si differenziano più, non hanno più idee proprie, ma s’incrociano per fare alleanze traballanti ed equivoche pur restare al potere (si veda quanto ha fatto Renzi, che è andato a fare un accordo con Berlusconi, facendo rientrare dalla finestra chi è stato condannato per i suoi reati e che invece non dovrebbe più avere a che fare con il mondo politico).
In tutto questo è allarmante come la popolazione lasci fare, si adatti, si sottometta rassegnata a poteri che volendo potrebbe annullare: ci si dimentica che le persone che sono al potere sono state votate dalla popolazione e che come sono state messe in certi ruoli possono essere anche tolte. Ma l’appiattimento di pensiero impedisce il cercare di cambiare la situazione, in modo molto simile a quello che succede in 1984 dove l’unica forma di pensiero ammissibile è il Bipensiero, con i suoi famosi slogan “la menzogna diventa verità e passa alla storia”, “chi controlla il passato controlla il futuro: chi controlla il presente controlla il passato”: non è un caso che ci sia stato negli anni passati il tentativo dei governi di destra di revisionare e riscrivere i testi di storia, stravolgendone la realtà con menzogne atte a tirar acqua al proprio mulino e a modificare la realtà a proprio favore. Proprio come fatto in 1984 dove i testi vengono riscritti continuamente espellendo tutto quanto non sia in linea con le idee del momento del Socing: tutti i fatti che rivelino contraddizione o fallibilità del partito vengono periodicamente e sistematicamente cancellati e sostituiti, la storia non esiste più, se non per dare ragione al Partito (stessa cosa avviene in un’altra opera di Orwell, La fattoria degli animali, dove i comandamenti sulla parete del granaio cambiano in base al pensiero di chi le crea e tutti li accettano a causa della propria ignoranza e passività).
Va preso in considerazione anche l’appiattimento del linguaggio realizzato attraverso le trasmissioni televisive che culturalmente e intellettualmente sono sempre andate al ribasso, trattando temi sempre più poveri e superficiali; stessa cosa è accaduta con le produzioni di quotidiani, riviste e libri, dove in prevalenza le tematiche girano attorno a pettegolezzi, cotte, avventure amorose e sesso (libri di successo come quelle legati alle serie di Twilight e alle varie Sfumature ne sono la dimostrazione). Non è un caso che con un’ignoranza così dilagante chi è al potere si rafforzi sempre più, perché non si hanno i mezzi per ribellarsi al sistema: davvero, come inneggia il Grande Fratello, “l’ignoranza è forza”, perché permette di controllare una popolazione intera. Con l’impoverimento del linguaggio, dove non si hanno più tante sfumature dovute alle conoscenze di un gran numero di parole risulta difficile concepire un pensiero critico individuale.
Se poi si pensa alle attuali produzioni in campo letterario e musicale realizzate in Italia che sono tutte dello stesso stampo, non ci si meraviglia di trovare somiglianze con quello che veniva realizzato nel romanzo di Orwell, dove produrre letteratura, ossia la scrittura a mano, è stata di fatto abolita: poesie, canzoni e romanzi vengono realizzati automaticamente da complessi macchinari elettromeccanici detti versificatori, in base a schemi predefiniti.
Forse Orwell in 1984 aveva visto più avanti di quanto si voglia ammettere (non ci si dimentichi poi che in 1984 la  possibilità di produrre letteratura dettata dai propri pensieri, ossia la scrittura a mano, è stata abolita: poesie, canzoni e romanzi vengono realizzati automaticamente da complessi macchinari elettromeccanici detti versificatori, in base a schemi predefiniti (1); non si può non pensare all’intelligenza artificiale e a farle scrivere testi di ogni genere).

