Dungeons & Dragons, come film, libri, videogiochi e quant’altro, è stato colpito dal politicamente corretto e dal woke: uno dei cambiamenti fatto con i nuovi manuali è stato sostituire il termine razze (elfi, nani, orchi, umani) con specie. Di per sé usare una terminologia al posto di un’altra non cambia molto, anzi non cambia niente se poi la sostanza è sempre quella; il problema è la mentalità che sta dietro tutto ciò e che spinge per cambiare il modo di giocare. Già, perché se si pensa che alcuni dei contenuti del gioco possono riflettere pregiudizi etnici, razziali e di genere, allora c’è un grosso problema. E il problema non è certo nel gioco che non ha elementi del genere (lo so per esperienza, dato che conosco le edizioni passate, soprattutto la AD&D), ma nella mente di certe persone che vedono il “male” dove male non c’è: il male non è nel gioco, il male è nelle persone e nel come fanno e vivono le cose.
Non c’era bisogno di fare cambiamenti inclusivi; non c’era bisogno di creare tanti problemi. Se a un giocatore non piace l’avventura creata dal master, smette di gicoare, ne cerca un altro; una volta si faceva così. Il voler accontentare tutti, voler mettere tutti d’accordo, non solo è praticamente impossibile, ma presenta due grosse storture: uno è imporre una mentalità unica, due è appiattire e cancellare le diversità. Altro che inclusività.
Il nuovo Manuale del Dungeon Master consiglia alla persona che narra la storia e conduce la campagna di mettersi d’accordo con i giocatori per fare una lista di situazioni e temi con cui non si sentono a loro agio, come per esempio le violenze sessuali o l’uso di droghe. Si consiglia anche di individuare un segnale condiviso che comunichi se uno dei partecipanti si sente personalmente a disagio con qualcosa che sta succedendo nel gioco, in modo che il master possa eventualmente deviare la storia in un’altra direzione (1).
Con questa mentalità si finisce con l’arrivare a non fare più niente perché non si sa mai che si vada a urtare la sensibilità di qualcuno. Allora tanti saluti all’ambientazione maledetta di Ravenloft, addio alle cacce a mostri e bestie magiche perché non ci sia qualche animalista che rimane sconvolto dalla cosa; niente più guerre con orchi e goblin perché possono rappresentare tribù un tempo considerate violente e incivili: bisogna bandirli i pregiudizi, no?
Diavoli e demoni? Non bisogna più rappresentarli come il male da combattere e sconfiggere, ma figure che sono state incomprese ed emarginate per scelte sbagliate fatte, che vanno capite e accettate.
Il nobile prepotente, dispotico e corrotto? No, la nobiltà deve essere vista come buona, la guida dei popoli: basta col mostrare sempre che il ricco è meschino, questo è sintomo d’invidia repressa, sentimento negativo che nuoce al gioco.
Addio paladini e cavalieri che salvano principesse da draghi malvagi, perché storie del genere non solo infastidisco gli animalisti, ma anche le donne perché vengono mostrate come deboli e bisognose di essere salvate dagli uomini: abbasso il patriarcato!
Quello che non si capisce è che si sta parlando di un gioco di fantasia, non di realtà: si fanno tante storie per un gioco, poi nel reale si lascia che le persone inneggino pubblicamente a fascimo e nazismo con saluti, simboli e parole come se niente fosse. Se seguiamo la linea dettata da questo nuovo corso, allora bisogna riscrivere o bandire Il Signore degli Anelli di Tolkien, visto come aveva rappresentato gli orchi (e tanti saluti a tutti i messaggi che il romanzo e l’epica dello scrittore hanno saputo dare). Questo solo per mostrare a che livello di stortura, ma anche d’ipocrisia, si è arrivati.
Fortunatamente, i manuali possono sì dare delle regole e linee guida da seguire, ma è il dungeon master che decide la storia da realizzare e come vuole portarla avanti, se usare o meno determiante regole: è sempre stata così. Logicamente se fa una buona storia sarà seguito, altrimenti non andrà avanti molto. Adattando al constesto attuale una battuta di sommobuta, esistono solo due categorie di storie: quelle belle e quelle brutte. E da entrambe c’è da imparare qualcosa. Il bello delle storie è proprio questo, senza contare che sono proprio le tante sfaccettature che possono saltare fuori dall’immaginazione delle persone che le rendono meritevoli di essere raccontate o vissute (in questo caso va inteso naturalmente con l’immaginazione, non realmente).
Alla fine, cose come l’inclusività e il politcamente corretto lasciano il tempo che trovano, ma va notato che si stanno mettendo d’impegno per cercare di rovinare tutto, anche se viene fatto passare come un adeguamento dei tempi (vedere ciò che hanno combianato con favole come Biancaneve e i sette nani, La bella addormentata).
Che cosa dire di Il Signore degli Anelli – La guerra dei Rohirrim?
Se ci si aspetta un capolavoro oppure qualcosa che sia al livello della trilogia di Peter Jackson su Il Signore degli Anelli, allora è meglio prepararsi a una delusione.
Se invece non si hanno grandi aspettative, allora si può vedere qualcosa di discreto, ma niente di eccezionale.
Partiamo dagli aspetti positivi: belli i paesaggi, buone le animazioni senza essere tuttavia straordinarie. Lo spettatore, se ha già visto la trilogia di Jakson, si sentirà a casa, dato che i disegni riproducono quanto già visto in Le Due Torri: Edoras, il Fosso di Helm. Nulla di strano, dato che la società di produzione di questo film, la New Line Cinema, è la stessa di Il Signore degli Anelli.
Purtroppo, avere in comune la stessa casa di produzione, la stessa ambientazione, la stessa fotografia, non hanno permesso di rendere la stessa atmosfera, la stessa epicità viste in precedenza; si può dire che in questo caso la magia non ha funzionato (se mai c’è stata magia in Il Signore degli Anelli – La guerra dei Rohirrim). Praticamente, le cose positive finiscono con la grafica, dato che né la storia, né i personaggi riescono a fare presa (salvo qualchge guizzo), anzi per buona parte fanno un po’ cascare le braccia. Soprattutto quello che delude è che si sente che questa non è una storia di Tolkien, manca il suo spirito; pare che qualcuno abbia tentato di copiarlo cercando però di adattarlo ai giorni nostri e ciò lo si vede soprattutto nella scelta di far ricadere tutta l’attenzione sulla protagonista femminile, Hera, figlia di Helm Mandimartello: forte, indipendente, risoluta, emancipata, che non ha bisogno di uomini per essere qualcuno. Uno spirito libero capace di risolvere tutto, che capisce tutto in anticipo, un po’ come piace tanto alla società attuale mostrare (almeno in apparenza).
Questo però non è Tolkien e non perché Tolkien non ritenesse le donne importanti o all’altezza, tutt’altro: basta vedere quello che ha fatto con Luthien. Quindi non è la scelta di puntare su una donna dallo spirito forte, ma il come è stato fatto. Certo non è una novità questo modo di fare del grande schermo: già era stata fatta una rilettura di Arwen in Il Signore degli Anelli di Jackson e anche con Tauriel nella versione cinematografica di Lo Hobbit si era fatto qualcosa di analogo (personaggio questo creato appositamente per il grande schermo ma non presente nel romanzo). Il problema è che negli altri film basati sul mondo di Tolkien Arwen e Tauriel erano una parte della storia (e soprattutto avevano avuto una caratterizzazione), mentre in Il Signore degli Anelli – La guerra dei Rohirrim Hera è tutta la storia e questo non basta a rendere la pellicola di buon livello (e se a questo si aggiunge che manca la caratterizzazione si capisce perché non riesca a fare presa sullo spettatore). Prima che a qualcuno possa venire in mente che la critica è dovuta a maschilismo, patriarcato (cose che vengono tirate fuori appena si critica una figura femminile), beh, nel mio caso ci si sbaglia: ho amato personaggi femminili in storie fantastiche come Wren del mondo di Shannara di Brooks e Vin del mondo dei Mistborn di Sanderson perché non solo erano donne forti e di carattere (ma anche sensibili) ma erano figure di spessore, sfaccettate, approfondite cosa che Hera non è: di lei si sa poco e praticamente è nullo l’approfondimento fatto sul suo conto.
