Racconti delle strade dei mondi
Jonathan Livingston e il Vangelo
Strade Nascoste – Racconti
Inferno e Paradiso (racconto)
Lontano dalla Terra (racconto)
La fine di ogni cosa (racconto)
L’Ultimo Baluardo (racconto)
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By M.T., on Settembre 15th, 2024 I film di Mamoru Oshii non sono mai molto allegri (eufemismo), ma molto probabilmente Jin Roh – Uomini e lupi è quello che lo è meno di tutti. Appartenente alla Kerberos Saga, in una realtà alternativa, un Giappone ambientato negli anni Sessanta è guidato da un governo autoritario; ispirato alle proteste e alle manifestazioni avvenute realmente nel paese nipponico in quel periodo, nel mondo mostrato da Oshii la nazione dopo dieci anni dalla sconfitta nella guerra si sta risollevando economicamente. Tuttavia la crescita forzata ha causato masse di disoccupati e vaste aree metropolitane si degradarono divenendo terreno fertile per una violenta criminalità; da essa sorsero gruppi armati antigovernativi. Le forze di polizia locali non furono in grado di contrastarli e non volendo far intervenire le forze di autodifesa, il governo istituì una terza forza armata, la DIME, Divisione di Sicurezza Metropolitana, dotata di autonomia decisionale e armamento pesante. I movimenti antigoverantivi furono banditi, ma dopo violenta repressione, i reduci si riunirono in un movimento chiamato la Setta; gli scontri tra la Setta e il corpo speciale della Dime si fecero sempre più violenti, rendendo le strade della capitale dei veri e propri campi di battaglia, il che fece aumentare le proteste dell’opinione pubblica. Benché avessero lottato a lungo per difendere il paese, i membri del corpo speciale della DIME, conosciuti come Kerberos, stavano per essere messi da parte. Protettori inflessibili e spietati dell’ordine, il cui nome ricorda quello di Cerbero, cane a tre teste della mitologia greca custode severo dell’entrata nell’Ade ma citato anche nella Divina Commedia (il nome però non è l’unico riferimento infernale: le loro maschere dotate di visori hanno una caratteristica colorazione rossa che si rifà agli occhi di brace di Caronte, altra figura presente sia nella mitologia greca sia nella Divina Commedia), i Kerberos non sono disposti a essere messi da parte o a essere sacrificati per giochi di potere. Ed è qui che inizia la storia di Jin Roh – Uomini e lupi.
La polizia è impegnata a contenere una manifestazione della popolazione che presto sfocia in violenza; la Dime, anche lei presente, resta a guardare perché non ha ordine d’intervenire. Membri della Setta s’infiltrano tra i manifestanti, facendo uso di bombe e causando feriti tra la polizia; una ragazzina, assoldata dalla Setta, funge da corriere e ha il compito di consegnare le bombe (non è l’unica: sono tante a venire usate per questo scopo e vengono chiamate Cappuccetti Rossi). Mentre sta seguendo un gruppo della Setta attraverso la rete fognaria per portare a termine la sua missione, viene raggiunta da un gruppo di Kerberos, che era sulle tracce dei rivoltosi; i compagni vengono tutti eliminati e lei è l’unica sopravvissuta. Terrorizzata, scappa ma viene raggiunta da uno dei Kerberos, Kazuki Fuse, che, vedendo che è poco più di una bambina, si blocca, non riuscendo a spararle (i Kerberos hanno l’ordine di eliminare i terroristi, senza eccezioni). La ragazza, presa dal panico, attiva la boma e si fa esplodere. Fuse, grazie all’equipaggiamento corazzato e all’intervento di un compagno, si salva, riportando solo una lieve ferita, ma per questa sua esitazione viene rimandato al centro d’addestramento, dove trova non poche difficoltà ad agire durante le esercitazioni.
Grazie alle dritte di un ex compagno di corso, viene a sapere dove è ubicata la tomba della ragazza e lì incontra la sorella maggiore della vittima, Kei Amemiya, la quale non prova alcun risentimento verso di lui. I due cominciano a parlare e Kei vuole che lui abbia un libro caro alla sorella, la fiaba di Cappuccetto Rosso; iniziano a frequentarsi e Kei gli rivela che in realtà non è la sorella della ragazza uccisa, ma anche lei è un ex corriere della Setta che sta venendo usata dalla Pubblica Sicurezza. Dopo i disordini avvenuti e lo scoppio della bomba, le proteste dell’opinione pubblica sono aumentate al punto che si vuole usare l’esitazione di Fuse per far sparire i Kerberos: le varie forze, escluse quelle dei Kerberos, stanno cercando d’incastrare Fuse con Kei. Il loro piano è di dare una bomba a Kei e farla incontrare in un musero con Fuse così da far sembrare i due in combutta: avendo un membro dei Kerberos coinvolto con la Setta, lo scandalo sarebbe così grande che inevitabilmente il gruppo speciale verrebbe chiuso. Tuttavia, non hanno fatto i conti con Jin Roh, gli uomini lupi, un gruppo del controspionaggio interno ai Kerberos (che i più reputano solo una diceria): informato della trappola, Fuse evita di essere preso e scappa con la ragazza. Però non fugge, nonostante la ragazza lo supplichi di lasciare la città con lei e ricominciare da un’altra parte, dato che ha ancora una cosa da fare. Scesi nelle fognature, sono raggiunti da altri membri dei Kerberos, che portano l’equipaggiamento pesante per Fuse; sono raggiunti anche da coloro che lo volevano incastare, dato che nella borsa della bomba c’era un segnalatore di posizione. Si scopre così che Fuse è un Uomo Lupo, un membro della Jin Roh, che avrà così non solo la possibilità di eliminare i nemici dell’organizzazione, ma potrà anche riscattare la sua esitazione; nessuno rimane in vita, nemmeno l’ex compagno di corso che lo aveva aiutato e faceva parte della cospirazione.