 

1- https://it.wikipedia.org/wiki/1984_(romanzo)
2- 1984. George Orwell. Oscar Mondadori 2011. Pag.307-308

Il metallo perduto

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Il metallo perdutoCon Il metallo perduto si conclude la seconda serie Mistborn, nonché l’era che in essa è stata raccontata: infatti, da quanto fatto capire da Brandon Sanderson, la prossima storia dei Mistborn sarà ambientata in un’era futura, dove la tecnologia ha fatto un balzo in avanti ed è più sviluppata. Ciò è sempre stato nelle idee dell’autore: prendere un mondo fantasy e poi espanderlo nel futuro per diverse epoche, fornendo una visuale più ampia di come un pianeta avanza nel futuro, usando le tradizioni della serie di libri precedente come il fondamento di religioni e miti (1).
In questo l’autore c’è riuscito: si è passati dal mondo medieovale della prima trilogia (tenuto volutamente poco sviluppato dal Lord Reggente perché non ci fossero i mezzi per dare il via a rivolte in grado di ribaltare il suo potere) a un mondo stile Ottocento, con armi da fuoco e i primi passi di elettricità e mezzi di trasporto automatizzati. Nel complesso la saga funziona, con alti e bassi; personalmente ho apprezzato i due volumi centrali, mentre quello iniziale è quello che mi ha meno entusiasmato. E Il metallo perduto, il volume conclusivo della saga?
In generale il giudizio è positivo, anche se ci sono stati dei bassi. (ATTENZIONE: da qui in avanti, sparsi nel mio giudizio sul libro ci sono degli SPOILER).
Partiamo subito da un elemento di cui ho già parlato nel precedente articolo e che non ho apprezzato già in un altro volume di Sanderson: non accetto che ci siano personaggi che si mettano a parlare di peti sulle sedie, non importa in quale momento, non importa se sono personaggi sopra le righe. Wayne già aveva fatto qualcosa del genere nei romanzi che avevano preceduto Il metallo perduto (rutti; se non ricordo male ci doveva anche essere stata una gara di queste emissioni gassose) e lì avevo chiuso un po’ un occhio; in questo caso la cosa non mi è andata molto giù. Ripetendo quanto ho già detto, non m’importa se bisogna arrivare ai più giovani: parlare di peti e bisogni fisiologici per far divertire, per far ridere, fa schifo. E da autori con le capacità di Sanderson mi aspetto di più e di meglio: queste cose non le accetto.
Altri punti dolenti: la storia è un po’ prevedibile, ma ormai era stata indirizzata e il percorso era quello. I personaggi di Wax e Wayne hanno meno presa rispetto ai precedenti volumi, ma ormai era già stato detto molto, se non tutto, di loro, e quindi è normale che non potessero più dare le stesse sensazioni.
Molto bene invece Marasi e Steris, che qui hanno maggiore spazio, e riescono con le loro scelte, il loro evolvere e andare avanti, a prendere e coinvolgere il lettore nelle vicende che le riguardano.
Benché Il metallo perduto non abbia una storia al livello della prima trilogia di Mistborn, è di grande importanza per quello che riguarda il Cosmoverso (l’universo creato da Sanderson e che collega le storie da lui create), perché dà rivelazioni molto importanti. Già nella serie della Folgoluce si erano capite delle cose, ma con Il metallo perduto viene reso evidente che c’è qualcosa di più grande in atto delle vicende narrate in un singolo mondo: c’è una guerra tra i vari Frammenti sparsi nel Cosmoverso. Si era già visto con Onore e Odio nella Folgoluce, con Rovina e Preservazione in Mistborn; in Il metallo perduto si vede l’arrivo di uno di essi nel mondo di Wax per usurpare il posto di Armonia (il terrasiano Sazed asceso a divinità quando ha preso su di sé i poteri di Rovina e Preservazione). Così si scopre chi è Trell, che altri non è che il Frammento Autonomia, che utilizza come avatar del suo potere la sorella di Wax, il vero capo dell’Ordine, soprattutto dopo che è stato eliminato suo zio. Per evitare che i danni siano più estesi, Telsin realizza una bomba per spazzare via la città di Elendel, convincendo così Autonomia a non invadere il pianeta con le sue schiere; tuttavia, tutto è sul filo del rasoio, dato che se il piano di Telsin fallisse, il Frammento darebbe il via all’invasione. Wax con l’aiuto del suo gruppo deve fermare entrambi.