Dopo i personaggi, l’altro aspetto negativo della pellicola è la storia, che ha poco di nuovo da dare e non è sviluppata in modo adeguato, rendendo Il Signore degli Anelli – La guerra dei Rohirrim una bella confezione e poco altro: sembra di guardare una sbiadita copia di Le Due Torri, dato che praticamente ripropone un copione simile.
La vita a Rohan scorre tranquilla, anche se ci sono dei dissidi, soprattutto tra il re Helm e uno dei suoi, Freca, Signore del Mark Occidentale, un opportunista che per i suoi fini vuole far sposare suo figlio Wulf con Hera. Naturalmente i modi tronfi e sprezzanti di Freca fanno adirare Helm, che lo sfida a un confronto tra uomini fuori dalle sale del re; Freca si dimostra tutto fumo e niente arrosto e finisce al tappeto al primo pugno di Helm. Purtroppo, ci lascia la pelle e suo figlio Wulf giura vendetta: dopo essere stato bandito dal regno, raduna un esercito per farla pagare a Helm ma anche a Hera, che ha rifiutato la sua mano.
Già qui con la caratterizzazione dei personaggi non ci siamo, che risulta stereotipata. Helm è forte ma come re non è il massimo: non si accorge che uno dei suoi Signori è un traditore quando anche un bambino vedendolo lo capirebbe (anche non avendo letto o visto Il Signore degli Anelli, dato che le somiglianze con Grima Vermilinguo non sono poche) e non ascolta i saggi suggerimenti della figlia e del nipote riguardo al nemico che sta arrivando, entrambi zittiti senza mezzi termini.
Wulf inizialmente sembra avere una parvenza di carattere, ma è solo una parvenza: a parte l’essere mosso dalla vendetta, non ha altro. Non ascolta ragioni, non ascolta consigli, non ha piani a parte eliminare i figli di Helm e farli soffrire (si potrebbe dire che soffre di complesso d’inferiorità, ma si sarebbe un pochino generosi nel cercare di trovare spessore al personaggio). Inoltre, oltre a essere un opportunista, è pure codardo; insomma, ha tutti i requisiti per incarnare uno dei classici cattivi.
Per metà del film, la storia va avanti pesantemente, senza scossoni, prevedibile e anche noiosa. Wulf arriva col suo esercito, Helm lo affronta, subisce un tradimento, si deve ritirare perché le forze nemiche lo sovrastano (Hera lo aveva avvertito ma, ehi, lui è Helm Mandimartello, cosa vuoi che possano farmi i nemici?) ma non ce la farebbe se non fosse per la figlia Hera che ha previsto il peggio e ha messo al sicuro la gente di Rohan in quello che diverrà il Fosso di Helm. Wulf uccide i due fratelli di Hera, Helm viene ferito e tutto ricade sulle spalle di Hera, che risulterà più assennata del padre (ma ci voleva poco).
Poi, dopo il ferimento di Helm, le cose si fanno un poco più interessanti: le ferite di Helm guariscono, ma la sua mente appare spezzata, dato che rimane sempre a letto. Poi una notte sparisce e gli assedianti cominciano a morire uno a uno: tra le loro fila serpeggia il terrore e si comincia a vociferare che sia lo spettro di Helm a ucciderli. Hera, cercando il padre, trova un passaggio segreto, arrivando tra le montagne dove degli orchi rovistano tra i cadaveri in cerca di anelli da portare a Mordor (allacciamento con quello che avverrà in Il Signore degli Anelli, dato che qui siamo duecento anni prima della storia di Frodo). Verrà salvata dal padre, che finalmente ha capito gli errori fatti con lei e la salverà riportandola nella fortezza, sacrificandosi (la sua morte è forse uno dei pochi momenti con un minimo di epicità).
Quando tutto sembra perduto, Hera salverà la situazione: sconfiggerà e ucciderà Wulf in duello, e farà arrivare in soccorso della sua gente il cugino (mandato a chiamare con una grande aquila), che farà il suo ingresso come Gandalf in Le Due Torri.
Il popolo di Rohan è salvo, Hera lascia il trono al cugino e potrà continuare a essere libera di fare quello che vuole.
Purtroppo, Il Signore degli Anelli – La guerra dei Rohirrim non funziona a dovere e l’aver scelto Kenji Kamiyama non ha aiutato (è stato allievo di Mamoru Oshii, ma non sembra aver appreso molto da lui vedendo questo film); forse, se si fosse puntato su un regista con meno impronta anime si sarebbe ottenuto un risultato diverso. Forse, se non si fossero fatti certi cambiamenti e “adattamenti” si sarebbe provato meno fastidio vedendo questo film. Certo, c’è qualche guizzo quando la storia presenta dei collegamenti con quella principale del mondo di Tolkien, ma pochi secondi d’interesse non possono ribaltare il giudizio su una pellicola che di tolkieniano ha davvero poco (se non nulla). Un’occasione sprecata.
Robocop, dopo Terminator, è una delle figure robotiche più conosciute e iconiche degli anni 80. C’è una grossa differenza tra i due: il primo esteriormente è un robot in tutto e per tutto ma ha una mente umana con i corrispettivi sentimenti, il secondo invece sembra dall’aspetto un essere umano come tanti ma sotto la pelle è completamente una macchina. Piccola curiosità: per interpretare il ruolo di Robocop inizialmente si era pensato ad Arnold Schwarzenegger ma a causa della sua massa muscolare fu scartato per non dover rifare il costume iniziale del cyborg.
Premessa importante: il successo di questo personaggio e di tutto il merchandise che ne è conseguito (serie animate, giocattoli, videogiochi) è dovuto al primo film della serie, quello del 1987 diretto da Paul Verhoeven. La storia è ambientata in un futuro prossimo in una Detroit dominata da crimine, violenza, corruzione e la multinazionale OCP; proprio quest’ultima prende le redini del dipartimento di polizia con lo scopo d’immettere il robot di sua progettazione ED-209 per eliminare la delinquenza della vecchia Detroit, così da poterla demolire e costruire l’innovativa Delta City, una megalopoli utopistica. Le cose però non vanno come sperato e il robot, causa un malfunzionamento durante una dimostrazione, uccide trivellando di colpi di mitragliatrice un consigliere comunale. Nasce così una feroce competizione interna alla OCP per trovare una soluzione: a Dick Jones, progettista di ED-209, si contrappone Bob Morton, che propone il suo progetto cyborg, Robocop.
Proprio in questo periodo Alex Murphy, poliziotto con un forte senso del dovere, inizia a lavorare con la nuova collega Anne Lewis. Purtroppo, il primo giorno di lavoro insieme è nefasto: i due si scontrano con la banda di uno dei più potenti e feroci malviventi della vecchia Detroit. Mentre Anne riesce a salvarsi, Murphy viene massacrato brutalmente a colpi di fucile. Inutili sono i soccorsi: Murphy muore sotto i ferri. Ciò che resta del suo corpo viene preso dalla OCP (essendo che la polizia è gestita dalla miltinazionale, ora è di sua proprietà) e Bob Morton può attuare il suo progetto cyborg: le parti mutilate (praticamente tutte, si salva solo il volto, parte del cervello e poco altro) sono sostituite con parti meccaniche rivestite di una corazza di titanio e kevlar. Grazie a un computer integrato nel cervello, oltre ad avere una mira precisa al millimetro, può registrare audio e video da usare come prove contro i criminali. Nasce così Robocop e le sue operazioni sono un successo tale che Bob Morton viene nominato vicepresidente della OCP.