Il complotto è stato sventato e con la ragazza nelle mani della Jin Roh ora le posizioni di potere sono cambiate; tuttavia c’è sempre la possibilità che lei possa essere ripresa. Perché il potere sia sempre nelle mani della Jin Roh, occorre far credere che Kei sia sempre in loro custodia ma non per questo lei deve essere viva: come ultimo segno di essere un Uomo Lupo, Fuse ha l’ordine di uccidere la ragazza. Sebbene straziato da quello che deve fare, mentre Kei recita la parte finale di Cappuccetto Rosso, Fuse le spara; per la ragazza comunque non c’era nessuna possibilità di salvezza: essendo una terrorista, sarebbe stata uccisa comunque (questo è il credo dei Kerberos), anche se non l’avesse fatto Fuse (e probabilmente, se non avesse sparato, lo stesso Fuse sarebbe stato ucciso). Il film si chiude sulle parole dell’istruttore di Fuse che termina il racconto di Cappucceto Rosso col lupo che divora la bambina.
Jin Roh – Uomini e lupi è un film privo di speranza (emblematiche della crudeltà della storia sono le parole dell’istruttore dei Kerberos dette a Kei prima che Fuse entri in azione: “solo nelle favole che raccontano gli uomini i cacciatori uccidono i lupi” e “i membri della Jin Roh sono lupi travestiti da uomini”), dove spesso si fa l’associazione della spietatezza umana a quella del lupo (benché, in realtà, i lupi non sono animali così feroci e spietati, ma sono bestie capaci di gesti affettuosi e premurosi verso i propri simili) e non manca certo la critica dei gruppi che cercano sempre di sopprimire l’individualità perché l’individuo non possa sfuggire al loro controllo (un lupo che va a vivere tra gli uomini e assume le loro sembianze non potrà mai essere uno di loro). Il quadro che fa Oshii non è roseo: la ricostruzione dopo la sconfitta della Seconda Guerra Mondiale (in questo caso dovuto alla Germania nazista) non è andata come si sperava, ha portato un’urbanizzazione violenta e straniante, piena di contestazioni e conflitti, che può essere tenuta sotto controllo solo con la forza. L’influenza tedesca non solo è ben visibile dall’armamento indossato dai Kerberos, ma anche dalla mentalità che si è radicata nel paese. Jin Roh è un’opera ucronica e distopica, che mescola thriller, politica e dramma e che fa un’allegoria della società attraverso la favola di Cappuccetto Rosso dei fratelli Grinn, racconto che è modificato e che è reso più cupo, violento e crudele. In quest’opra di Oshii, l’uomo, la società e le sue strutture non ne escono bene: tutto è pervaso da pessimismo e rassegnazione. Si va avanti perché è inevitabile farlo, ma non si hanno prospettive buone, perché non c’è possibilità di bene, solo cercare di sopravvivere, dove il più forte prevale e non c’è spazio per i sentimenti. Soprattutto c’è un forte senso di solitudine, dove anche se si è nella massa e si cerca di adattarsi a essa, si è sempre soli, incapaci veramente d’integrarsi in una società che è tale solo di nome.
Jin Roh – Uomini e lupi è un’opera complessa, intelligente nella sua crudeltà e spietatezza, che sicuramente merita di essere vista ma per la quale occorre essere preparati, perché colpisce senza esclusioni di colpi e non risparmia nessuno.
By M.T., on Settembre 8th, 2024 Dune di David Lynch l’avevo visto da piccolo e lo ricordavo abbastanza positivamente; certo, c’erano dei momenti di stanca, ma nel complesso il giudizio era buono. Ho voluto rivederlo di recente e tale giudizio non è più buono, non tanto perché ho fatto il confronto con il Dune di Villeneuve (con più di trent’anni di differenza è normale che gli effetti speciali siano migliori), ma perché conosco il romanzo e Lynch si è preso delle licenze che non ho propriamente apprezzato: la prima che mi viene in mente è l’immettere il Modulo Estraniante, l’arma segreta degli Atreides su cui contano per combattere la trappola degli Harkonnen in cui sanno di star per cadere. Non solo tale arma non esiste nel romanzo, ma travisa il motivo per cui il Duca Leto va su Dune: ricercare la forza dei Fremen.
Altra cosa che non ho apprezzato è come sono stati usati personaggi come Duncan (figura molto importante per Paul) che fa una breve apparizione e muore come un qualsiasi altro soldato mentre la sua fine è molto più epica e drammatica (in questo è stato bravo Jason Momoa nel film di Villeneuve); come il dottor Kynes (Max von Sydow, per il poco tempo che appare, è davvero sprecato in questo film), come Chani (altra figura importante per Paul, qui mostrata come semplice ragazza perdutamente innamorata del protagonista) o come Thufir Hawat (figura complessa che Lynch purtroppo usa male e fa uscire malamente di scena).
Rappresentare il romanzo di Herbert non è facile, vista la grandezza e la complessità dell’opera, e bene ha fatto Villeneuve a dividerlo in due parti per cercare di mostrare il più possibile; Lynch in poco più di due ore e quindici minuti cerca di mettere tutto e per farlo deve comprimere, tagliare e inevitabilmente tralasciare qualcosa, su tutto il messaggio ecologista del libro, il mostrare il rapporto tra l’uomo e l’ambiente creatosi tra il pianeta Dune e i Fremen, che Paul col tempo arriva a conoscere. Degli studi e del lavoro del dottor Kynes (cercare di trasformare il pianeta desertico di Dune in un mondo verde) non c’è traccia: tutto si concentra su Paul, alla fine mostrato praticamente come un dio, capace di far piovere su Dune (cosa non vera, perché non sono i suoi poteri a far arrivare la pioggia, ma tutto il lavoro che è stato fatto portando avanti gli studi di Kynes).
Purtroppo, conoscendo la storia, il Dune di Lynch è qualcosa di frettoloso e pure raffazzonato (in una scena finale, prima dello scontro tra Paul e Feyd-Rautha (interpretato da Sting), si vede Chani con due bambini gemelli, i figli che ha avuto con Paul: la cosa è sbagliata perché uno, il bambino che ha avuto con Paul nel romanzo Dune è stato ucciso durante un attacco nemico, e due perché i gemelli (un maschio e una femmina) li avrà in Messia di Dune, morendo subito dopo il parto; forse non è tutta colpa sua, forse sono stati fatti troppi tagli, andando a inficiare la qualità della pellicola, ma il giudizio che viene dato dopo averlo rivisto è negativo, da cui si salvano i vermi delle sabbie di Carlo Rambaldi e la fotografia di Freddie Francis (la rappresentazione degli scudi è meglio però lasciarla perdere).