Ma il gruppo non sarà solo nella lotta contro Telsin/Autonomia e qui ci sono altre sorprese: una è il ritorno di Kelsier. Un Kelsier che lavora nell’ombra, pronto a tutto per proteggere il pianeta, anche a costo di entrare in contrasto con Sazed che, secondo lui, ha dei problemi a gestire i poteri di Rovina e Preservazione. Per fare questo ha creato un gruppo proveniente da altri mondi, che ricerca fonti di potere nel Cosmoverso per acquisire forza e contrastare i nemici del pianeta, facendo così entrare in gioco le Perpendicolarità e Shadesmar, già visti in Folgoluce. E il gruppo che ha creato altro non è che quello dei Sanguispettri: questo cambia un poco le carte in tavola di quanto mostrato in altri volumi, almeno per quanto riguarda le impressioni che avevo avuto su di loro. Sì, perché, i Sanguispettri mi avevano dato un’impressione di qualcosa di oscuro, non dico malvagio ma quasi; l’essere pronti a tutto per raggiungere i loro scopi, usare gli altri per il prorpio tornaconto, non mi avevano dato una buona sensazione e perciò si doveva diffidare di loro. In effetti, non c’è tanto da fidarsi di questo gruppo (il fine giustifica i mezzi non è mai il massimo), ma ora la loro natura è più chiara. Soprattutto è chiaro che ci sono diverse anime al suo interno, che lavorano in maniera differente e, anche se compare solo per poche righe nel finale del libro, ho il sospetto che Dlavil sia l’agente dei Sanguispettri assegnato a Roshar.
Visto che di spoiler ne ho già fatti diversi, non dirò a cosa si riferisce il titolo del romanzo (chi conosce il mondo dei Mistborn può averlo però intuito), né come si concluderanno esattamente le vicende, dato che un po’ di scoperta bisogna lasciarla anche agli altri.
Avendo terminato quello che ho da dire, non rimane che dare il giudizio finale: Il metallo perduto è un buon romanzo e conclude abbastanza bene la seconda era di Misborn. Un finale soddisfacente, sicuramente molto di più di quello dato a Skyward (l’ultimo libro di Sanderson che ho letto prima di Il metallo perduto).

1. Il metallo perduto. Brandon Sanderson. Mondadori 2024, pag. 721

Incapacità di amare

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La riflessione è partita dopo aver visto questo video (e averlo commentato), anche se già in altre occasioni avevo discusso della cosa. Partiamo subito da una premessa: l’incapacità di amare o di prendersi responsabilità nel creare un rapporto stabile con un’altra persona non penso dipenda solamente dalle mancanze dei giovani. Anzi, penso che la questione non riguardi solamente loro, ma che ormai sia una faccenda inerente l’intera società; è complesso trattare in breve la situazione, tuttavia ci sono degli elementi che possono aiutare a comprenderla un poco di più.
Sicuramente le esperienze personali possono influire nel non volersi impegnare in relazioni serie: la paura di soffrire, l’andare incontro a una nuova delusione, possono frenare o addirittura bloccare una persona, facendola arrivare a pensare che l’amore non esiste oppure non è qualcosa riservata a lei. Questo però non può riguardare la totalità dei casi: non tutti possono avere avuto esperienze così negative da far perdere fiducia negli altri e nei rapporti di coppia. Non si può però non notare che ci sono sempre più casi in cui non ci si vuole impegnare e questo può dipendere dall’assenza di responsabilità, di volersi prendere degli impegni. Un’assenza dovuta a un’educazione e una cultura mancanti; in tutto ciò, rispetto a generazioni passate, i media hanno avuto una forte influenza e un forte condizionamento sulle persone, dando modelli e messaggi non proprio edificanti ed educativi: film, serie tv, social, reality ma anche un certo tipo di politici che hanno fatto passare il disimpegno, la mancanza di valori, l’oggettivazione della persona, l’apparire e il fare quello che si vuole se si hanno soldi e potere come modelli di vita da seguire e attuare. Per molto tempo si è sottovalutato il potere del condizionamento che hanno avuto e hanno i media e adesso si sta cominciando a capire quanto dannoso possa essere stato.