La cosa non piace a Dick Jones che farà uccidere Morton da Boddicker, il supercriminale al suo soldo, nonché assassino di Murphy (è stato lui a dargli il colpo finale in testa).
Quello che però nessuno ha preso in considerazione è che nel cervello di Murphy siano rimasti i ricordi della sua vita precedente e che stiano lentamente ritornando alla luce. Anne Lewis è l’unica che si accorge che Robocop altri non è che Murphy, riconoscendo il gesto che il cyborg fa con la pistola quando la deve rinfoderare e che era tipico del suo collega. Murphy/Robocop arresta uno dei suoi assassini e pronuncia (di nuovo) una frase divenuta iconica nel mondo del cinema: “Vivo o morto tu verrai con me.” Poco dopo distrugge un gruppo criminale che produce droga e lì arresta Boddicker, che per avere salva la vita gli rivela di lavorare per Dick Jones.
Murphy si reca alla OCP per arrestare Jones, ma una direttiva primaria del pc collegato al suo cervello gli vieta di muoversi o fare del male a chi lavora per la multinazionale; Jones gli manda contro prima un ED-209 e poi un’elite della SWAT; Murphy, aiutato da Lewis, riesce a scappare, rifugiandosi nella vecchia acciaieria dove è stato ucciso e dove chiuderà una volta per tutti i conti con la banda dei suoi assassini. Ma la sua giustizia non finirà qui: torna alla OCP, irrompendo durante una riunione dei dirigenti, mostra il video dove Jones confessa i suoi crimini ed eliminandolo dopo che è stato licenziato e aveva preso come ostaggio il presidente.
La violenza senza tante censure, l’allegoria, la critica e la satira feroce di Verhoeven, unita a una società crudele, cinica, capitalista e senza rispetto, resero Robocop un successo, oltre a farlo divenire un cult per gli amanti del genere. Robocop però non era solo un film d’azione, è l’uomo che vince sulla macchina, è il mantenere la sua umanità anche quando di umano c’è rimasto poco, specie all’interno di una società così cupa e opportunista. Weller, che ha interpretato Murphy/Robocop, ha fatto un buon lavoro con questo personaggio, e Verhoeven ha dato il suo classico tocco, rendendo la pellicola un piccolo must da vedere.
Dopo il successo avuto con Robocop, è stato quasi giocoforza fare un seguito: Peter Weller e Nancy Allen (Anne Lewis) sono stati confermati nel cast, così come Dan O’Herlihy nel ruolo del presidente della OCP, mentre alla regia non c’è più Paul Verhoeven, sostituito da Irvin Kershner. Va detto subito che Robocop 2 (1990) non ha la stessa forza del predecessore, tuttavia ha degli aspetti apprezzabili. La città di Detroit è sempre in preda a violenza, corruzione ed è sempre più nelle mani della OCP che vuole portare avanti il progetto Delta City, oltre a dare il via alla creazione di un nuovo Robocop (finora i tentativi non sono andati a buon fine, dato che i soggetti scelti rigettano la loro nuova condizione); in aggiunta a tutto ciò, nelle strade circola una nuova droga, la Nuke, messa in circolo da Cain, un nuovo pericoloso criminale. Sarà proprio Cain, ridotto in fin di vita da uno scontro con Robocop, il soggetto per la realizzazione del nuovo cyborg, ma le cose andranno storte, dato che Robocop II, tenuto sotto controllo tramite cariche di Nuke, impazzisce alla presentazione di un nuovo grattacielo e fa una strage. Solo l’intervento di Robocop potrà fermarlo.
Interessante il contrasto tra Murphy che ricorda e ama ancora la sua famiglia e il sapere che non potrà più stare con loro (bello il dialogo che ha con la moglie), benchè non molto approfondito; molto bello lo scontro finale tra i due cyborg, che sicuramnte rende giustizia a quello che non si è visto nel primo Robocop (il modo in cui Murphy elimina ED-209 è sbrigativo, ma ha un suo senso e rappresenta in un qualche modo Verhoeven ). Di certo manca la vena pungente di Verhoeven, ma Robocop 2 svolge il suo lavoro d’intrattenimento, dando anche qualche buona scena (come quella di Murphy che rimane vicino al più giovane membro della banda di Cain in punto di morte).
Sinceramente, ci si poteva fermare qui. E invece, tre anni più tardi (1993), ecco Robocop 3. Robert John Burke prende il posto di Weller mentre Nancy Allen rimane (anche se il suo personaggio non resterà a lungo); di idee ormai se ne è a corto e si vede. Oltre alla OCP, ora a Detroit c’è la multinazionale giapponese Kanemitsu Superprodotti per realizzare il progetto Delta City; al loro soldo c’è un gruppo di mercenari che con la forza sfratta le persone dalle loro case. I cittadini si ribellano e formano bande di resistenza. Dapprima Robocop esegue gli ordini della OCP di dare la caccia ai ribelli, ma dopo la morte di Lewis, si unisce a loro. Per ravvivare una storia ormai povera di spunti, vengono immesso androidi samurai e Robocop viene fatto volare.
Passano ventuno anni e si arriva così a fare un remake del primo film e devo essere sincero, mi ha detto meno della terza pellicola, anzi, mi ricordo davvero pochissimo di trama, ho in mente solo alcune scene e il finale; c’è la solita corruzione, la multinazionale che fa i suoi interessi, ma niente di nuovo e soprattutto niente cinismo e satira, che tanto bene avevano fatto al primo film.
Quindi, meglio lasciar perdere gli ultimi due film e vedere il primo e magari anche il secondo se proprio si vuole, che tutto sommato non è da buttare via.
Non si poteva non affrontare la saga di Alien dopo quella di Predator, dato che si sta parlando di due delle razze aliene più famose in campo cinematografico fantascientifico (almeno se si resta nell’ambito orrorifico, perché altrimenti bisognerebbe citare anche ET).
Cominciamo con il primo, iconico Alien (1979) di Ridley Scott, quello che ha fatto conoscere lo xenomorfo e che ha lanciato la carriera di Sigourney Weaver interpretando il ruolo di Ellen Ripley.