By M.T., on Settembre 1st, 2024 Cosa dire di Watchmen? Non molto, se non che è una delle migliori graphic novel finora realizzate. Qualcuno asserisce che è un capolavoro, qualcun altro sentendo una simile affermazione storce il naso perché i capolavori sono altri: a ognuno il suo. Per me rimane un’opera molto valida e meritevole d’essere sia letta sia vista; con le dovute piccole differenze, sia il fumetto realizzato da Alan Moore sia la trasposizione cinematografica sono da seguire. E fa sorridere che nonostante il film sia uno dei pochi a mantenere trama e spirito dell’opera originaria, Alan Moore fosse contrario alla sua realizzazione (in realtà, l’autore britannico è contrario a qualsiasi trasposizione cinematografica delle sue opere).
Per questione di tempi (la versione cinematografica dura sulle due ore e quaranta minuti) alcune parti sono state tagliate, ma se si è interessati è possibile vederle nel dvd I racconti del Vascello Nero, che contiene per l’appunto I Racconti del Vascello Nero e Sotto la maschera, l’auotbiagrafia di Hollis Mason, il primo Gufo Notturno; la loro assenza nella pellicola del 2009 di Zack Snyder non pregiudica la comprensione della storia, ma la loro visione permette di approfondire e comprendenre maggiormente il mondo di Watchmen; se l’autobiografia di Mason permette di saperne di più su come sono nati i Watchmen e capire come si è arrivati al punto in cui la storia viene narrata, per I Racconti del Vascello Nero le cose si fanno un po’ più sottili: esso è un metafumetto, ovvero un fumetto dentro al fumetto, e viene letto da un ragazzo presso un’edicola. Si tratta di una storia di pirati che narra la discesa verso la pazzia di un uomo, unico sopravvissuto di una nave, che cerca di tornare a casa per avvisare i concittadini dell’arrivo della nave pirata Vascello Nero. Se a qualcuno la narrazione di tale storia può essere avulsa da quella di Watchmen, beh, le cose non stanno proprio così: I racconti del Vascello Nero presenta forti analogie con uno dei membri del gruppo dei Watchmen e aiuta a comprendere meglio la sua psiche e diventa metafora del cammino che ha deciso d’intraprendere. Non rivelerò chi è il personaggio in questione per non dire troppo, ma posso affermare che ben si associa con l’oscurità del metafumetto.
C’è anche un’altra differenza tra fumetto e film: l’evento che porta alla conclusione della storia. O meglio, ciò che causa la catastrofe che farà riunire i Watchmen rimasti, l’evento che il Comico aveva scoperto e per il quale aveva pianto, venendo poi ucciso a causa di tale scoperta perché non rivelasse ogni cosa.
Oltre a essere una storia interessante, che fa riflettere sul fine che giustifica i mezzi e su come gli eventi e l’ambiente possono condizionare e cambiare le persone, il punto forte di Watchmen sono i personaggi, la loro complessità, la loro profondità. Watchmen non è la solita storia di supereroi, anzi, a pensarci bene di supereroi (ovvero individui con superpoteri) c’è solo il Dottor Manatthan,che praticamente può fare di tutto (solo che questo suo smisurato potere lo fa allontanare sempre più dall’umanità, sia sua, sia come appartenenza alla specie): i restanti membri del gruppo sono persone normali, dei vigilantes che a un certo punto hanno preso a combattere il crimine e si sono uniti in un gruppo, il tutto con l’approvazione del governo, almeno fino a quando non è stato deciso di mettere a riposo i Watchmen (uno, Rorschach, continua a fare il vigilantes e per questo viene ricercato dalla polizia; il Cominco e il Dottor Manhattan diventano agenti governativi).
La bellezza di Watchmen è il calare questi supereroi in un contesto reale, mostrando le loro debolezze (l’ultimo Gufo Notturno), i loro lati oscuri (il Comico), i loro tormenti (Rorschach); queste persone non sono diventate eroi per un bene superiore, per la giustizia, ma ognuno ha le sue ragioni: per il Comico è avere un modo per usare la violenza (spesso viene accusato di essere un fascista), per Rorschach è combattere il crimine senza compromessi (soprattutto dopo che una bambina è stata rapita e massacrata, data in pasto a dei cani furiosi), per la seconda Spettro di Seta è seguire le orme della madre (uno dei dialoghi più belli lo si ha quando scopre chi è il proprio padre), per Ozymandias quelle di Alessandro Magno.
Ma non ci si ferma a questo: l’opera è piena di simbolismi. Riferimenti agli orologi, al nodo gordiano, agli egizi, al famoso smiley tanto caro al Comico, all’ombra della minaccia nucleare (presente nel mondo fin da quando si è pensato di usare l’energia atomica a scopi bellici).
In Watchmen praticamente funziona tutto: incipit, sviluppo, finale. Un finale lasciato in un qualche modo aperto, a suo modo amaro ma anche bellissimo. Non per niente Watchmen ha cambiato, assieme Il ritorno del Cavaliere Oscuro di Frank Miller, il modo d’intendere e di fare il fumetto supereroistico; pertanto, merita di essere tra le migliori opere (non solo fumettistiche) mai realizzate.
By M.T., on Agosto 25th, 2024 Come Il Cavaliere della Rosa Nera, anche I Draghi del Sole Morente di Margaret Weis e Tracy Hickman l’avevo acquistato all’uscita (parliamo di più di venti anni fa, era il 2001), subito seguito da I Draghi della Stella Perduta, dato che facevano parte della trilogia di Dragonlance La Guerra delle Anime; dopo poco più di cento pagine però l’avevo abbandonato (motivo per cui non acquistai il terzo volume, recuperato qualche anno dopo in una bancarella dell’usato per un paio di euro), perché la storia non mi prendeva (questo probabilmente perché dopo aver letto abbastanza di quel mondo stavo ricercando altro dalle letture e in quel periodo, e per diversi anni successivi, più che leggere narrativa andavo su altri generi come a esempio la saggistica). Vuoi perché mi sono ritrovato in mano i libri sistemando scaffali e scatoloni, vuoi perché è un periodo in cui ho deciso di portare a compimento cose che non ho concluso, ho deciso di riprendere in mano I Draghi del Sole Morente e finirlo (in verità l’ho ricominciato, perché della storia ricordavo davvero poco).