Il condizionamento dei comportamenti però non è sufficiente per spiegare questo non volersi impegnare in relazioni serie dei giovani (e non solo loro): sempre certi politici, facendo leggi a proprio favore, hanno rovinato il mondo del lavoro, rendendolo sempre più precario, il che ha portato a una maggiore incertezza per il futuro, quando non si parla di mancanza di futuro: private di prospettive, le persone non fanno progetti a lunga scadenza, ma si concentrano sulla sopravvivenza e sul presente, vivendo il momento in cui sono e cercando di trarne le maggiori soddisfazioni permesse. Brutto da dire, ma senza basi solide, ovvero senza soldi, diventa molto difficile poter progettare qualcosa e questo include anche relazioni stabili che portano al formare una famiglia. I problemi ci sono sempre stati, solamente che in passato si avevano meno difficoltà anche se le cose non erano facili: al giorno d’oggi diventa difficile pensare che una famiglia possa essere mantenuta solo da una persona avente come impiego quello di operaio o impiegato. Pagare affitto o mutuo, bollette, assicurazioni, è difficile, ancora di più se non si ha un lavoro stabile; e le difficoltà aumentano se si pensa di avere un figlio, che ha costi non da poco: vestiario, alimentazione, scuole, sempre che non sopraggiungano spese mediche. Tutto questo porta i giovani (ma non solo loro) a pensarci bene prima di fare certi passi. Si parla d’incapacità d’amare, e si può dire che in parte è anche così per via di un’educazione che ha saputo dare cose materiali ma non valori (soprattutto non ha saputo dare valore alla vita), ma si deve anche parlare di paura per un futuro che non dà rassicurazioni e certezze. Forse non ce ne sono state in nessun tempo, ma questo, ancor più di altri, non sembra dare prospettive e senza di esse non ci si muove o ci si impegna.
C’è infine un altro fattore da tenere presente: anche se connessi alla rete, anche se si è social, si deve fare i conti con una solitudine dilagante, e non importa se si è sempre in mezzo alla gente, se si hanno contatti con tante persone, perché manca la comunicazione (e con comunicazione non si tratta di parlare del più e del meno, di chattare, ma qualcosa di più serio, profondo, strutturato). Potrà sembrare essere poco pertinente al discorso che si sta facendo, ma trovo interessante il discorso che fa Igor Sibaldi tra il minuto 29 e 55 e il minuto 36 e 48: qui si parla di liberalizzazione sessuale, ma è importante il discorso che viene fatto al riguardo, perché tale elemento, secondo quanto riporta Igor (ma non è il solo a dirlo), ha portato ad allontanare le persone da legami stabili (amori ma anche amicizie), a essere sempre più sole e pertanto a essere più sotto il potere e il controllo di grossi enti come a esempio lo stato. Senza contare i danni che la pornografia ha fatto sui giovani (ma di nuovo, non solo a loro) a più livelli.
