Racconti delle strade dei mondi

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L’inizio della Caduta

 

Jonathan Livingston e il Vangelo

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L’Ultimo Demone

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L’Ultimo Potere

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Strade Nascoste – Racconti

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Strade Nascoste

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Inferno e Paradiso (racconto)

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Il magazzino dei mondi 2

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Il Dio Indifferente

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Il Dio IndifferenteIl Dio Indifferente è il primo volume di La Trilogia del Testimone, realizzata da Steven Erikson e appartenente al vasto mondo Malazan. Ambientato diversi anni dopo le vicende narrate in Il Libro Malazan dei Caduti, vede tra i protagonisti Rant, uno dei figli di stupri di guerra di Karsa Orlong, famoso e potente Toblakai che ora viene adorato come un dio, anche se a lui della cosa non può importare di meno, dato che non vuole essere la guida di nessuno. Descritto così, Karsa Orlong del mondo di Malazan, per chi non lo conoscesse, può sembrare un mostro, un essere brutale, ma le azioni da lui compiute sono state effettuate sotto l’effetto dell’olio-sangue, una sostanza con cui i Toblakai creano le loro famose spade di legno-sangue, che portano a contatto con le loro labbra prima delle battaglie, stimolando così i muscoli e riempiendo le menti di lussuria e rabbia; una pratica molto diffusa tra le tribù Toblakai e le cui vittime, sempre della stessa specie, accettavano di buon grado (un po’ meno gli umani).
Rant vive nella cittadina di Lago d’Argento, metà Toblakai e metà umano, assieme alla madre impazzita per via dell’olio sangue, temuto e odiato da tutti. Allontanato da lei prima che abusi di nuovo di lui, Rant viene salvato da un cacciatore del luogo prima che anneghi; Damisk, questo il nome dell’uomo, si fa carico della sua incolumità, cercando in qualche modo di espiare il senso di colpa per quello che è stato costretto a fare in passato, e conducendolo verso le tribù del padre.
Intanto, un gruppo di fanti di marina si sta preparando a proteggere la cittadina da un’invasione proveniente dal nord, dato che lo scioglimento dei ghiacci (conseguenza di quanto successo nella saga di Il Libro Malazan dei Caduti) sta spingendo tante tribù verso i territori meridionali. E con il gruppo solo in apparenza sgangherato di soldati Malazan, Erikson dà il meglio di sé: momenti esilaranti e dialoghi irresistibili si alternano a momenti toccanti e di eroismo, con i fanti che dimostrano un’umanità che di rado ci si aspetta da gente temprata dalle guerre e dagli orrori dei campi di battaglia. Perché i fanti di marina combattono per proteggere, non per conquistare, e, soprattutto, per fare la cosa giusta.
I due archi narrativi procedono parallelamente fino a incrociarsi nel finale, mostrando da una parte il percorso di crescita di Rant (che impara in fretta a divenire adulto, senza diventare però cinico e duro, ma sviluppando un’empatia verso il prossimo e il dolore rara da trovare in un Toblakai ma anche tra gli umani) e dall’altra la genialità e la generosità dei fanti di marina, facendoli apprezzare sempre di più. Senza dimenticare i Jhek, con il loro dramma di cercare di sopravvivere e ritrovare quella guida che da tempo hanno perso, e la conoscenza del loro diverso punto di vista dagli umani (sono tribù selvagge di soletaken e d’ivers).
Con Il Dio Indifferente Erikson riesce a mettere un altro tassello nel grande quadro che è il mondo Malazan, fatto di canali, poteri e creature misteriosi, per non parlare delle affascinanti Runt, monete che hanno lo stesso compito del famoso Mazzo dei Draghi. E poi c’è Karsa Orlong, protagonista nel suo non essere presente, almeno fisicamente, nella storia: genitore, guida, leader e dio assente, le cui colpe ricadono su quelli che sono venuti dopo di lui, ma di cui è indifferente, come se non fossero una sua responsabilità.
Un romanzo di guerra, ma anche una storia di crescita, di prendere consapevolezza del dolore e della rabbia e di come superarli per divenire qualcosa di migliore ma soprattutto creare un mondo migliore, dove si superarono le barriere della differenza di etnia.
Personalmente, ho avuto alcune difficoltà nella prima parte del romanzo, un po’ perché è passato molto tempo dalla lettura della saga Malazan ed è difficile ricordarsi tutto, un po’ per motivi che esulano dal valore del libro, che mi hanno fatto interrompere la lettura; ma superati quei momenti, devo ammettere che Il Dio Indifferente è stata una lettura davvero valida, divertente e coinvolgente, dove viene mostrato quanto Erikson è cresciuto come scrittore rispetto ai suoi primi libri, confermando di essere un autore notevole.