In un futuro non molto lontano (2122) l’astronave da trasporto Nostromo giunge sul satellite naturale di un pianeta sconosciuto dopo aver ricevuto un misterioso segnale di soccorso. Lì troveranno un relitto extraterrestre e si scoprirà che il segnale di soccorso è in realtà uno di allerta, ma purtroppo ormai è troppo tardi: uno dei membri dell’equipaggio viene assilito da un parassita alieno uscito da un uovo, che gli si avvinghia al volto. Ogni tentativo di liberarlo è inutile e l’uomo finisce in uno stato comatoso. Si riprende quanto il parassito muore e si stacca da lui; tutto sembra tornare alla normalità, ma dal petto dell’uomo, colto improvvisamente da convulsioni, esce fuori una creatura aliena, che in brevissimo tempo crescerà e si svilupperà, cominciando a cacciare e uccidere tutti i membri dell’equipaggio. Solo Ripley si salverà, riuscendo alla fine a eliminare il mostro e tornare verso la Terra con la navetta di salvataggio in stato di ibernazione. Si arriva così ad Alien – Scontro finale (1986), il film che ho preferito della serie: alla regia c’è James Cameron che dà un’impronta da “arrivano i marines” e in effetti è proprio così. Dopo più di cinquant’anni la navetta di Ripley viene raccolta per caso e la donna scopre che non solo è ritenuta responsabile della distruzione della Nostromo (con relativa sospensione della sua licenza di volo), ma che il planetoide dove ha incontrato l’alieno è stato terraformato e colonizzato; naturalmente nessuno crede alla storia dell’alieno. Almeno fino a quando i contatti con la colonia cessano improvvisamente; a quel punto la storia di Ripley comincia a essere presa in considerazione, ma la donna rifiuta di unirsi alla spedizione di soccorso. Tuttavia, stanca dei continui incubi con l’alieno protagonista e decisa ad affrontare le sue paure, accetta di unirsi alla squadra di marines inviata a indagare (iconica la battuta tradotta in italiano “qualcuno ha detto “salviamo i coloni“, lei ha capito “vi diamo i coglioni” e si è arruolata subito“); assieme a loro ci sono anche un rappresentante della compagnia per cui lavorava Ripley e un androide, nuovo modello di quello che già era con la donna nel precedente viaggio e che aveva creato problemi. Arrivati sul planetoide, trovano la struttura disabitata e in un laboratorio, tenuti sotto vetro, i famosi parassiti alieni; solo una bambina è riuscita a sfuggire al triste destino di tutte le altre persone: si è dinanzi all’inizio della fine. Gli xenomorfi decimano i marines in un’imboscata, sopravvivono solo una manciata di essi, l’androide, il rappresentante della compagnia e la bambina da poco salvata. Privati della navetta di sbarco che li avrebbe riportati sull’astronave, l’esiguo gruppo si trova bloccato all’interno della struttura e Ripley scopre che il rappresentante della compagnia ha mentito: aveva mandato i coloni inconsapevoli della presenza delle uova e voleva trafugare due xenomorfi adulti per usarli come armi biologiche. Non bastassero gli alieni che gli danno la caccia e r tradimenti interni, il reattore della struttura sta per implodere, scatenando così una reazione nucleare. Mentre l’androide si reca alla torre di trasmissione per riallineare la parabola e chiamare la seconda navetta dell’astronave, il gruppo cerca di resistere all’assalto degli alieni. Solo Ripley, un marine e la bambina sopravvivono, ma quest’ultima viene rapita da uno xenomorfo; lasciato il marine ferito alle cure dell’androide sopraggiunto con la navetta, Ripley si arma con tutto quello che ha a disposizione e scende nelle profondità della struttura, dove c’è il covo degli alieni con le loro uova e naturalmente la gigantesca regina. Ripley distrugge tutto e riesce a raggiungere la navetta che li riporta all’astronave. Sembra tutto passato ma, sorpresa, la regina è riuscita a seguirli salendo sulla navetta; col marine fuori combattimento, l’androide troncato in due dalla regina, l’unica che può affrontare la minaccia è Ripley: armata di esoscheletro elevatore da carico, affronta la regina in uno degli scontri finali più iconici dei film di fantascienza (un altro dello stesso impatto emotivo che mi viene in mente è quello tra Luke Skywalker e Dart Fener in Il ritorno dello Jedi anche se c’è da dire che pure quello in L’impero colpisceancora è allo stesso livello; sì lo so, non c’entra niente ma serve per rendere l’idea del livello dello scontro). Sconfitta la regina (come nel primo film l’alieno viene gettato fuori dall’astronave), Ripley si iberana con gli altri per rientrare sulla Terra.
Per me Alien poteva finire con questi due film, ma naturalmente il botteghino e i fan l’hanno avuta vinta sul buon senso e ci si è dovuti sorbire Alien³ (1992) e tutti gli altri seguiti. Ma se gli altri seguiti li ho visti sopportandoli ben sapendo che non erano all’altezza dei primi due, Alien³ è stato il film che mi ha fatto lanciare un bel WTF. Causa cortocircuito dell’astronave che la sta riportando a casa, Ripley e i suoi compagni in ipersonno vengono espulsi con un modulo di salvataggio e finiscono su una colonia penale; sopravvive solo Ripley, mentre tutti i suoi compagni muoiono. Questa è stata a mio avviso una delle scelte di sceneggiattura peggiori che potessero essere fatte e perciò Alien³ è il film che meno ho apprezzato della serie, ricoscendo la pur sembra buona prova data dalla Weaver. Si scoprirà che da un uovo deposto dalla regina sull’astronave (ma non aveva perso il condotto ovopositore strappandoselo sulla struttura per inseguire Ripley e la bambina prima dello scontro finale?) era nato uno xenomorfo che aveva causato il cortocircuito motivo dell’incidente alla nave; si scoprirà anche che la compagnia sapeva tutto quello che accadeva sulla nave, che con del personale arriva sulla colonia penale per ottenere lo xenomorfo e usarlo per i suoi fini. Come da copione, c’è la solita fuga disperata dall’alieno feroce, quasi tutti muoiono, questa volta pure Ripley, che si sacrifica gettandosi nel metallo fuso (alla Terminator 2) per far sì che l’embrione alieno che porta dentro di sé non finisca nelle mani della compagnia. Il finale di per sé non è stato malvagio benché ricordasse tanto quello di Terminator 2, ma la scelta fatta all’inizio mi ha indispettito così tanto da farmi giudicare la pellicola come meritevole di bocciatura totale.
Naturalmente dopo una morte non può che esserci che una resurrezione, almeno così insegna il cinema perché the show must go on e quindi nel 1997 arriva Alien – La clonazione: il titolo rivela già praticamente tutto. Dopo duecento anni dai fatti di Alien³, Ripley viene clonata dopo vari tentativi per recuperare l’embrione della regina xenomorfa che portava nel corpo e rinasce potenziata, divenendo praticamente un super essere (domanda: perché aspettare due secoli per far rinascere la protagonista se si voleva così fortemente l’embrione alieno?). Non solo: recupera anche le memoria della Ripley originaria, al punto da essere quasi una reincarnazione. Non sto a dilungarmi sulla trama perché il copione già lo si conosce: saltano fuori i famosi alieni, c’è la solita strage di umani, Ripley è l’eroina del film. Vengono messe alcune novità (la regina aliena che oltre a deporre uova può partorire, l’alien bianco), ma non c’è la stessa atmosfera, la stessa adrenalina dei primi due film; meglio del suo precedessore ma ci voleva davvero poco.
Passano alcuni anni e si arriva ai due Alien vs Predator, di cui ho già parlato nel precedente articolo.
Per ridare vita al franchise, Ridley Scott torna alla regia nel 2012 e nel 2017 con Prometheus e Alien: Covenant. Sigourney Weaver non fa parte del cast. Devo essere sincero: ho visto questi due film solo una volta e mi ricordo davvero poco, ma una cosa mi ricordo bene: non mi hanno dato niente, al punto da pensare che Ridley Scott faceva meglio a non averli girati.
Quest’anno è uscito Alien: Romulus ma, dati i precedenti, non l’ho visto; forse lo recupererò se farà un passaggio in televisione.
Consiglio finale? Da vedere sicuramente i primi due film, il resto è solamente il ripetersi di un copione già visto e conosciuto. E alle volte è un ripetersi pure mediocre (vedasi terzo film).
Predator, come Alien, è diventato un personaggio cult nel mondo del cinema. E come Alien, Predator è un alieno e anche lui ha avuto una saga cinematografica abbastanza lunga, dalle fortune alterne.