In conclusione, dire che è solo colpa dei giovani se non sono capaci di amare e d’impegnarsi, non solo non è giusto, ma è limitativo; certo, anche loro hanno di che guardarsi e analizzarsi (il dire “tutto il futuro dipende dai giovani”, “i giovani sono la nostra unica sepranza per il futuro” e altre frasi simili oltre a essere una presa in giro (il futuro dipende da tutti, non solo da alcuni) sono un modo per sfruttare i giovani e nient’altro), ma una responsabilità per niente ignorabile va alla società e al sistema vigente perché non premia l’impegno: se una persona fa sacrifici, spende tempo ed energie per raggiungere traguardi, è giusto che venga ricompensata, che ottenga ciò per cui si è impegnata. Se questo non avviene, se gli sforzi non sono ripagati, se si fa tanto per ottenere poco o nulla, è logico che alla lunga le persone smettono di darsi da fare. Chi dà il massimo di sè per un lavoro sottopagato e della durata di poche settimane, sapendo che il suo contratto non verrà rinnovato? Chi s’impegnerà a ottenere conoscenze e professionalità sapendo che tanto non otterrà mai dei buoni posti di lavoro perché essi sono riservati a raccomandati? Dinanzi a ciò, senza prospettive salde per il futuro, è logico che in pochi si arrischieranno a cercare di creare qualcosa che duri nel tempo, badando per lo più a cercare di sbarcare il lunario e a navigare a vista e a sopravvivere; con simili basi è logico che le relazioni personali sono le prime a risentirne. E a queste cose dovrebbe pensare in primis chi ha voluto questo sistema e chi avrebbe dovuto educare i giovani e invece non l’ha fatto.

Il caso Neil Gaiman

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Neil GaimanIn questi ultimi giorni fa parlare il caso di Neil Gaiman, accusato da diverse donne di violenza sessuale: secondo le accusatrici, Gaiman avrebbe usato pratiche sessuali non concordate. Accuse che hanno avuto subito delle conseguenze: la casa editrice Dark Horse non pubblicherà più suoi fumetti , tre adattamenti delle sue opere sono stati sospesi. Non si è dinanzi a qualcosa di nuovo: anche Johnny Depp è andato incontro a una situazione simile quando è stato in causa con la moglie Amber Head per abusi, dove subito è stato scaricato da molti, ha perso ruoli e la sua carriera è stata messa a rischio, salvo poi tornare alla ribalta quando ha vinto la causa. Anche Cristiano Ronaldo e Mbappé sono stati prima accusati di violenze sessuali e poi assolti. Quando ci sono situazioni simili, le cose non sono mai facili, ma ci si trova dinanzi a qualcosa di complesso e spinoso.
Parlando di Gaiman, in prima istanza bisogna aspettare per vedere se le accuse diventeranno fatti: allora si potrà dare un giudizio più preciso. Per adesso, si possono prendere in considerazione solo degli scenari possibili. Uno è questo, che può sembrare una difesa a Gaiman. Quando si tratta di un personaggio in vista c’è sempre il dubbio che ci siano tentativi d’incastrarlo, sfruttando la situazione a proprio vantaggio: non è raro che donne, attratte da soldi e posizione, si concedano, anzi, si propongano pure. Se c’è stata violenza sessuale, se ci sono stati abusi, allora, perché non denunciare subito? Quando accadono fatti del genere bisogna farlo immediatamente. In molti obietteranno che ci sono fattori psicologici che frenano: la paura di non essere credute, la vergona, la paura del giudizio. In altrettanti obietteranno che se si pensa che l’uomo sia l’incastrato è perché si sta sempre dalla parte dell’uomo, che la donna viene mostrata come facile e manipolatrice, che “in fondo è quello che voleva” o che “se l’è cercata”. Questo è un discorso impopolare e può essere criticato, ma è una possibilità di come possono essere andate le cose.
Altra possibilità, è che uno nella posizione di Gaiman si ritiene di poter fare quello che vuole per via della fama ottenuta e pertanto a lui può essere concesso di fare cose che altri invece non potrebbero. Anche se venisse denunciato, la fama ottenuta e gli avvocati che può avere gli permetteranno di essere assolto; in fondo non succede spesso così a chi è in posizioni economiche forti?