Ma prima di addentrarsi nella trama del romanzo, occorre un breve riassunto di come stanno le cose su Krinn. In Le Cronache di Dragonlance, i draghi erano ritornati, così come i veri dei; la malvagia Regina delle Tenebre Takhisis, la dea che stava dietro tutte le vicende, viene sconfitta. La trilogia si conclude con l’ascesa di Raistlin a mago più potente su Krinn, dando poi il via a un’altra trilogia, Le Leggende di Dragonlance, che vede il suo gemello Caramon contrapporsi al suo piano di prendere il prendere il posto nel pantheon degli dei della Regina delle Tenebre; in questa storia avrà un ruolo importante un artefatto magico, il congegno di viaggiare nel tempo. Alla fine, Raistlin rinuncerà al suo obiettivo, rimanendo nell’Abisso per fermare Takhisis.
Si arriva così alla Guerra del Caos, in special modo a I Draghi dell’Estate di Fuoco, che vede i figli degli Eroi delle Lance e gli Eroi rimasti combattere contro un nemico comune, Caos; la vittoria arriderà a loro, ma non senza sacrifici: Tasslehoff muore nello scontro finale contro il gigantesco nemico (Tanis è morto poco prima) e Raistlin lascia Krinn assieme agli dei, che abbandonano il mondo per permettere ai propri figli di continuare a vivere, anche se non avranno più la magia.
Inizia così la Quinta Era, che vede l’ascesa dei Dragoni e la riscoperta della magia; questa serie non è scritta dal duo Weis/Hickman, ma da Jean Rabe ed è la peggiore serie realizzata su Dragonlance: da evitare. Tuttavia, parlare di essa serve per arrivare al punto in cui inizia I Draghi del Sole Morente: tutto inizia quando un gruppo di Cavalieri di Neraka (un tempo Cavalieri di Takhisis) incontrano una giovane donna di nome Mina (di cui un tempo si è presa cura Golmoon) che predica l’Unico Dio. Dopo aver ridato il braccio mancante a Galdar, un minotaro, Mina conduce i cavalieri alla volta di Sanction, dove stanno tenendo un assedio contro i Cavalieri di Solamnia.
Nel frattempo, Alhana Starbreeze sta cercando di rientrare nel regno di Silvanesti dopo che si è isolato sotto uno scudo magico e suo figlio Silvan vuole avere la possibilità di dar prova di sé; possibilità che avrà quando dovrà andare a chiedere aiuto per un attacco di orchi. La sua missione fallirà perché cadendo e perdendo i sensi si ritroverà all’interno dello scudo, dove verrà riconosciuto come re degli elfi, essendo lui nipote ed erede di Lorac, colui che fece cadere Silvanesti in un incubo quando il regno cadde sotto le grinfie del drago Cyan Bloobane dopo aver tentato di usare un Globo dei Draghi.
A Qualinesti, il figlio di Laurana e di Tanis, il Presidente dei Soli Gilthas, recita la parte del re malaticcio e malinconico, perso dietro rime e poesie, ma in realtà collabora con i ribelli per opporsi ai Cavalieri di Neraka e alla dragonessa Beryl.
A Solace, il Cavaliere di Solamnia Gerard mentre è di guardia alla Tomba degli Ultimi Eroi ha una sorpresa inaspettata: la tomba si apre e da essa ne esce un kender che si fa chiamare Tasslehoff Burrfoot, giunto per partecipare al funerale di Caramon Majere. Naturalmente Gerard non crede alle sue parole, dato che già altri trentasette kender si fanno chiamare così, ma Tas riesce a sfuggire alla sua custodia e a raggiungere il vecchio amico (ancora vivo), che lo riconosce. Tas gli racconta che è arrivato lì con il congegno per viaggiare del tempo, datogli da Fizban perché potesse essere al suo funerale. Questa è la terza volta che viaggia nel tempo, dato che per un motivo o per l’altro è arrivato tardi alla cerimonia le altre due volte; la storia che Tas gli racconta è diversa dalla realtà in cui è giunto e proprio mentre finisce il racconto, Caramon ha un attacco di cuore e muore, ma non prima di aver detto che c’è qualcosa che non va perché suo fratello Raistlin non c’era al momento della sua dipartita e affida una missione a Gerard, venuto a riprendere il kender: portare Tas e il congegno magico da Dalamar, il mago elfo un tempo allievo di Raistlin.
Nella Cittadella della Luce, l’ormai anziana Goldmoon si ritrova improvvisamente ringiovanita dopo la spaventosa tempesta che si è scatenata sul mondo e che ha visto fare la strepitosa comparsa di Mina.
Questi sono i punti di partenza della trilogia La Guerra delle Anime. Dopo le prime pagine, Alhana finisce dietro le quinte per lasciare posto al figlio Silvan, con cui è difficile provare simaptia ed empatia, dato che fa i capricci come un bambino e ha l’intelligenza e il carisma di un troll: sicuramente uno dei personaggi peggio riusciti della serie, e non è che gli altri brillino poi tanto.
Il problema di questa serie sono proprio i personaggi, che non si avvicinano minimamente al livello dei protagonisti di Le Cronache di Dragonlance: Gerard non è Sturm, Palin non ho lo spessore di Raistlin, Tas privato di Flint fa fatica a ingranare, Laurana è l’ombra di quella che era un tempo. Un po’ meglio va col maresciallo dei Cavaliere di Neraka Medan e con Gilthas, che hanno po’ più di carattere e spessore dei precedenti persoanggi.
Per quanto riguarda la storia, interessante come la storia sia stata modificata col viaggiare nel tempo di Tas, anche se non ci si spiega come le vicende siano cambiate solo col terzo viaggio e non con anche gli altri due. Valida anche l’idea di come la magia sta lentamente svanendo (sono gli spiriti dei morti che si stanno nutrendo di essa). Per quanto riguarda l’Unico Dio, ancora non si sa nulla, ma già dei sospetti si hanno, dato che o c’è cieca obbedienza in chi ha ricevuto guarigioni verso questa divinità, oppure ci saranno ritorsioni (e questo non può venire certo da un’entità superiore benevola); il sospetto è che si sia dinanzi a un ripetersi di quanto già visto in Le Cronache di Dragonlance e se così fosse, non sarebbe un gran tocco d’originalità.
In definitiva, I Draghi del Sole Morente non è da buttare, ma è ben lontano dalle opere meglio riuscite di Weis e Hickman; se non è piaciuta la prima trilogia (Le Cronache), allora è meglio lasciarlo perdere.