Non si più che cominciare dal primo, iconico Predator del 1987, il migliore di tutta la serie e, se si deve essere sinceri, ci si poteva fermare con questo film perché tutto era stato detto e mostrato (o quasi). Inutile dire che avere nel cast figure del calibro di Arnold Schwarzenegger e Carl Weathers abbia aiuto non poco questa pellicola ad aver fortuna; il merito però non è tutto loro: dietro al successo c’è anche una buona regia che ha saputo creare la giusta atmosfera e suspense. La trama è abbastanza semplice: una squadra di militari va in missione di salvataggio in un paese del Sudamerica per recuperare un ministro precipitato con l’elicottero nella giungla. Si scoprirà che la missione non è quella per la quale sono stati ingaggiati, ma i veri problemi sono altri: i membri della squadra iniziano a essere uccisi senza poter vedere chi li ha colpiti. Inizia così una caccia dove non si capisce chi è davvero la preda e il predatore. Solo Dutch (Schwarzenegger) e una guerrigliera catturata sopravvivono all’invisibile nemico, che si rivelerà essere un alieno dotato di un equipaggiamento con un’avanzata tecnologia che gli permette di mimetizzarsi perfettamente con l’ambiente in cui si trova e di vedere all’infrarosso. Capiti i punti deboli del nemico (non può individuarlo se si cosparge di fango), Dutch prepara il campo di battaglia per sconfiggere il pericoloso nemico: seguirà uno scontro finale dove l’uomo ha la meglio sull’alieno, che prima di morire si fa esplodere.
Con il successo avuto, inevitabilmente non potevano che esserci dei seguiti, che però non potevano essere all’altezza del primo. Motivo? Una volta rivelata la sorpresa, si sapeva già con chi si aveva a che fare e tutta la suspense e l’atmosfera cessavano di essere, si aspettava solo di vedere quando il Predator si sarebbe rivelato. Per questo motivo Predator 2, del 1990, non si è avvicinato minimamente al suo predecessore e non solo perché Schwarzenegger non faceva parte del cast; benché abbia apprezzato Danny Glover in altre pellicole (la serie di Arma Letale), in questo film non convince, ma non è colpa sua: è tutto il film che non va.
Passano così quattordici anni e si fa un crossover facendo incontrare le due razze aliene più pericolose e famose viste al cinema: nasce così Alien vs Predator (2004). Si scopre che i Predator usano gli Alien per dimostrare il loro valore in battute di caccia: in un’isola sub-antartica sorge una piramide aliena dove è ibernata una regina Alien. Una squadra viene mandata a esplorare e naturalmente finisce nello scontro tra le due razze, venendo massacrata. Soltanto una donna tra umani e Predator riesce a sopravvivere allo scontro con gli Alien. Non un disastro come film, ma che non raggiunge nemmeno lontanamente il livello né del primo Predator né dei primi due capitoli della serie Alien.
Di Aliens vs. Predator 2 (2007) non posso dire nulla, dato che non l’ho visto, ma la visione del primo non mi ha mai invogliato a recuperarlo.
Si arriva così al 2010, venti anni da Predator 2 e c’è da dire che con Predators si è avuto un miglioramento rispetto al secondo capitolo della saga; certo, non siamo al livello del primo, ma il film ha un buon ritmo. Dall’ambientazione metropolitana si ritorna alla giungla, anche se si tratta di una giungla aliena: un gruppo disparato di persone esperte nell’uso delle armi e nell’arte dell’uccisione viene rapito e portato su un pianeta artificiale, che altro non è che una riserva di caccia dei Predators. L’incontro con un uomo sopravvissuto per anni sul pianeta fa scoprire che ci sono delle divisioni tra gli alieni, che si combattono tra loro. Seguiranno solite cacce tra uomini e alieni, ci sarà anche un traditore tra le fila umane, ma due personaggi riusciranno a sopravvivere, benché ancora intrappolati sul pianeta, dove giungono altri esseri umani per una nuova caccia.
Passano altri otto anni e arriva The Predator, che purtroppo fa passi indietro rispetto al precedente: lo si può mettere al livello di Predator 2. Evitabile.
Si arriva così a Prey, ultimo film (finora) della serie e prequel del primo film. Molto prequel, dato che è ambientato nel 1719, tra gli indiani d’America; inutile soffermarsi sulla trama, dato che il copione è sempre lo stesso. Tuttavia il film è gradevole e si lascia guardare, anche se ormai non c’è più l’effetto del primo Predator, perché ormai gli alieni sono stati fatti vedere in tutte le salse.
In conclusione, dando un giudizio personale, da vedere sicuramente Predator, poi recuperare Predators e Prey; il resto meglio lasciarlo perdere.
Nel precedente post parlavo di come si è perso il senso della misura, e in un certo qual modo si può dire lo stesso per Qiddiya City, dove ci sarà il primo quartiere al mondo dedicato interamente ai videogiochi. Tuttavia, è ingiusto fare un paragone tra questo quartiere e Comedian: perché se è una boiata pazzesca pagare più di sei milioni di dollari per una banana (e alla fine dei conti non si ha nessun tornaconto), con Qiddiya City si parla di ingenti investimenti che però sono volti a creare introiti ancora maggiori, perché quanto legato al mondo dei videogiochi è un business enorme, molto più grande di mercati come quello dei libri o del cinema. Quindi c’è un senso nell’aver voluto creare un quartiere totalmente dedicato ai videogiochi. E non si può negare che tutto questo non sia affascinante: anche se i tempi in cui videogiocavo sono finiti da un pezzo, se succedesse (cosa alquanto improbabile) di ritrovarmi in quel luogo, mi perderei nel guardare e visitare tutti gli intrattenimenti realizzati, perché si deve ammettere che quello che è stato creato è qualcosa di meraviglioso.
Oltre che meraviglioso, ha pure un senso la sua realizzazione, visto che sarà sede di eventi dedicati al gaming e soprattutto agli Esports, tornei di grande risonanza che attirano migliaia di giocatori e soprattutto tantissimi sponsor con i loro forti investimenti. Turismo, pubblicità: quanto fatto a Qiddya City, renderà moltissimo in fatto di guadagni e per questo si è investito così tanto.
Tuttavia, non si può evitare di fare una riflessione: è logico che s’investa pensando al guadagno. Ed è altrettanto logico che si guardi dove si possa guadagnare di più. Però fa pensare come si pensi più al superfluo che al necessarrio. Sia chiaro non si sta puntando il dito a chi crea tutto questo: la cosa dipende anche molto dalle persone, visto quanto giocano, quanto spendono in tutto ciò che è legato ai videogiochi. Imprese e imprenditori investono poi di conseguenza in base alla domanda. E con i videogiochi di domanda ce n’è in abbondanza.
Però è stridente vedere quanti miliardi vengono investiti per i videogiochi e quanto poco in confronto viene investito per la ricerca, per non parlare dei tagli che vengono fatti alla sanità (chissà perché viene in mente l’Italia); si fa molto meno per contrastare la povertà, le differenze sociali, gli interventi da effettuare in zone colpite da calamità naturali. Va bene svagarsi e divertirsi, ma queste cose dovrebbero venire dopo che si è pensato alle priorità; avrà anche un senso dare dei servizi a centinaia di migliaia di persone appassionate di videogiochi, ma si hanno decine di milioni di poveri (non si è voluto esagerare, ma sarebbe meglio parlare di centinaia di milioni) che hanno bisogno di beni essenziali come cibo, medicine, posti dove dormire.