Poi ci sono altre possibilità che stanno nella zona d’ombra tra le due sopra citate, dove è difficile stabilire come stanno davvero le cose, dove la colpa non è appartenente soltanto a uno, un po’ come successo tra Depp e Head. Probabilmente anche questo scenario non piacerà, perché quando si parla di abusi, soprattutto in questo periodo, le donne sono sempre innocenti e paventare che la colpa non sia solo e completamente dell’uomo fa sollevare proteste e indignazioni. Tuttavia, non è qualcosa che si può escludere e non perché si voglia difendere l’individuo maschile, ma perché la verità deve venire a galla, le cose devono essere raccontate per come realmente sono accadute; per questo bisogna aspettare che le indagini chiariscano come sono andate le cose. Non si può però non riflettere su una cosa: anche se Gaiman risultasse innocente, un’ombra è stata gettata e questo lo seguirà sempre, lasciando in molti il dubbio se la sua sia davvero innocenza oppure se l’assoluzione dipenda dai soldi e dalla posizione che ha.
C’è una cosa che non mi piace in questa vicenda: che si spari subito a zero su qualcuno prima che venga fatta chiarezza. Gaiman ora viene additato come un mostro, un violentatore, esempio di società patriarcale e di maschio predatorio e brutale, ancora prima che la vicenda sia chiarita. Sia chiaro: se i fatti avvaloreranno le accuse mossegli contro, è giusto che paghi per gli abusi di cui ora è accusato: chi fa violenza sulle donne deve andare in galera, per me non ci sono attenuanti. Ma le condanne devono arrivare quando chiarezza è stata fatta, farle come si sta facendo ora non è giusto.
E tutto ciò porta a un’altra questione: se Gaiman risultasse colpevole, sarebbe giusto continuare a leggere le sue opere? Continuare a comprarle non sarebbe appoggiare qualcuno che ha commesso dei crimini?
Non credo ci sia un’unica risposta, penso che sia una questione personale e dipende dal punto di vista di ognuno. Razionalmente viene da dire che, benché siano la stessa persona, uomo e scrittore (o donna e scrittrice) sono anche due elementi differenti: non sempre ciò che uno scrive rappresenta ciò che lui (o lei) è. Tuttavia, succede anche che negli scritti uno scrittore metta delle parti di sé (consciamente o inconsciamente); altre volte invece mette quello che lui non è oppure quello che vorrebbe essere: quale che sia la realtà, varia da scrittore a scrittore. Di fronte a ciò, in teoria, quando si legge un lavoro di qualcuno, non ci si dovrebbe far influenzare da quello che accade nella sua vita. Ma si guardi ciò che è successo con la Rowling, dove perché ha espresso le sue opinioni (condivisibili o no), in tanti hanno inneggiato di boicottare le sue opere, in tanti l’hanno rinnegata dopo averla adorata. Non a questi livelli, ma ho sentito persone che non volevano leggere e suggerivano di non leggere i romanzi di Silvana De Mari per via del suo pensiero e di certe sue dichiarazioni; anche se posso non condividere certe sue idee (specie politiche), se ho smesso di leggere i suoi libri è perché a un certo punto la qualità delle sue opere è calata e non mi hanno soddisfatto.
Questione differente per quanto riguarda invece un’altra scrittrice di fantasy di cui ho letto qualcosa: Marion Zimmer Bradley (ne avevo già parlato in un altro articolo). Dopo aver letto e apprezzato Le nebbie di Avalon, quando è saltato fuori ciò che aveva fatto ai figli e non solo a loro, non sono più riuscito a leggere altri suoi libri che avevo. Non li ho buttati via come hanno fatto tanti, ma mi sono bloccato e non sono riuscito a leggerli fino a ora.
E con Gaiman? Non sono un fan di questo scrittore, anche se ho letto qualche storia di Sandman, oltre a Stardust, Nessun Dove e Il cimitero senza lapidi e altre storie nere (ho visto anche delle trasposizioni di sue opere, quali Coraline e la porta magica e Stardust, uno dei rari casi in cui il film è meglio del libro): alcune storie sono piacevoli, ma niente che mi abbia spinto a cercare altro. Quindi, non ho ricercato prima, non ricerco adesso, ma non per quello che sta succedendo, ma perché quello che ho letto scritto da lui non mi ha preso più di tanto.