Silent Hill

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silent hillSilent Hill è uno dei pochi, anzi, forse pochissimi, film tratto da videogiochi a essere convincente (si fa riferimento solo a pellicole con attori in carne e ossa, altrimenti, se si prendessero in esame anche quelli di animazione, le cose andrebbero un pochino meglio). Qualcuno potrebbe sottolineare che con il materiale a disposizione non era difficile, dato che la serie di Silent Hill ha un certo spessore e approfondimento psicologico, a differenza di quei film tratti per esempio da picchiaduro (Street Fighter, Mortal Kombat, Dead or Alive, Tekken, che a livello di storia non erano dei capolavori di complessità) o platform (sarebbe meglio dimenticare quel flop che è stato Super Mario Bros; un po’ meglio è andato con Sonic). Con i videogiochi d’avventura le cose potevano andare diversamente, ma qui le fortune e i successi sono stati alterne: se da un lato Prince of Persia ha raggiunto un giudizio positivo (e, personalmente, pure Warcraft – L’inizio), non si può dire lo stesso per quelli legati a Tomb Rider (anche se quello del 2018 è migliore di quelli interpretati da Angelina Jolie).
Si possono poi menzionare i vari Tron, Hitman, Rampage – Furia animale, Double Dragon, Doom (anche se ricorda un po’ il secondo Alien, non era partito male, ma di certo non è finito bene), Assassin’s Creed, che hanno avuto alterne fortune, fino ad arrivare alle pellicole horror, di cui fa appunto parte Silent Hill, che hanno avuto un filone di successo come Resident Evil (essere andato bene al botteghino però non è sempre sinonimo di qualità) e altri film che sono stati tra i peggiori realizzati (Alone in the Dark).
Cos’ha Silent Hill in più rispetto alle storie sopra citate per essere considerato di un altro livello? Si focalizza sulla storia, approfondendo i personaggi, senza cercare di stupire troppo con effetti speciali e adrenaliniche scene d’azione (che in questo contesto ci starebbero a dire ben poco). Soprattutto, si concentra a realizzare al meglio l’ambientazione e l’atmosfera che permea tutta la vicenda. E se su questo punto praticamente tutti sono d’accordo, la critica si divide sulla storia, tra chi l’ha apprezzata e chi contesta che non rimane completamente fedele a quanto visto nei videogiochi. Sinceramente, non conosco approfonditamente la serie videoludica e quindi il mio giudizio è parziale, ma per quello che ho visto il film sta in piedi da solo e si fa apprezzare anche senza conoscere tutto quello che c’è dietro.
Tutto ruota attorno a Sharon, una bambina adottata da Rose e Christopher Da Silva: la piccola, oltre a soffrire di sonnambulismo, ha incubi ricorrenti su una cittadina chiamata Silent Hill. Rose, decisa a risolvere lo stato in cui versa la figlia, parte alla volta di Silent Hill nonostante il parere contrario del marito, che rimane a casa a indagare su di essa, scoprendo che è una cittadina fantasma evitata da tutti. Chirstopher prova a fermarla, ma senza successo.
Rose viene seguita da una poliziotta, Cybil, e durante la fuga ha un incidente. Al risveglio, si ritrova in un ambiente avvolto dalla nebbia, dove piove cenere, e sua figlia è scomparsa. Comincia a cercarla fino a quando il suono di una sirena fa cambiare tutto attorno a lei: tenebra e sangue piovono dal cielo ed è attaccata da creature mostruose, che però svaniscono come sono apparse. Poco dopo incontra una donna vestita malamente che riconosce nel medaglione di Sharon che Rose porta la figlia perduta tempo prima. Rose fugge da lei per incontrare di nuovo Cybil: oltre a scoprire che la strada è interrotta e sono isolate dal mondo, sono attaccate da altre creature orrorifiche.
Mentre le due sono impegnate nella ricerca di Sharon, Cristopher, con l’aiuto di uno sceriffo, giunge a Silent Hill, ma qui non ci sono né nebbia, né cenere che cade dal cielo: è solo una città abbandonata. A questo punto si comincia a capire che, benché il posto sia lo stesso, le vicende si stanno sviluppando su due piani differenti, come se ci fossero due mondi paralleli.
Rose e Cybil, addentrandosi sempre più nella loro Silent Hill e nell’oscuro segreto che la circonda, incontrano i suoi abitanti, che si rifugiano in una chiesa quando suona la sirena, e nuove creature, tra le quali il potente Pyramid Head (a lui si deve una delle scene più riuscite del film). In apparenza le due donne sembrano al sicuro all’interno del luogo sacro, ma scopriranno che in realtà esso non è che un ritrovo di fanatici guidati da Christabella, capaci di tutto per la loro distorta fede, adesso come in passato. Rose scoprirà il segreto che si cela dietro Sharon, un segreto nato dal fanatismo, dall’isteria, dalla caccia a streghe che solo la setta vede (ovvero chiunque non la pensa come essa e non segue le sue regole malate). E, portandolo alla luce, darà il via a una vendetta che ha atteso per anni di essere compiuta.
Benché non completamente fedele al soggetto originale, Silent Hill riesce a mantenere il suo spirito, dove la colpa e il peccato generano qualcosa che s’incarna in un male tremendo e maledetto, che non lascia alcuna possibilità di fuga. A nessuno.