By M.T., on Agosto 18th, 2024 Con la pandemia (ma non è stato il solo gioco da tavolo riscoperto) e l’uscita del film Dungeons & Dragons – L’onore dei draghi, Dungeons & Dragons ha avuto una maggiore notorietà (va ricordato che videogiochi come la serie di Baldur’s Gate fine anni Novanta e primi anni Duemila e soprattutto il più recente Baldur’s Gate 3 hanno contribuito parecchio a fargli pubblicità). Qualcuno potrà ricordarsi dell’uscita di altre tre pellicole uscite dal 2000 in poi (Dungeons & Dragons – Che il gioco abbia inizio, Dungeons & Dragons: Wrath of the Dragon God e Dungeons & Dragons 3: The Book of Vile Darkness: i primi due sono dimenticare, anzi sarebbe meglio evitare di vederli e magari sarebbe stato meglio anche non farli; il terzo non l’ho visto quindi non posso dire nulla) e magari pure del film d’animazione Dragonlance – Dragons of Autumn Twilight, adattamento dell’omonimo romanzo di Margaret Weis e Tracy Hickman molto legato al mondo di D & D (anche questo evitabile da vedere e da realizzare), ma non molti si ricorderanno che tra il 1983 e il 1985 era uscita anche una serie di cartoni animati dedicata a questo gioco di ruolo che portava (guarda un po’) il titolo di Dungeons & Dragons.
L’antefatto veniva spiegato a ogni puntata nella sigla iniziale: un gruppo di adolescenti va in un parco divertimenti ed entra in un’attrazione ispirata al gioco Dungeons & Dragons, ritovandosi catapultato in un altro mondo, impregnato di magia e popolato da creature mai viste. Verranno subito attaccati da un drago a cinque teste (Tiamat) e da una figura demoniaca (Venger); in loro aiuto accorrerà un piccolo ometto pelato (Dungeon Master), che li doterà di oggetti magici, ognuno caratteristico di una determinata classe. Avremo così il ranger, il cavaliere, il barbaro, il mago, la ladra, l’acrobata (va fatto notare che nel doppiaggio italiano il ranger è chiamato arciere e la ladra donna invisibile) e avranno come mascotte un piccolo unicorno.
Ogni puntata è una storia a sé, non c’è una trama principale; l’unico filo conduttore della serie è l’obiettivo dei ragazzi di trovare un modo per tornare a casa. Essendo dedicato a un pubblico di bambini (se si pensa a programmi usciti in seguito dedicati ai più piccoli quali Peppa Pig e Teletubbies, si può ritenere la generazione cresciuta in quel periodo abbastanza fortunata), il cartone non era niente di complesso, ma proponeva tematiche anche costruttive come il vincere la paura, non soffermarsi sulle apparenze, accettare il diverso, la lotta tra bene e male. Il canovaccio era più o meno lo stesso: Dungeon Master appariva all’improvviso (e così spariva) dando una missione da compiere con degli indizi sotto forma d’indovinello; al gruppo di ragazzi non restava altro da fare che portarla a compimento.
Vista con gli occhi di un bambino, la serie animata era carina e aveva un suo fascino (crescendo un poco si vedevano i limiti di trama e caratterizzazione dei personaggi), presentando una carrellata delle figure che componevano il bestiario del mondo di D&D. In Italia, se non mi sbaglio, è stata trasmessa solo negli anni Ottanta, ma non ebbe grande successo, visto che non fu riproposta come altre serie (Capitant Tsubasa, Dragonball) e non perché era brutto: senza essere eccezionale, aveva un suo perché. Il problema fu la campagna che venne fatta da associazioni di genitori (un po’ in tutto il mondo, ma soprattutto in America) che lo vedevano come una minaccia ai propri figli: la presenza di demoni e l’uso di magia era temuta come un legame al satanismo, al spingere verso la violenza, l’omicidio e al suicidio.
Dinanzi a tale clima, sorto prima dell’uscita del cartone animato ma protrattosi anche dopo, la TSR, la casa creatrice del gioco, cercò di “ripulire” l’immagine di D&D con questo prodotto, ma la cosa non ebbe l’effetto sperato, dato che si continuò con crociate contro di esso: dopo tre stagioni (per un totale di ventisette episodi) Dungeons & Dragons venne chiuso, senza dare una conclusione alla storia (molti anni dopo venne realizzata una puntata che dava un finale, ma non fu doppiata in italiano).
Tuttavia, forse per l’effetto nostalgia, la serie animata ha avuto una sua rivalsa, non essendo mai stata dimenticata da una generazione di bambini che si è affezionata a essa e ha fantasticato con le sue avventure, divenendo un piccolo cult come altre storie e prodotti degli anni Ottanta; non un capolavoro, sia chiaro, ma nemmeno un prodotto da bistrattare com’è stato fatto.
By M.T., on Agosto 11th, 2024 Sinceramente, Il ragazzo e l’airone non mi ha lasciato molto. Visivamente non c’è nulla da dire: tutto molto bello. Ma a livello di storia e personaggi ho preferito altri film di Miyazakhi, molto più riusciti e di maggior impatto (Nausicaa della Valle del Vento, Il castello errante di Howl e Principessa Mononoke); a mio avviso, proprio i personaggi sono il punto debole della storia. Il protagonista Mahito ha un’espressività molto bassa, non fa trapelare quasi mai i sentimenti nonostante il dolore della perdita della madre l’abbia segnato profondamente; dopo il tragico evento si può capire che si sia chiuso in se stesso, ma col suo modo di fare è difficile empatizzare con lui (incomprensibile il fatto che si ferisca la testa da solo con una pietra, anche se l’ha fatto pera tirare l’attenzione del padre). Le vecchiette, che servono nella casa della madre e della zia, non servono a nulla se non da parte comica (ma non fanno ridere; forse servono per ricordare personaggi più riusciti di altri film, come a esempio la strega di La Città Incantata). Il padre di Mahito, dopo la morte della moglie si risposa con la sorella minore di lei, felice e contento come se niente fosse successo; e se si vuole essere sinceri, all’interno della storia è totalmente inutile. Natzuko, sorella minore della madre di Mahito, prima è gentile e premurosa col ragazzo, poi sparisce all’improvviso, e quando il ragazzo la va a cercare per riportarla indietro, gli urla contro dicendogli che lo odia: un comportamento di difficile comprensione. La creatura airone è simpatica come uno spino in un occhio e si fa fatica a capire il suo ruolo: un po’ misterioso, un po’ subdolo, prima nemico poi alleato di Mahito quando si avventura nel mondo della torre, non si capisce chi è o cosa fa. Infine c’è il prozio di Mahito, sparito da decenni e che compare come signore della torre, ritiratosi al suo interno perché schifato della Terra e degli uomini: vuole fare del pronipote il suo erede, senza dargli una spiegazione. Gli unici che si salvano sono i pellicani, che riescono a far provare qualcosa allo spettatore con le loro vicende.