Cosa succederà ora?
Si può solo aspettare e stare a vedere, consapevoli che si è dinanzi a una vicenda sgradevole, che porta conseguenze non da poco; a parte quelle dei diretti interessati, non si può però non pensare anche al contraccolpo avuto dai suoi fan al sentire tale notizia, dopo che per tanti anni l’hanno visto in un certo modo, riconoscenti per quello che ha saputo dare con i suoi lavori, e che ora devono fare i conti con questa pagina buia che sconvolge le loro convinzioni.

Considerazioni su Brandon Sanderson

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Brandon SandersonLa decisione di scrivere un articolo su Brandon Sanderson nasce da quanto detto da Andrea, ma è da tempo che facevo riflessioni su di lui. Partiamo dal video e per chi non volesse vederlo tutto, faccio un breve riassunto: le critiche che muove Andrea riguardano il modo di fare dell’autore, che ha deciso di puntare sulla quantità di uscite delle sue opere e sulla modalità con cui vengono realizzate. Per Andrea, Sanderson realizza la prima stesura e poi la passa al suo staff per l’editing, velocizzando in questo modo il processo di realizzazione del libro: questo spiegherebbe la mole di romanzi che riesce a pubblicare. Puntare sulla quantità invece che sulla qualità non è una cosa che Andrea apprezza, come non apprezza la scelta di aver puntato sul Kickstarter.
Il modo di fare così veloce di Sanderson, oltre che influire sulla qualità della storia, influisce anche sullo stile, che deve essere semplice e facile da realizzare, in modo che ci si possa mettere le mani velocemente. Sanderson con questa scelta ha deciso di puntare sulla commercialità e i numeri di vendite e guadagni gli danno ragione; se questo era il suo fine, ci è perfettamente riuscito, per adesso.
Alla lunga questo continuerà a funzionare?
Probabilmente sì, anche se ci saranno dei lettori che si scontenteranno e non lo seguiranno più, benché non sarà sufficiente a fargli perdere una fetta di mercato così grossa da farlo andare male.
Quello che dice Andrea lo capisco e in gran parte lo condivido; se devo essere sincero, dinanzi a una simile prolificità, rispetto ad Andrea, credevo che alcune parti le facesse scrivere ad altri, visto che avevo avuto in alcune occasioni la sensazione che lo stile fosse differente, ma probabilmente è più verosimile il suo pensiero. Per Andrea questo non è essere scrittore; per me Sanderson è diventato qualcosa di diverso: è sì scrittore, ma è diventato soprattutto impresa, perché sui suoi libri non lavora solo lui, ma ha un’intero staff a sua disposizione, ha tanti collaboratori che lo aiutano, basta vedere nei ringraziamenti che fa nei suoi libri il numero di persone che ne sono comprese. Sanderson (che non si occupa solo di libri, ma anche di giochi di vario genere) è differente da altri scrittori (i quali dopo aver fatto diverse stesure e revisioni lo passano all’editor della casa editrice che li pubblica) perché attorno a sé ha un intero team a disposizione (non me ne vengono in mente altri con una situazione simile); si può dire che il tutto si avvicina al lavoro di una catena di montaggio. Per questo motivo lo stile non deve essere ricercato, ma semplice, così da rendere il lavoro più facile e veloce, così da realizzare in tempi ristretti prodotti commerciali e d’intrattenimento.
Questo sono i libri di Sanderson e ciò non significa che sia un male. Ma non saranno mai, faccio un esempio, al livello di quelli di Guy Gavriel Kay, che ha uno stile che ha un che di poetico, oltre a una profondità e una sintesi che manca nei romanzi di Sanderson: Kay in un libro dice quello che altri dicono in tre o quattro.