Dune

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DuneDune è un classico della fantascienza che ha ispirato non poco l’immaginario fantascientifico, basti pensare all’influenza avuta su Guerre Stellari, per fare un esempio. Nonostante questo, le sue trasposizioni sul grande e piccolo schermo hanno diviso la critica, non tanto per la fotografia, apprezzata per entrambe le pellicole cinematografiche realizzate (quella del 1984 e del 2021), meno per la serie tv, quanto per la sceneggiatura e il motivo è semplice: Dune è molto complesso e difficilmente adattabile per cinema e televisione, poiché, oltre a essere introspettivo, molte delle cose avvengono nella mente dei protagonisti. Elementi non da poco, che limitano in maniera abbastanza determinante la buona riuscita di una pellicola sulla storia realizzata da Frank Herbert. Eppure, se ci si pensa, la trama di Dune non è particolarmente complessa: l’imperatore Shaddam IV comincia a considerare il duca Leto Atreides una minaccia per la sua posizione e decide di farlo fuori, ma non può agire direttamente, pena la rivolta delle altre grandi case. Architetta così una congiura assieme agli Harkonnen, nemici giurati degli Atreides, mandando questi ultimi a governare al posto dei primi su Arrakis (conosciuto anche come Dune), un pianeta desertico ma l’unico possedente la Spezia, la merce più preziosa esistente. Il duca Leto soccombe alla trappola creata ma suo figlio e la concubina che lo ha generato sopravvivono, divenendo i fautori della profezia che da secoli guida le credenze degli abitanti di Arrakis, avendo così la vendetta su chi gli è stato nemico.
Detta così, la storia di Dune sembra abbastanza semplice e non si riesce a capire come allora sia così difficile realizzare una sceneggiatura per film che rispetti quanto scritto nel romanzo. Ma se si va oltre la sintesi fatta e si legge il romanzo, si capisce subito il perché. In primis, ci sono i punti di vista di diversi personaggi: il Duca Leto Atreides, suo figlio Paul, sua madre Lady Jessica, Thufir Hawat, Gurney Halleck, il dottor Yueh, il Barone Vladimir Harkonnen, il Conte Hasimir Fenring, Stilgar, Liet-Kynes. Questo rende Dune un romanzo corale, anche se le vicende ruotano attorno alla figura di Paul e alla sua ascesa come Kwisatz Haderach, una sorta di profeta/messia con poteri di preveggenza cui si uniscono le capacità (di combattimento e mentali e dell’uso della voce) da Bene Gesserit apprese dalla madre.
A questo vanno aggiunte le usanze, le credenze, il modo di vivere dei Freemen, gli abitanti di Harrakis; il modo in cui il pianeta desertico li ha temprati, il rispetto che hanno per l’acqua (così preziosa su Dune), la tecnologia che hanno sviluppato per raccoglierne il più possibile, le conoscenze che hanno sui vermi delle sabbie e sul loro legame con la spezia. Il tutto che si ricollega al loro più grande sogno: rendere Arrakis un mondo più verde, meno duro e più abitabile.
Se in ultimo si aggiungono tutti i conflitti psicologici che i personaggi hanno, la profonda introspezione che viene data loro e la difficoltà di mostrare, e soprattutto amalgamare nella trama, le visioni e tutti i possibili futuri che Paul può vedere (ma anche le visioni create da chi usa la Spezia), si capisce come sia arduo rendere su schermo un’opera del livello di Dune. Senza contare, visto il periodo, quanto sarebbe spinoso affrontare questioni quali l’elevazione di un uomo a un livello semi divino e il jihad, senza contare l’uso di armi atomiche per raggiungere il proprio obiettivo.