Con personaggi del genere, l’unica possibilità per risollevare il giudizio del film è avere o un mondo particolare e dettagliato o una grande storia: nessuna delle due cose si verifica. A parte la torre, che funge da collegamento tra vari mondi, il resto è qualcosa che si mescola con l’onirico, rendendo il tutto di non facile comprensione.
La storia poi non è nulla di particolare. Il giovane Mahito perde la madre (muore nell’incendio dell’ospedale dove lavorava) durante la Guerra del Pacifico (1944); il padre di risposa praticamente subito con la sorella minore della moglie, aspettando da lei un bambino. Si trasferiscono in campagna dove lei vive, lontano dai bombardamenti, con il padre che può seguire l’attività della sua ditta con più tranquillità.
Mahito, inseguendo un airone cinerino (che si scoprirà saper parlare e trasformarsi), troverà nella tenuta una vecchia e misteriosa torre, costruita dal suo prozio, i cui ingressi sono stati bloccati con della terra perché nessuno possa entrarci. Ma Mahito ci entrerà, assieme a una delle serve vecchiette, inseguendo la zia che misteriosamente scompare; dopo una lotta con la creatura airone (che diverrà così la sua guida), s’addentrerà nel mondo della torre, alla ricerca della zia ma anche della madre, che in un qualche modo vuole salvare.
Nel nuovo mondo la incontra, ma è una versione più giovane e ha dei ptoeri magici legati al fuoco. Dopo diverse vicissitudini e aver rifiutato l’offerta del prozio, Mahito e la zia (recatasi in quel mondo per partorire il bambino) ritornano al proprio tempo, mentre la madre ritorna nel suo, perché altrimenti non potrà dare alla luce Mahito. Il ragazzo acetta la scelta, venendo riabbracciato dal padre (che poco lo considerava) e dalle vecchiette. Il finale è qualcosa di sbigativo e raffazzonato, con Mahito che racconta che due anni dopo la fine della guerra sono tornati a Tokyo. Punto e basta.
Il ragazzo e l’airone non convince, non sorprende, non emoziona salvo rari casi; il film era anche partito bene, aveva delle premesse interessanti, ma poi non sono state mantenute. Va bene il percorso di crescita del ragazzo che deve accettare gli eventi della vita e andare avanti, ma il tutto risulta freddo e distaccato. Personalmente, non condivido l’esaltazione fatta di questa pellicola: ci sono film di Miyazaki molto migliori di Il ragazzo e l’airone.
By M.T., on Agosto 4th, 2024 Che cosa dire di Dune di Denis Villeneuve?
Per chi non conosce il romanzo di Robert Herbert, occorre fare subito una premessa: il film del 2021 racconta la prima metà del libro. Quindi, una volta conclusa la visione della pellicola, non si pensi di avere un film tronco o un finale aperto; un simile giudizio appare un po’ difficile da dare oggi con tutti i mezzi d’infromazione che si hanno (quindi si saprà che è uscito Dune – Parte due che narra il proseguio delle vicende di Paul Atreides), ma precisare non fa mai male.
Altra piccola premessa: ci sono diverse scene in cui Paul vede un piccolo topo canguro, uno degli animali del pianeta Arrakis (conosciuto anche come Dune), che i Fremen chiamano usul; il nome dell’animale diverrà poi il nome segreto di Paul Atreides. Per chi non conosce il libro, queste scene possono sembrare inutili o prive di senso, ma in realtà hanno un significato importante nella storia (non so se in Dune – Parte due tutto ciò verrà spiegato perché non l’ho ancora visto, ma mi sembrava importante farlo notare).
Detto ciò, c’è da costatare che Villeneuve ha fatto un buon lavoro, mantenendosi molto vicino a quanto scritto da Herbert. Come già si capisce dal titolo, tutto ruota attorno Dune, l’unico pianeta che possiede la spezia, una sostanza capace di potenziare le capacità mentali e di premonizione, ma sopruttatto capace di permettere i viaggi interstellari, senza la quale sarebbe impossibile effettuarli.
L’Imperatore Shaddam Corrino IV, temendo la crescita del potere e della fama degli Atreides tra le Grandi Casate, decide di togliere il controllo di Dune alla casata Harkonnen e di darlo agli Atreides: tutto questo fa parte di una congiura per eliminare la scomoda casata e il duca Leto Atreides lo sa, ma confida di trovare nel potere del deserto (i Fremen) la forza per ribaltare la situazione.
Le sue aspettative non vengono rispettate e, tradito da una persona di cui si fidava (il dottor Yueh, ricattato dal barone Vladimir Harkonnen), muore tra le mani del feroce nemico. Tuttavia, la sua concubina Jessica (una Bene Gesserit) e suo figlio Paul sopravvivono all’attacco, così come il maestro di spada Duncan Idaho, che li guida dai Fremen, dove vengono accolti dall’arbitro ed ecologo del pianeta Liet-Kynes (nel libro si tratta di un uomo, nel film è una donna).
Gli Harkonnen li trovano e mandano i feroci Sardaukar (le truppe più feroci e forti dell’Impero) a eliminarli; Duncan muore per proteggere Jessica e Paul (che così riescono a fuggire), e stessa fine fa Liet-Kynes.
Paul, intanto, dopo aver inalato la spezia, comincia ad avere delle visioni di lui che guida i Fremen in una guerra santa alla conquista dell’universo, idolatrato come il messia, l’eletto tanto aspettato e per cui per secoli le Bene Gesserit hanno lavorato perché nascesse. Sfuggito assieme alla madre (che è incinta) a un verme delle sabbie, viene trovato da un gruppo di Fremen guidato da Stilgar, che già aveva incontrato assieme al padre quando erano arrivati sul pianeta. I Fremen riconoscono Jessica come Bene Jesserit e la accettano, ma la stessa cosa non accade per Paul, che deve affrontare un duello per poter sopravvivere. Sconfitto e ucciso il suo avversario, il giovane Atreides entra nel gruppo e assieme alla madre e a Chali (una Fremen che ha sognato spesso fin da quando viveva su Caladan, il suo pianeta d’origine), si dirigono verso un rifugio, con le visioni avute che cominciano a prendere forma, dando così inizio al cammino dello Kwisatz Haderach, l’eletto capace di cambiare le sorti dell’universo.