Sinceramente, non credo che riuscirei a lavorare in questo modo, dato che vivo la scrittura in maniera differente e la ritengo qualcosa di diverso da questo modo di fare. Non sto dicendo che è sbagliato: semplicemente non lo sento qualcosa che fa per me e pertanto non voglio farlo, piuttosto preferisco fare altro. Si tratta del mio punto di vista, ma essere più imprenditore che scrittore non è qualcosa che vedo tanto positivo, forse è dovuto al fatto che l’imprenditoria, specie quella attuale, è qualcosa che ha poco rispetto per gli altri.
Queste disamine non tolgono il fatto che apprezzi i lavori di Sanderson e al momento abbia letto tutto quello che è stato tradotto in italiano; lo stile semplice e scorrevole non inficia sulla lettura e il fatto che non sia ricercato non mi fa abbandonare questo scrittore. Le storie che sono state scritte mi sono piaciute, alcune di più, altre di meno, benché c’è da dire che non si possono paragonare serie come Folgoluce o la prima trilogia dei Mistborn ai romanzi di Skyward: sono su livelli differenti.
Tuttavia c’è una cosa che personalmente ho notato: c’è un prima Sanderson e un dopo Sanderson, ovvero un Sanderson prima di essere conosciuto dal grande pubblico e un Sandserson dopo tale riconoscimento. Un Sanderson all’inizio aveva qualcosa di diverso da quello venuto con l’essere conosciuto dal grande pubblico e questo per me ha fatto perdere qualcosa allo scrittore; la creatività c’è sempre, ma si è smarrita una parte dello scrittore. Senza fare come Martin (della serie: aspetta e spera), preferirei meno pubblicazioni ma che abbiano quel qualcosa in più che c’era nei suoi primi lavori, e magari vorrei che si sia più attenti a certi aspetti e dettagli, che si cerchi meno d’includere il più pubblico possibile (si può dire che la storia dell’inclusività ha stancato? Si rifanno le fiabe, si rivedono i miti per metterli al passo coi tempi, si mettono le mani su D&D: invece di fare ciò, si cerchi di creare qualcosa di nuovo e valido, piuttosto che rovinare qualcosa che ha avuto un suo significato).
Viste le capacità di Sanderson, personalmente parlando, non accetto che in momenti critici di una storia il/la protagonista si perda in pensieri amorosi per chi gli/le piace, non importa se si tratta di uno ya (critica rivolta a Skyward e Gli Eliminatori); non accetto che ci siano personaggi che si mettano a parlare di peti sulle sedie o bisogni fatti nelle armature (cosa ancora più imperdonabile per me se si tratta di Folgoluce). Non m’importa se bisogna arrivare ai più giovani: parlare di peti e bisogni fisiologici fa schifo (purtroppo è una cosa non solo di Sanderson e dei libri, ma anche di altri generi, come le serie anime, a esempio Dragon Ball Daima, dove Goku fa la cacca, non si lava e puzza). Poi c’è modo e modo: se si parla di ciò in determinate situazioni (il degrado di una persona malata in certe condizioni fiische o mentali) può avere un senso, ma così per far divertire, per far ridere, no: non fa divertire, non fa ridere. Ribadisco: fa schifo. E da autori con le capacità di Sanderson mi aspetto di più e di meglio. Posso apprezzare le tipologie delle sue storie (in parte, se guardo le ultime uscite), ma queste cose non le accetto.
E parlando di ultime uscite, gli ultimi due romanzi delle serie Skyward raggiungono la sufficienza, se si è generosi. Soprattutto l’ultimo di questa serie mi ha abbastanza deluso: ha quegli elementi degli ya che non apprezzo. Si può dire che il dopo Sanderson è stato per lo più con lo sguardo rivolto allo ya, cosa che il Sanderson della prima trilogia Mistborn non era. E sinceramente si rimpiange il primo Sanderson; si spera che Brandon ritorni al modo di fare dell’inizio e ritrovi quello che ultimamente ha perso: uno scrittore come lui, con l’affermazione che ha, non ha bisogno di rivolgersi allo ya per avere un seguito, ma può puntare a creare qualcosa di più di qualità.