Recensioni su Racconti delle strade dei mondi

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Per chi volesse avere un parere su Racconti delle strade dei mondi, l’antologia di racconti che ho fatto uscire da poco, ecco le recensioni realizzate da Italian do it better ed Evasione dalla realtà.

Racconti delle strade dei mondi

Festa dei lavoratori

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Il primo maggio è la Festa dei lavoratori, celebrata in molte parti del mondo per ricordare le lotte dei diritti dei lavoratori (diritti che, con l’avanzare dell’era dell’economia, si sono andati perdendo, specialmente in Italia; anche se, per quanto riguarda il nostro paese, occorre precisare che è stato permesso, con menefreghismo, che fossero tolti).
Riprendendo quanto riportato da Wikipedia , la festa dei lavoratori affonda le sue radici in un periodo di significative e frequenti manifestazioni per i diritti degli operai delle fabbriche durante la Rivoluzione industriale negli Stati Uniti d’America, guidate dall’Associazione dell’Ordine dei Cavalieri del Lavoro americani, i Knights of Labor. Nel 1866, fu approvata a Chicago, in Illinois, la prima legge delle otto ore lavorative giornaliere, legge che entrò in vigore soltanto l’anno dopo, il 1º maggio 1867, giorno nel quale fu organizzata un’importante manifestazione, con almeno diecimila partecipanti. La notizia giunse anche in Europa, dove nei primi giorni di settembre 1864 era nata a Londra la “Prima Internazionale”, ovvero l’Associazione internazionale dei lavoratori, molto vicina ai primi movimenti socialisti e marxisti dell’epoca.
La conquista delle otto ore lavorative, iniziata il 1º maggio 1867 soltanto nello stato dell’Illinois, ebbe una successiva espansione lenta e graduale in tutto il territorio statunitense. Ancora nel 1882, nella città di New York, fu organizzata una importante protesta il 5 settembre, mentre due anni dopo, nel 1884, in un’analoga manifestazione americana, gli stessi Knights of Labor approvarono una risoluzione affinché l’evento di protesta avesse una ricorrenza annuale, senza però proporre ancora una data ufficiale nell’Illinois.

Il Quarto Stato, famoso quadro che ben rappresenta la Festa dei lavoratori

Come ogni anno, da tanti esponenti politici, specie quelli al governo, si sprecano parole su quanto il lavoro sia simbolo di coesione sociale, sia centrale per la vita e la dignità dell’uomo; l’attuale governo non è certo da meno. Come non è da meno nel fare dichiarazioni che bisogna incentivare le famiglie italiane a fare più figli (qualcuno potrebbe vedere anaologie con il regime fascista, dato che anch’esso spingeva perché gli italiani facessero più figli). E qui ci si trova davanti a una contraddizione. Sì, perchè se il governo attuale spinge in questa direzione, va ricordato che sempre un governo di destra, di cui diversi suoi esponenti sono presenti in quello presente, realizzarono e attuarono la legge Biagi, una legge che ha spinto il precariato, creando situazioni sempre più difficili per i lavoratori (e proprio il primo maggio l’attuale governo sta per varare un provvedimento che aumenta tale precariato, con la liberalizzazione dei contratti a termine).
Se non fosse tragica la situazione, ci sarebbe da sorridere dinanzi alla contraddizione che le stesse persone di governo sono andate a creare nel corso di qualche anno: come si può chiedere alle famiglie italiane di fare più figli, se hanno un lavoro precario che non permette di mantenerli, soprattutto dopo aver voluto che i lavoratori si trovassero in una situazione d’instabilità? Sì, perché la legge Biagi è stata fatta per favorire imprenditori e ricchi, facendo peggiorare la condizione di chi lavorava. Sarà il solito luogo comune, ma è una delle tante leggi fatte per rendere i ricchi ancora più ricchi, a discapito sempre della povera gente.
Sarebbe bello se per la Festa dei lavoratori le cose cambiassero in meglio, ma ci si accontenterebbe per lo meno di non subire i soliti berleffi e prese in giro (e con una sinistra che pensa ad altro invece di stare dalla parte dei lavoratori, c’è poco da sperare).