Denis Villeneuve ha saputo creare un buon intreccio con Dune, con il giusto ritmo, rispettoso di quanto fatto da Herbert. Bella la fotografia, buona la resa degli attori: si può dire che nel film funziona tutto. Per qualcuno il film può essere un poco lungo, ma era necessario che così fosse per tutto il materiale a disposizione; magari si poteva dare più spazio agli Harkonnen, ma il poco tempo datogli è sufficiente per inquadrarli. Certo il barone di Villeneuve non è ciarliero come quello di David Lynch, è più cupo, ma non per questo meno efficace e convincente.
Nonostante i dubbi iniziali per tale uscita (bisogna ammettere che lo è quasi per tutto ciò che esce di recente), ho apprezzato questo Dune.
By M.T., on Luglio 28th, 2024 Di La storia fantastica (film del 1987) avevo parlato nella recensione del romanzo di Sanderson Tress del Mare Smeraldo e si può tranquillamente dire che col tempo è diventato per gli appassionati del genere un piccolo cult. Qualcuno, abituato a narrazioni fantastiche più cupe e crude quali sono Il trono di spade o House of the Dragon potrà storcere il naso dinanzi a una storia che ritiene troppo semplice, ma La storia fantastica (non bisogna dimenticare il suo stampo favolistico) è qualcosa che si fa ricordare, che fa sorridere ma ha anche un respiro epico.
La storia inizia con il piccolo Jimmy costretto a letto dall’influenza, poco entusiasta della visita del nonno, venuto a fargli compagnia e a portargli un regalo. Il bambino non è per niente soddisfatto quando scopre che si tratta di un libro, La storia fantastica di S. Morgenstern, ma acconsente ad ascoltare il nonno che gliela legge.
La giovane Bottondoro vive in una fattoria e dà il tormento al garzone Wesley, impartendogli sempre ordini cui lui risponde costantemente “Ai tuoi ordini”. Col tempo i due s’innamorano, ma non avendo soldi, Wesley decide di cercare fortuna oltremare; sfortunatamente, il ragazzo viene trucidato dal pirata Roberts. Cinque anni dopo la sua scomparsa, il principe Humperdinck, per commemorare il cinquecentesimo anniversario del paese, annuncia le sue nozze e la sposa è Bottondoro (avendo lui diritto di scegliere chi prendere in moglie).
Mentre un giorno è a cavallo, la giovane incontra un gruppo di tre persone che si spacciano per artisti di strada, le cui intenzioni però sono altre: Bottondoro viene catturata e viene fatto credere che il rapimento sia stato perpretrato dalla nazione confinante. La mente del gruppo, Vizzini, è al soldo del principe Humperdick, che vuole utilizzare la sua morte per scatenare una guerra; il gigante Fezzik e lo spadaccino Inigo Montoya non sono d’accordo, ma il piano va avanti come da copione. Sennonché la loro nave viene inseguita da un’altra, che presto li raggiunge: si tratta del pirata Roberts. Inigo Montoya perde il duello di spada con l’inseguitore, Fezzik viene sconfitto in uno scontro fisico e Vizzini viene superato in astuzia, perdendo la vita.
Bottondoro è libera, ma non è riconoscente al suo salvatore, dato che è colui che ha ucciso il suo amore; con sua grande sorpresa scopre però che il pirata Roberts altri non è che Wesley, risparmiato dal pirata Roberts precedente che poi l’ha fatto divenire suo successore.
I due innamorati stanno pensando di fuggire insieme, ma vengono raggiunti dal principe, che riprende con sé la principessa e imprigiona Wesley, facendolo torturare fin quasi ucciderlo. Montoya e Fezzik però, dopo essere stati risparmiati da lui, decidono di salvarlo chiedendo aiuto a “Max dei miracoli”, che con una pillola speciale gli fa riacquistare la vita. Insieme, riescono a salvare la principessa dal castello e Wesley, grazia all’astuzia, riesce ad avere la meglio sul principe, che si rivela essere in realtà un gran codardo.
Il gruppo si allontana dal castello e Bottondoro e Wesley si danno il bacio più memorabile della storia. Il film si conclude con il nonno che saluta il nipotino una volta finito di leggere il libro, rispondendogli “Ai tuoi ordini” quando il bambino gli chiede di tornarlo a trovare e leggergli un’altra storia.
La storia fantastica è una storia lineare, ma funziona, soprattutto grazie ai suoi personaggi e a chi li ha interpretati: il mafioso siciliano Vizzini che non fa che ripetere “inconcepibile”, il gigante buono Fezzik interpretato dall’indimenticabile wrestler André the Giant e Inigo Montoya, forse il personaggio più memorabile con la sua storia di vendetta, alla ricerca per vent’anni dell’uomo con la mano dalle sei dita che quando era piccolo ha ucciso suo padre, al quale, prima di sfidarlo a duello dirà quella che è divenuta una frase iconica nel mondo del cinema: “Hola. Mi nombre es Iñigo Montoya, tu hai ucciso mi padre… preparate a morir!”. Come iconico è lo scontro finale tra i due (l’assassino del padre è un uomo al servizio del principe) dove Montoya, ferito a morte, si rialza e ritorna a combattere, sconfiggendo con facilità il nemico.
Forse La storia fantastica è un racconto di altri tempi, ma è uno di quei racconti di cui ogni tanto, almeno una volta nella vita, si ha bisogno.
By M.T., on Luglio 21st, 2024 Acquistai Il Cavaliere della Rosa Nera di James Lowder appena uscì, nei primi anni del Duemila, quando c’era la vecchia Armenia (guardando all’interno del libro non c’è il periodo di pubblicazione, come succede nella maggior parte dei casi, ma facendo una ricerca in rete si scopre che era il 2003), perché l’ambientazione di Ravenloft mi aveva sempre affascinato e Lord Soth era una figura oscura ma allo stesso tempo affascinante; c’erano tutti i requisiti per una buona lettura. Invece, dopo poche pagine, deluso dalla scrittura dell’autore, mollai il libro, ritenendo che una simile figura come quella del Cavaliere della Morte meritasse di più.