Differenze sociali ce ne sono sempre state al mondo, c’è sempre stato chi poteva permettersi di tutto e chi non aveva niente. Tuttavia, l’umanità dovrebbe essere evoluta e aver capito che certe cose non andavano bene, che se l’uomo si considera essere superiore ed evoluto dovrebbe aver superato e risolto certe situazioni. Invece si è sempre a parlare di condizioni vecchie come il mondo, a dimostrazione che certe misure non sono state ancora colmate e forse non si vuole colmarle.
In tanti hanno sentito parlare della banana di Cattelan, Comedian, la banana attaccata a una tela con un pezzo di nastro adesivo e venduta per 6,2 milioni di dollari. Come ben si sa, una banana è qualcosa che non dura molto e infatti l’acquirente dell’opera d’arte ha ricevuto un kit (un rotolo di nastro adesivo, una banana, il certificato di autenticità e le istruzioni per l’installazione) per realizzarla a casa sua. L’acquirente ha detto che sarà felice di mangiarsela (cosa che ha già fatto) e ha dichiarato che: “Non si tratta di una semplice opera d’arte, ma di un fenomeno culturale che unisce i mondi dell’arte, dei meme e della comunità delle criptovalute” e ha aggiunto anche “che mangerà questa banana “come esperienza artistica unica, per avere un posto sia nella storia dell’arte che nella cultura popolare”.” (1)
La cosa ha fatto discutere e in tanti hanno detto la loro. Qualcuno ha definito Cattelan un genio e da un certo punto di vista, lo si può definire tale, visto che con una spesa minima (si può trovare un chilo di banane a poco più di un euro, un rotolo di nastro costa poco di più) ha avuto un guadagno senza precedenti (si può tranquillamente dire sei milioni di volte superiore). Si è detto che Comedian è un’opera d’arte perché è una creazione prodotta da un artista, spostando il focus dall’oggetto artistico tradizionale al concetto che rappresenta, sfidando la nostra comprensione di cosa sia l’arte. Non si tratta di una semplice banana attaccata al muro, ma di un gesto che mette in discussione il valore simbolico, culturale ed economico degli oggetti e si pone in maniera critica nei confronti dello stesso sistema che l’ha prodotta. Si tratta di un ready made, ovvero di un oggetto ordinario, quotidiano, persino banale, che viene però spostato in un contesto artistico (per esempio una galleria d’arte) e diventa quindi un’opera d’arte per decisione di un artista che è universalmente riconosciuto per essere, appunto, un artista. (2)
Si è detto anche che costa tanto perché è un’opera d’arte a cui viene attribuito un elevato valore economico. Il prezzo elevato di Comedian non definisce la sua natura artistica, ma è piuttosto un effetto del sistema dell’arte contemporanea. L’opera sarebbe arte anche se non costasse nulla, perché il suo valore risiede nel concetto che rappresenta. Il costo è, come detto, un riflesso del valore che il mercato attribuisce all’opera (2). E si aggiunge che il valore di Comedian non risiede nel materiale (una banana e del nastro adesivo) ma nell’idea e nel contesto in cui è stata presentata. Chi ha acquistato l’opera non ha comprato un oggetto fisico, ma un’opera d’arte rappresentata da un concetto, e ha acquistato il diritto di replicarlo. L’acquirente ha riconosciuto in Cattelan un artista capace di catturare lo spirito del nostro tempo, e il prezzo pagato riflette questo riconoscimento. Un altro fattore è il prestigio associato al possesso di un’opera d’arte concettuale famosa. Comprare Comedian significa non solo possedere un pezzo unico della storia dell’arte contemporanea, ma anche partecipare a un discorso culturale che va oltre l’oggetto in sé. È come acquistare un simbolo: chi possiede Comedian possiede un pezzo della conversazione globale sull’arte. (2)
Chi più ne ha più ne metta; il link citato nel punto 2 parla ampiamente della cosa, difendendo Comedian a spada tratta: è un punto di vista.
Il mio punto di vista su tale questione è come quello del ragionier Ugo Fantozzi in Il secondo tragico Fantozzi (vedere dal minuto 1 e 33 della clip).
6.2 milioni di dollari per una banana attaccata con adesivo a una tela sono una cazzata pazzesca. Trovo difficile trovare parole per descrivere l’imbecillità della cosa. Non so se è più da imfamare chi ha realizzato questa cosa, chi l’ha valutata o chi l’ha comprata. Tutto questo clamore, tutti questi soldi investiti per una cosidetta idea, per qualcosa d’astratto, sono un’assurdità senza senso e trovo ancora più senza senso chi cerca di proteggerla e giustificarla. Comedian non è un’opera d’arte: l’arte è un’altra cosa, non è questa roba. A pensarci bene, Comedian, non può neppure rappresentare un’idea, come è stato detto, perché non si sa neppure di che idea si tratta. Questa al massimo è una provocazione, ma una provocazione non la si vende a questo prezzo; Cattelan non è un genio e non va nemmeno considerato intelligente: se fosse intelligente, non l’avrebbe venduta, l’avrebbe definita qualcosa che non ha prezzo. Invece se n’è approfittato e gli approfittatori non meritano di essere considerati artisti. Con 6,2 milioni di dollari si potevano fare scuole, ospedali, sfamare senzatetto, ricostruire interi paesi colpiti da disastri naturali e invece li si mettono per un frutto che dopo qualche giorno marcisce. Se è da biasimare l’autore di questa cosa, ancora di più lo è chi l’ha comprato, che perché ha tanti soldi vuole dimostrare di averli, vuole fregiarsi di titoli senza senso. Tutto questo è assurdità e follia, è un insulto ai poveri, agli sfortunati, all’intelligenza, ai veri artisti. Perché se Comedian è un’opera d’arte allora opere come la Gioconda, la Pietà, la Cappella Sistina, cosa sono? E quanto possono valere? Se seguiamo la logica usata per Comedian, siamo dinanzi a qualcosa di fuori scala, assolutamente priva di prezzo perché di valore incalcolabile.
Pazzia. Tutto questo è soltanto pazzia. E non ci meravigliamo se il mondo scivola sempre più in basso.
Lo scrittore è ciò che scrive?
Ovvero, i libri sono specchio di chi scrive? Se si tratta di un’opera autobiografica, sicuramente. Se si tratta di saggistica, lo scrittore mette una parte delle conoscenze che ha, ma non viene mostrato nulla del suo carattere, delle sue preferenze, antiatie, simpatie.
E per quanto riguarda la narrativa?
Dipende, anche se spesso un autore finisce per mettere una parte di sé in quello che scrive. Può essere un’esperienza, dei pensieri, un credo, alle volte finisce per riconoscersi anche con un personaggio. Uno degli esempi più immediati è quello di J.R.R. Tolkien, che mise molto di sé nelle sue opere; l’amore di Beren e Luthien è praticamente specchio dell’amore tra Tolkien e la moglie, l’amore per i cavalli che provava lo scrittore si vede nei Rohirrim. E poi ci sono gli orrori della guerra che sono quelli che lui ha vissuto nella Prima Guerra Mondiale, dove molto si sente della perdita degli amici; l’amore per la natura, i moniti per l’industrializzazione che avrebbe portato danni al mondo. Naturalmente, Tolkien è molto di più dei suoi scritti, però non si può non notare quanto di lui sia stato messo nelle proprie opere.
Altro esempio può essere quello di Stephen King, che nelle sue opere ha messo molti dei suoi incubi, delle sue esperienze, al punto che nella serie della Torre Nera lo scrittore americano ha voluto mettere il grave incidente che gli è quasi costata la vita nel 1999. Logicamente la cosa è stata romanzata e non c’è stato nessun incontro con i personaggi da lui creati (se non nella sua immaginazione), tuttavia non si può non notare quanto del reale è entrato nell’immaginario e quanta influenza ha avuto sui suoi scritti.