Festa della Liberazione

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Il 25 aprile è la festa della Liberazione. Liberazione dell’Italia dal nazifascismo: la fine dell’occupazione nazista e la caduta del regime fascista. La Liberazione chiuse il capitolo del ventennio della dittatura fascista e quello di cinque anni di guerra che tanto danno e sofferenza hanno portato all’Italia.
Non è la festa della libertà, anche se può sembrare la stessa cosa.
Non è neanche la festa di tutti gli italiani, ma è la festa di chi ha lottato contro i regimi, combattendo per ciò che è giusto, ribellandosi contro regimi oppressivi che tanto male hanno portato.
Queste affermazioni, per qualcuno, possono sembrare un modo per dividere, ma sono una precisazione necessaria, perché c’è una destra, composta anche da quella parte contro cui si è combattuto, che cerca di cambiare i fatti, di riscrivere la storia. Ma così non è e bisogna ricordare di chiamare le cose con il loro vero nome: il 25 aprile è la festa della Liberazione. La festa di chi è insorto contro i regimi fascisti e nazisti e ha combattuto per rovesciarli dal potere (ed è fuori luogo e non è accettabile che in manifestazioni di questo giorni ci siano rappresentanze degli eserciti fascisti e nazisti).
Questo è il 25 aprile. Questa è la Liberazione.

25 aprile - Manifestazione di partigiani per le strade di Milano subito dopo la liberazione