Sono passati più di vent’anni da allora e complice un video visto su youtube che parlava di Strahd von Zaravich ho deciso di riprendere in mano il volume: l’impressione sulle prime pagine lette non è cambiato, il livello di scrittura è basso (anche se ho letto di peggio) e le vicende di Lord Soth non mi hanno entusiasmato, perché raccontate in un modo quasi stereotipato (il cattivo che fa cose cattive e dice cose cattive, che sono quasi scontate). Questo almeno finché Lord Soth rimane su Krynn: nel momento in cui le nebbie lo carpiscono e lo portano su Ravenloft le cose (fortunatamente) migliorano.
Ma andiamo con ordine. Lord Soth fa la sua prima apparizione nella saga Dragonlance nel romanzo I draghi dell’alba di primavera (terzo volume di Le Cronache di Dragonlance), alleato della Signora dei Draghi Kitiara; Soth è un Cavaliere della Morte, maledetto per le sue scelte e per aver buttato via la sua ultima possibilità di redenzione. Un tempo Cavaliere della Rosa di Solamnia, perse la sua virtù quando s’invaghì di una giovane sacerdotesssa elfica cui salvò la vita; fatta sparire la moglie grazie a Caradoc, suo fidato sottoposto, Soth potè giacere con lei e sposarla. Ma le sue azioni furono scoperte, venendo condannato per il gesto, spogliato del suo rango e cacciato dall’ordine dei Cavalieri di Solamnia. Capendo quanto era caduto in basso, assieme alla nuova moglie, pregò gli dei in cerca di redenzione: Paladine gli rivelò che l’unico modo era fermare il Grande Sacerdote prima che su Krynn si scatenasse la punizione divina e che nel tentativo avrebbe perso la vita. Per ritrovare il suo onore, Soth accettò, ma mentre andava a fermare il Grande Sacerdote, le altre sacerdotesse elfe cui aveva salvato la vita, non perdonandogli quanto fatto alla compagna, gli avvelenarono l’animo con la gelosia, facendogli credere che la moglie lo tradisse. Soth tornò al suo castello, proprio mentre il Cataclisma si abbatteva su Krynn; mentre la moglie e il bimbo neonato morivano tra le fiamme, l’elfa lo maledisse: Soth non morì, condannato a una non vita dove non c’era pace, dove gli restava solo l’armatura bruciata (l’armatura con il simbolo dell’Ordine della Rosa cui apparteneva divenne nera, facendolo così conoscere come il Cavaliere della Rosa nera), un castello maledetto abitato da servitori non morti e spiriti che lo perseguitano per le sue scelte scellerate.
Passati più di trecento anni da quel nefasto evento, Lord Soth ritrova interesse per la vita e per una donna con Kitiara, Signora dei draghi e servitrice della dea malvagia Takhisis, volendola fare diventare sua compagna immortale una volta morta. La possibilità si presenta quando la donna muore durante il tentativo di conquista della città di Palanthas; mentre Soth porta il corpo di Kitiara nel suo castello, Caradoc, che ora è un fantasma, si reca nell’Abisso per recuperare la sua anima, così che Soth possa farla tornare come non morta. Se non fosse che Caradoc tradisce Soth e questo porta a uno scontro tra i due; le nebbie giungono e portano i due lontano da Krynn, facendoli giungere a Ravenloft.
Queste sono le prime cinquanta pagine di Il Cavaliere della Rosa Nera (il prologo riassume le sue vicende mortali in pochi fogli, mentre le pagine successive raccontano le vicende tra l’assalto a Palanthas e l’arrivo a Ravenloft): il modo in cui sono scritte fa un poco alzare le sopracciglia e le vicende non colpiscono più di tanto (forse perché le si era già lette in altre parti, il già menzionato I cavalieri dell’alba di primavera e il manuale di Ravenloft), ma fortunatamente, da questo punto in avanti, le cose migliorano, sia a livello di scrittura, sia a livello di eventi. Sia chiaro: non si è davanti nulla di trascendentale. Tuttavia, la lettura diventa più godibile e si è spinti ad andare avanti (e non come prima a mettere da parte il libro).
Giunto a Ravenloft, Soth pensa di essere finito nel regno dell’alleato tanar’ri di Caradoc (il siniscalco gli aveva fatto credere che l’amuleto contenente lo spirito di Kitiara fosse in in mano di quella creatura), ma presto si ritrova a costatare che così non é; viene attaccato da un gruppo di zombie, ma poi l’attacco cessa e le creature gli fanno capire che devono seguirlo, pronunciado una sola parola: Strahd.
Soth apprende di più su questo misterioso personaggio grazie all’incontro con un gruppo di Vistani (zingari che vivono a Ravenloft); tuttavia, preso da uno dei suoi frequenti attacchi d’ira, praticamente uccide tutto il gruppo, tranne la giovane Magda, che usa da guida per raggiungere il castello di Strahd, signore di quelle terre. Come scoprirà, Strahd è un non morto come lui, solo che è un vampiro, dotato oltretutto di poteri magici pari se non superiori a quelli di Soth. Seppure ci sia tensione tra i due, e lo scontro sia sempre sul punto di scoppiare, Strahd decide di non farselo nemico, ma di usarlo come pedina per i suoi piani, rivolgendolo contro uno dei suoi nemici, Gundar, anch’egli un vampiro.
Soth, Magda, cui si unisce anche Azrael, un nano con la capacità di mutarsi in un licantropo dalle sembianze di tasso, decide di assecondare Strahd purché questo gli permetta di raggiungere il portale per lasciare quelle terre maledette e ritornare su Krinn, dove continuare la ricerca dell’anima di Kitiara che gli permetta di riportarla come non amorta e averla come sua compagna.
Non ci si sta a dilungare su tutte le vicende cui il Cavaliere della Morte andrà incontro (si può però intuire che saranno vicende violente e sanguinarie), ma esse mostreranno come Soth diventerà uno dei signori di Ravenloft; il che non sorprende, dato che si sta parlando dei Domini del Terrore, terre dove le maledizioni la fanno da padrone.
Sinceramente, visto come era iniziato, pensavo peggio di Il Cavaliere della Rosa Nera e devo dire che mi sono dovuto in parte ricredermi, non abbastanza però da cercare di recuperare i seguiti di questa serie di libri dedicati al mondo di Ravenloft.
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