Tuttavia, non è così automatico che le opere siano specchio dell’autore: chi scrive di serial killer, di omicidi, non sta certo scrivendo di fatti che ha vissuto. A tanti può essere successo di fantasticare sulla dipartita di un capo dispotico e magari l’hanno pure messo su carta, ma questo non sta a significare che l’hanno fatto poi davvero nella realtà.
Battute a parte, alle volte succede che un autore scriva qualcosa di diverso da quello che sente, da quello che è; per esempio un autore può creare un personaggio che è in netto contrasto con la propria persona (esempio: Arthur Conan Doyle con Sherlock Holmes) oppure realizzare una figura che rappresenti quello che lui avrebbe voluto essere o che avrebbe voluto essere in una determinata occasione. Ci sono autori che mettono su carta storie oscure, fatte di personaggi non proprio positivi magari per esorcizzare lati di sé che temono (e qua viene da dire che è meglio mettere su carta violenza e omicidi che attuarla nella realtà), altri che cercano di mettere in mostra la parte migliore dell’uomo magari perché non sono riusciti a farlo nella realtà.
Sia chiaro: queste sono solo supposizioni, ipotesi. Solo gli autori che parlano direttamente di quello che scrivono, di cosa li ha ispirati, cosa hanno voluto mostrare, possono dare risposta a queste cose.
Questo però porta a un caso che ha fatto molto discutere e che è stato spinoso, ovvero quello di Marion Zimmer Bradley. In molti avranno sentito parlare della sua opera più famosa, Le Nebbie di Avalon, vuoi per averla letta, vuoi per aver visto la serie tv, vuoi perché è divenuto simbolo per aver dato risalto alla figura femminile, non più relegato a figura di secondo piano, ma protagonista, artefice del proprio destino. La Bradley fu vista per anni come una figura positiva, specie per come mostrava la donna nei suoi romanzi, almeno fino a quando, quindici anni dopo la sua morte, la figlia rivelò una realtà spiazzante: gli abusi sessuali subiti dalla madre. E lei non fu la sua unica vittima.
“Dopo il divorzio dal primo marito, la scrittrice si risposa dopo nemmeno un mese con Walter Breen, un numismatico, da cui successivamente ha due figli. Breen ha già condanne di piccola portata per molestie su minori nel momento in cui si sposano. Nel 1989, Breen è accusato, da parte della figlia Moira, di molestie sessuali nei confronti del figlio di una collega della Bradley, una organizzatrice di convention di fantascienza, che per un periodo era residente a casa dei Breen.
Grazie alla denuncia di Moira, Breen è arrestato e processato, in quanto non solo deve rispondere del recente capo d’accusa, ma anche di altri ventidue casi di abuso sessuale testimoniati sempre dalla figlia. Il Processo si trascina per alcuni anni, finchè nel 1991 Breen è condannato a dieci anni di carcere, dove però muore poco dopo, nel 1993. All’epoca dei fatti, durante gli interrogatori, la Bradley dichiara di essere al corrente delle attività del marito, contribuendo addirittura a coprirlo. Nonostante ciò, la scrittrice non subisce nessuna condanna. Perciò, quando 15 anni dopo la morte di sua madre, Moira rivela in un blog le atrocità subite, esse sono meramente una conferma di una situazione già in parte nota.
“Era molto peggio. La prima volta che lei mi ha molestato avevo tre anni. L’ultima ne avevo dodici ed ero in grado di scappare. Ho mandato in prigione Walter per aver molestato un ragazzo. Avevo cercato di intervenire già quando avevo tredici anni, dicendo tutto a mia madre e a Lisa (Elisabeth Waters – compagna della Zimmer, ndr.), ma loro si limitarono a farlo trasferire nel suo appartamento. Ho dovuto spesso dormire da amici sin da quando avevo dieci anni, a causa del costante flusso di persone fuori controllo per la droga che andavano e venivano e delle orge che si tenevano nella nostra “casa”. Non sono novità. Walter era uno stupratore seriale, aveva fatto molte, molte vittime (alla polizia ne ho elencate ventidue). Ma Marion era di gran lunga peggiore. Era crudele e violenta, sessualmente del tutto fuori di testa. Non sono la sua unica vittima e le sue vittime non erano solo bambine. Vorrei poter avere notizie migliori.” Dopo queste affermazioni, si sono tutti domandati per quale motivo Moira parlasse di quanto accaduto solamente dopo quindici anni dalla morte di Marion Zimmer Bradley. Sulla questione, la Greyland risponde tramite il The Guardian:
“Perché ho pensato che i fan di mia madre si sarebbero arrabbiati con me per aver detto qualcosa contro una persona che si era battuta per i diritti delle donne e che aveva portato molti di loro a percepire in modo diverso se stessi e la propria vita. Io non volevo ferire nessuno di coloro che aveva aiutato, così ho tenuto la bocca chiusa.”
Successivamente Moira, con altre lunghe lettere, descrive nel dettaglio anche la violenza psicologica subita. Entrambi i genitori hanno delle idee sul gender e sull’orientamento sessuale molto specifiche: tutte le persone sono omosessuali e cercano di nasconderlo per entrare nel costrutto sociale eterosessuale. Inoltre, sono inorriditi dalla femminilità della figlia. Per anni, la forzano a farle credere di essere omosessuale e un maschio intrappolato nel corpo di una femmina. La figlia è, per la coppia, una sorta di esperimento sociale. Qualche tempo dopo, anche il fratello Mark, conferma la versione della sorella, confessando di essere anche lui vittima di abusi sessuali dei genitori. (1)
Questi fatti hanno cambiato molto del modo in cui la scrittrice veniva vista; c’è chi l’ha rigettata (domanda personale: forse è per questo che nelle bancarelle dell’usato vedevo tante opere di questa scrittrice?), chi non sapeva come gestire la cosa, chi teneva separata la Bradley scrittrice dalla Bradley persona. Certo, fa molto pensare come una persona che abbia scritto libri come Le Nebbie di Avalon nella realtà abbia compiuto simili crimini. Forse lo scrivere è stato per lei un ricercare la parte più luminosa di sé che nella vita non aveva usato? Forse era stato una forma di riscatto? Forse un modo per coprire quello che aveva fatto, dando un’immagine di sé differente? Forse nei suoi libri metteva l’alter ego che avrebbe voluto essere?
Non ci sono risposte a queste domande, ci sono solo i fatti e i fatti sono che ha scritto bei libri ma ha anche commesso crimini non da poco, alcuni dei quali realizzati su dei bambini, il che rende la cosa ancora più grave. Sta a ognuno dare un giudizio e decidere se leggere o meno i suoi libri sapendo quello che ha fatto. Le Nebbie di Avalon (è del 1983) l’ho letto prima che si sapesse dei suoi reati; ho altri suoi libri che non ho ancora letto: forse li leggerò, forse no, dipenderà dal momento e se li troverò validi. Simili scelte le ho fatte con altri autori, come a esempio con Silvana De Mari: nonostante fossi critico per sue scelte e affermazioni, e non le condividessi per nulla, ho trovato validi dei suoi libri (L’ultimo elfo) (c’è però da dire che la De Mari non ha mai fatto di lontanamente paragonabile a quanto commesso dalla Bradley).
Come riportato dall’articolo linkato alla fine del post, non è facile trovare una risoluzione: “Una delle domande poste dal giornale è infatti se vi è il rischio di rigettare i valori promossi nelle opere rigettando la figura stessa che le ha create, oppure se si riesca a separare la figura da ciò che ha promulgato. Il giornale lascia aperta la domanda, ma rimarca che la sua linea di pensiero: “Sostenere questi autori manda un tacito messaggio che quello che stanno facendo vada bene.””