Evangelion

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The end of Evangelion, uno dei film relativi alla famosa serie degli anni 90Neon Genesis Evangelion ha senza dubbio segnato l’animazione degli anni 90, cambiando il modo di vedere gli anime legati ai cosiddetti robottoni. Per quanto potessero essere gradevoli Ufo Robot, Mazinga, Daitarn III, le serie animate prima di Neon Genesis Evangelion avevano dei limiti sia di storia (il nemico alieno invasore che attaccava il Giappone) sia di credibilità (munizioni praticamente infinite); ci sono stati anime che si sono discostati da questo tipo di copione, basti pensare alla prima serie di Gundam e a Fortezza superdimensionale Macross, ma nessuno ha avuto un impatto così forte come Neon Genesis Evangelion. L’animazione ha avuto sicuramente la sua parte, ma ciò che ha contraddistinto veramente Neon Genesis Evangelion sono stati i tanti riferimenti religiosi amalgamati in una storia fantascientifica (gli alieni invasori sono Angeli, potenti entità dalle forme più strane e dalle motivazioni imperscrutabili) e la profonda introspezione dei personaggi.
Per chi non conoscesse la storia (l’anime, prodotto dallo studio Gainax, animato dalla Tatsunoko e sceneggiata e diretta da Hideaki Anno, è uscito nel 1996), in una terra futuristica distrutta da un evento catastrofico conosciuto come Second Impact, dei ragazzini vengono selezionati dalla Nerv per pilotare gli EVA (mecha giganti), gli unici capaci di affrontare e sconfiggere misteriose entità denominate Angeli. Oltre a una bella animazione, a degli scontri adrenalinici e drammatici, robot che non erano solamente macchine ma umanoidi artificiali giganti, c’era alla base del successo di Evangelion una regia convincente, con uno sviluppo dei personaggi interessante, ognuno con i suoi problemi. Il rapporto conflittuale di Shinji Ikari con il padre, capo della Nerv, agenzia militare nata per contrastare la minaccia degli Angeli. Il bisogno di risolvere i problemi esistenziali di Rei Ayanami, un clone di Yui Ikari, moglie di Gendō Ikari, voluto da quest’ultimo perché non ha saputo accettare la sua scomparsa (fusasi con l’EVA-01 durante un esperimento). Asuka Sōryū Langley, con un forte bisogno di autoaffermazione, ma anche con gravi ferite interiori dovute al comportamento di una madre instabile mentalmente prima e suicida poi.
La minaccia misteriosa, i progetti altrettanto misteriosi Adam e Perfezionamento dell’Uomo, mettono tanta carne al fuoco, e come spesso succede, ci possono essere solo due modi per concludere una storia così complessa: o si realizza qualcosa di grandioso oppure si finisce col creare insoddisfazione in chi ha seguito la storia. Purtroppo, con Neon Genesis Evangelion si è verificata la seconda possibilità, con un calo della qualità della grafica nell’ultima parte della serie e ritardi di produzione che hanno portato a raffazzonare la sua conclusione, lasciando molti misteri irrisolti e soprattutto tradendo le aspettative degli spettatori che hanno capito poco dove alla fine la storia voleva andare a parare. Un vero peccato, perché Neon Genesis Evangelion aveva gettato le basi per qualcosa di grandioso, ma era anche troppo complesso e con troppi riferimenti biblici e filosofici perché potessero ben amalgamarsi in una storia fantascientifica se non sviluppati con la dovuta cura.
La serie finì così male e in maniera così contestata che nel 1997 si decise di realizzare Death & Rebirth e The End of Evangelion, due lungometraggi che rifacevano le ultime puntate della serie. Non contenti di ciò, nel 2006 fu dato il via alla Rebuild of Evangelion, una tetralogia cinematografica che riproponeva parte della serie originale ma dandone poi un finale diverso. Se si deve essere sinceri, il risultato però è lo stesso: la storia parte bene, coinvolge, ma arrivati a un certo punto si perde e diventa di difficile comprensione. Il primo film, Evangelion: 1.0 You Are (Not) Alone, è abbastanza chiaro e segue abbastanza fedelmente la parte iniziale della serie tv. Pure il secondo, Evangelion: 2.0 You Can (Not) Advance, si mantiene su questa onda, benché venga immesso un nuovo personaggio (Mari), anche se da qui in poi le cose cominciano a cambiare. Il terzo, Evangelion: 3.0 You Can (Not) Redo, è davvero arduo da comprendere e lascia perplessi, non capendo bene cosa si è visto, anche se si conosce l’universo di Evangelion; le cose migliorano nella prima parte del quarto e ultimo film, Evangelion: 3.0+1.0 Thrice Upon a Time, ma non finiscono nel migliore dei modi e ci vuole un discreto sforzo per capire il tutto (viene da chiedersi se c’è bisogno di scatenare un conflitto di livello universale per arrivare alla comprensione interiore e all’accettazione di parti di sé. E ancora ci si chiede che cosa siano, da dove saltino fuori e cosa servino certi termini, come a esempio la Porta di Nabucodonosor).
Cosa dire di Evangelion? Si tratta di un mondo complesso, a tratti anche ben spiegato per quanto riguarda gli Eva e le loro funzionalità, ma che a un certo punto si perde per aver voluto osare troppo; personalmente apprezzo che si mettano degli elementi religiosi e di filosofia in una storia, ma questo deve essere fatto bene, in maniera misurata, qui invece il tutto viene amalgamato male, quasi come se fosse stato buttato lì senza costrutto. Davvero un peccato. Rimane tuttavia una pietra importante del mondo dell’animazione giapponese.