Forse non c’è una risposta a questa domanda, come forse non c’è una risposta alla domanda se lo scrittore è ciò che scrive. Forse perché non esiste un’unica risposta, ma ogni individuo deve trovare quella che è più giusta per il proprio essere.
Ho parlato di Planescape: Torment recensendo Dungeons & Dragons – L’onore dei ladri, asserendo che sarebbe stato più che adatto per la realizzazione di un film perché si è dinanzi a una gran bella storia.
Innanzitutto, parliamo dell’ambientazione. Planescape si differenzia dal più conosciuto mondo di Faerun perché mentre il secondo è la classica ambientazione composta da elfi, nani, gnomi, orchi, goblin, draghi, oggetti incantatti, magie (insomma, si pensi al genere sword and sorcery), il primo presenta un sistema più complesso. Innanzitutto, si può dire che Planescape sia un punto di raccordo con le altre ambientazioni di Dungeons & Dragons, collegandole attraverso portali magici; ciò rende molto interessante e varia la scelta del tipo di storie che si possono raccontare, oltre alla possibilità di visitare i vari Piani presenti in esso: ci sono quelli Interni (divisi in Elementali, Para-Elementali e Quasi-Elementali), quello Etereo, quello Astrale e quelli Esterni, probabilmente i più interessanti (tra i quali si possono citare Carceri, Baator, Abisso, Elysium). Il tutto fa centro a Sigil, la città delle Porte, completamente contenuta all’interno di un toroide di cui ricopre la superficie interna, situata in cima alla Spira, un picco di altezza infinita al centro delle Terre Esterne. Non c’è un cielo, ma solo una luce diffusa che illumina tutto; il passare dei giorni è creato dall’aumentare e diminuire dell’intensità della luce. Sigil è controllata dalla misteriosa Signora del Dolore (“Lady of Pain”), che tipicamente non si occupa degli affari giornalieri, ma interviene solo quando qualcosa minaccia la stabilità di Sigil stessa. Normalmente appare come una donna fluttuante in una lunga tunica che indossa una maschera metallica circondata da lame. Le sue motivazioni sono imperscrutabili, ma chi anche accidentalmente la offende o le si oppone viene scuoiato vivo o teleportato nel suo labirinto segreto. (1) Oltre alla Signora del Dolore, ci sono quindici fazioni, ognuna delle quali ha le proprie caratteristiche, i propri fini e i propri segreti.
Con queste basi e questa ambientazione, la Black Isle nel 1999 realizzò il videogioco Planescape: Torment. Sebbene apprezzato dalla critica, il gioco non andò bene in termini di vendite (in Italia non ebbe una traduzione ufficiale, la ottenne nel 2002 con una patch gratuita realizzata dall’Italian Translation Project), ma col tempo ebbe il riconoscimento meritato, perché si era dinanzi a una storia davvero profonda e articolata. Qualcuno dinanzi alla grafica potrebbe storcere il naso facendo il confronto con quelli attuali (ma si consideri che sono passati venticinque anni dall’uscita), ma se si vogliono fare confronti, allora c’è da dire che molti dei videogiochi attuali impallidiscono a livello di trama e personaggi. Soprattutto si differenzia da molti giochi attuali e del passato perché non tutto viene risolto combattendo; certo, si può scegliere la via del combattimento, ma le ricompense e le scoperte migliori si ottengono attraverso scelte basate su riflessione e conoscenza, non per niente la scelta migliore nel creare e sviluppare il personaggio è concentrarsi su caratteristiche come intelligenza e saggezza, così da poter scoprire molti più aspetti della storia del protagonista.
Ed eccoci al protagonista, attorno cui ruotano tutti i personaggi e la trama. Nameless One (uno senza nome) si risveglia all’interno di un obitorio, senza ricordarsi assolutamente nulla: non sa niente di sé, degli altri, degli eventi che l’hanno portato dov’è. Le uniche indicazioni che lo possono aiutare sono i tatuaggi che ha sul corpo, dove ci sono delle sue memorie. Questi e Morte, un teschio volante parlante che gli gira sempre intorno e ciarla in continuazione; assieme a lui, uscito dall’obitorio, comincia il suo lungo viaggio alla ricerca della storia su se stesso, sul perché sia praticamente immortale (pochissime cose gli possono dare la morte definitiva, come un potente oggetto incantato o la Signora del Dolore) e perché le figure più tormentate siano attratte da lui. Un viaggio attraverso Sigil e i Piani, dove incontrerà tracce su suoi precedenti passaggi, personaggi che hanno già avuto a che fare con lui, ma non solo (attenzione, spoiler): avrà a che fare con sue precedenti incarnazioni, che hanno pensato e agito in maniera differente: c’è stato un tempo in cui era pazzo, un altro in cui era freddo, distaccato e calcolatore, pronto a usare e sacrificare chiunque per raggiungere i suoi scopi (insomma, un vero bastardo). E poi c’è la prima, quella che ha dato il via a tutto, quella che ha rischiato d’infrangere i Piani per poter rimediare a tutto quello che ha fatto; la più comprensiva, quella con più rimpianto (questa è la risposta che dà a una delle domande più importanti del gioco: che cosa cambia la natura di un uomo?), quella che lo porterà all’epilogo della sua lunga e tormentata storia. Un epilogo che fa avverare le parole di una persona che tanto l’ha amato e che è giunta a morire per lui, ma non solo, che ha continuato a esistere anche dopo la morte per poter essergli di aiuto: “Ecco cosa vedono i miei occhi, amore mio, liberi dalle catene del tempo: incontrerai tre nemici, ma nessuno di loro più pericoloso di te stesso al pieno della tua gloria. Sono ombre del male, del bene e della neutralità, animate e forgiate dalle leggi dei piani. Giungerai ad una prigione costruita sul pianto e sul dolore, dove perfino le ombre sono impazzite. Là ti verrà richiesto di compiere un terribile sacrificio, amore mio. Per porre fine alla cosa, dovrai distruggere ciò che ti tiene in vita e non essere più immortale. So che devi morire… Finché puoi ancora. Il cerchio deve chiudersi, amore mio…”
Giunto alla Fortezza dei Rimpianti, situata nel Piano Negativo, affronterà Trascendent One, la sua mortalità corporeizzata, nata da un rituale perpetrato da Ravel Puzzlewell, strega notturna e la più potente delle Sorelle Grigie, per ottenere l’immortalità e rimediare a tutti i peccati commessi, perché una sola vita non sarebbe bastata per redimersi; il problema con questo rituale era che ogni volta che Nameless One moriva e rinasceva, un’altra persona moriva al suo posto, divenendo un’ombra dannata. Col tempo, tutto ciò avrebbe portato alla fine della vita, mettendo fine all’esistenza sui Piani. Ridivenuto una sola cosa con la sua mortalità, Nameless dirà addio ai suoi compagni giunti con lui fino a quel punto, scontando la sua pena combattendo nell’Ade nella Guerra Sanguinaria, uno scontro senza fine tra le forze del Caos e quelle della Legge (Demoni contro Diavoli), dove chissà, forse un giorno potrà, scontata la sua pena, trovare redenzione.
Per questo motivo nell’articolo precedente dicevo che con Planescape: Torment c’erano tutte le basi per fare un film basato sul mondo di D&D e di far saltar fuori qualcosa di davvero buono, perché si è dinanzi a una storia che ha lasciato un profondo segno nel mondo dei videogiochi.
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