Quella casa nel bosco

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Quella casa nel boscoQuella casa nel bosco è probabilmente tra i film horror meglio riusciti degli ultimi anni. E si può dire che dia anche un tocco di originalità e novità a un genere che ormai si è fatto conoscere in tutte le salse, dallo splatter allo psicologico; volendo, lo si può definire una carrellata di tanti film già visti e anche un omaggio a essi. Ma non si può non notare anche l’ironia e lo strizzare l’occhio allo spettatore nel prendere in giro certi luoghi comuni. E si può dire che c’è anche una certa intelligenza di fondo nel farsi gioco della costruzione delle pellicole di questo genere, non limitandosi a voler cercare di spaventare lo spettatore e basta.
Quella casa nel bosco comincia in uno dei modi più classici: cinque universitari partono in camper per passare qualche giorno nella casa di un parente lontano dalla città. Avranno le informazioni su come raggiungerlo da un inquietante benzinaio. Fino a questo punto niente che non si sia già visto: i rimandi a Non aprite quella porta e La casa sono fin troppo evidenti. Ma a questo punto le cose cominciano a essere differenti, perché in una base segreta non si sa dove situata, un gruppo di tecnici sta seguendo i ragazzi con telecamere, manipolando le loro percezioni con l’uso di gas e scommettendo su quale scenario andranno a scegliere. Entrando in cantina (cliché del genere) e leggendo un vecchio diario, i cinque attiveranno lo scenario che li vede venire attaccati dagli zombie. Uno alla volta i ragazzi cominciano a morire, senza avere possibilità di scampo perché i tecnici fanno fallire ogni loro tentativi di salvarsi.
Dopo la morte del quarto ragazzo, i tecnici nella struttura segreta festeggiano per essere riusciti a completare il rituale, ma la loro esultanza svanisce quando scoprono che a sopravvivere non è stata soltanto la “vergine” (nei film horror è sempre lei a sopravvivere, anche se in questo caso, come verrà detto, ci si è dovuti accontentare per poter realizzare il rituale): anche il fattone del gruppo, che con l’uso delle droghe ha sviluppato una certa immunità ai gas usati su di loro, è sopravvissuto e ha trovato una stanza di controllo dove porta in salvo la ragazza. Da lì, con un ascensore arrivano alla struttura, dove sono contenuti in celle di vetro mostri di ogni tipo; per evitare di essere catturati dalle guardie, aprono le celle, e così inizia la mattanza. Sopravvivendo alla carneficina, i due scopriranno che loro, assieme ai tre amici morti, erano le vittime sacrificali per un rituale che avrebbe fatto continuare a dormire gli Antichi (un rimando a Lovecraft?), evitando così la fine dell’umanità; uno degli ultimi rituali in grado di farlo, dato che quelli provati nel resto del mondo erano tutti falliti. Il finale è tutto da vedere e non delude di certo.
Quella casa nel bosco è un ottimo prodotto horror, a suo modo divertente, cinico, che non nasconde una certa critica e riflessione sul mondo cinematografico. Da vedere.

The descent

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The descentThe descent è uno dei film horror degli ultimi vent’anni che merita di essere menzionato tra quelli meglio realizzati. Uscita nel 2005, è una pellicola claustrofobica, angosciosa, carica di tensione. La trama è molto semplice: ci sono tre amiche amanti dell’avventura e degli sport estremi. Dopo una discesa di rafting, una di loro ha un incidente d’auto dove perde la figlia e il marito. Un anno dopo, sperando di aver superato la perdita, si ritrova con le amiche e assieme ad altre tre donne decidono di esplorare delle grotte nelle montagne degli Appalachi, nello Stato di New York. Come tipico di ogni film horror, si capisce che le cose si stanno per mettere male perché, a differenza di quanto riferito inizialmente, Juno, la donna che ha organizzato l’esplorazione, ha scelto un complesso di grotte non esplorato, cui si aggiunge il fatto che prima della spedizione ai centri di soccorso sono state date errate indicazioni. Non bastasse ciò, il passaggio dal quale sono arrivate crolla e le sei si ritrovano bloccate sottoterra, costrette a muoversi in un ambiente sconosciuto per trovare una via d’uscita. Sembra esserci una speranza, dato che su una parete trovano dei graffiti che mostrano come ci sia una seconda via d’uscita. Ma presto cominciano a esserci dei rumori e dei movimenti strani e ben presto il gruppo capisce che non è solo dentro le grotte: sarà una discesa verso l’inferno.
The descent non è nulla d’innovativo, ma ha saputo ben amalgare gli elementi messi a disposizione: la paura del buio, il terrore dell’ignoto, la claustrofobia che generano gli spazio chiusi. Ma non è solo la tenebra sotterranea quella con cui avere a che fare: c’è anche quella interiore, che rivela, nei momenti più drammatici, la parte oscura dell’uomo. E allora non c’è più salvezza, per nessuno, solo una discesa negli abissi interiori.
Il film regge per tutto il tempo e non delude mai la tensione, con un finale che ben si addice a tutto quello creato durante l’ora e mezza che lo precede, tra i più convinventi tra le tante pellicole realizzate dal Duemila in poi.