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Figli di terra e cielo

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Figli di terra e cieloDevo essere sincero: Figli di terra e cielo è il libro che meno mi ha preso di Guy Gavriel Kay. Scritto bene, personaggi caratterizzati, ambientazione interessante (con Saressa che ricorda molto con la sua laguna, i suoi canali e il suo potere la Repubblica di Venezia), trama ricca ma non è riuscito a coinvolgermi. Era già successo con Tigana (da noi pubblicato tanti anni fa col titolo Il paese delle due lune e che ora dovrebbe tornare nelle librerie con un nuovo editore) che Kay s’ispirasse all’Italia, ma non è solo a questo cui l’autore canadese si è ispirato: Kay ha attinto molto dalla storia elaborandola per creare un suo mondo con le sue vicende.
Tutto questo dovrebbe aiutare a dare un giudizio positivo e non si può negare il gran lavoro che ha fatto Kay e che riconosco; ciò purtroppo però non toglie il fatto che Figli di cielo e terra mi ha lasciato freddino nei confronti del romanzo. Non sono riuscito a provare molta simpatia ed empatia per i personaggi, cosa che invece non era successo negli altri romanzi che ho letto di Kay, soprattutto L’Arazzo di Fionavar. Sarà perché molta della storia è incentrata su intrighi, sarà perché l’elemento fantastico è davvero scarso, ma il libro di Kay non mi ha scosso, anzi in un paio di punti l’evolversi della situazione descritta mi ha lasciato alquanto perplesso, ritenendo quanto verifivatosi poco credibile.
Danica, Pero Villani, Marin e gli altri protagonisti del libro non sono riusciti a farmi addentrare nel loro mondo e nelle loro storie. Forse dipende dal fatto che gli intrecci politici non m’interessano più di tanto in una storia fantastica (era successo anche con Martin e la sua famosa serie incompiuta di romanzi), forse era da tanto che aspettavo di leggere un romanzo nuovo di Kay e le aspettative erano alte, forse non ero nel momento più adatto per leggere un libro del genere, ma Figli di terra e cielo non è riuscito a lasciarmi molto.

Batman – Il ritorno del Cavaliere Oscuro

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Batman – Il ritorno del Cavaliere OscuroBatman – Il ritorno del Cavaliere Oscuro è, assieme a Watchmen, la storia che ha cambiato il mondo dei fumetti (almeno per quanto riguarda il campo eroi e supereroi). Frank Miller ha saputo creare non solo una trama interessante ma ha dato una connotazione di spessore a Bruce Wayne, mostrando dei lati del personaggio che sono poi stati ripresi in altre storie, sia fumettistiche sia cinematografiche (per citarne una, il Batman di Nolan).
Subito una premessa su Batman – Il ritorno del Cavaliere Oscuro: la storia non appartiene alla linea canonica del personaggio DC ma è ambientata in un futuro alternativo dove vigilanti e supereroi sono stati banditi dal governo, costretti a ritirarsi (Batman), finiti in prigione (Freccia Verde) o a lavorare in incognito per esso (Superman).
Bruce Wayne ha appeso il mantello del Cavaliere Oscuro da anni, cercando di farsi una ragione di una decisione che non ha mai digerito e accettato del tutto. Il rimpianto, l’amarezza sono le sue compagne abituali, la sua una vita segnata da perdite (quali quelle dei suoi genitori ma anche di Jason Todd, una morte che profetizza in un qualche modo quella che poi avverrà nella serie canonica), costretto ad accettare un mondo che va sempre più a rotoli senza poter intervenire. Almeno fino a quando non ce la fa più a stare a guardare la sua città che va sempre più in malora causa crimini e la band dei Mutanti; mentre in tv c’è un dibattito su chi lo vede come un eroe e chi come uno psicotico causa di male, Batman fa il ritorno sulla scena pubblica fermando Due Facce che è tornato al crimine. Questo fa risvegliare dallo stato catatonico in cui è caduto Joker, il che non sarà positivo.
Batman sconfigge il capo dei Mutanti, e i membri della band, riconoscendolo come il più forte, diventano suo seguaci, facendosi chiamare d’ora in avanti i Figli di Batman; Bruce ha anche un’altra seguace, l’adolescente Carrie Kelley, che addestra come nuova Robin.
Il ritorno sul campo di Batman non piace al governo, che manda Superman a cercare di convincerlo a tornare sui suoi passi; tentativo inutile, visto che Bruce non vuole tornare indietro. Mentre Superman, secondo l’ordine del governo, interviene contro una flotta russa mandata a Corto Maltese, ignari della pericolosità di Joker, gli psichiatri che lo seguono decidono di far vedere in tv che non è più una minaccia: Joker col suo gas uccide centinaia di persone. Batman lo insegue deciso a fermarlo una volta per tutte, ma non riesce a venire meno alla sua regola di non uccidere; così Joker si suicida, sapendo che Batman sarebbe passato per colpevole e il suo gesto perseguito.
Superman, indebolito dallo scoppio di un missile nucleare sovietico che con un impulso elettromagnetico ha inoltre danneggiato tutte le apparecchiature elettriche e modificato il clima, torna a Gotham per fermare Bruce, ma quest’ultimo, grazie all’aiuto di Oliver Queen fuggito anni prima di prigione senza che la sua fuga venisse divulgata, riesce a vincere. Lo sforzo però gli costa caro e muore per un infarto.
L’identità di Batman viene svelata, ma Superman scopre che Bruce non è morto: il suo cuore nella bara batte ancora, dato che ha assunto un farmaco per simulare la sua morte. Tuttavia fa finta di niente, lasciando che Bruce, di nascosto, continui la sua opera.
Batman – Il ritorno del Cavaliere Oscuro è adatto per un pubblico maturo, con tematiche e narrazione raffinata, con Miller che crea qualcosa di unico, che lascia il segno. Un Miller che non ha paura di mostrare il presidente degli Stati Uniti come una figura confusa, che pensa di guidare il paese come un cowboy, mostrandolo come individuo grotesco e caricaturale (Trump si è ispirato a lui?). Un Miller che critica l’opinione pubblica e i media con il loro buonismo e perbinismo, dimostrando tutta la loro idiozia., mostrando come il mondo dell’informazione è animato dal sensazionalismo (cosa molto attuale al giorno d’oggi). Superman non è più il paladino della giustizia ma un burattino nelle mani di un governo sbagliato e ipocrita.
Batman – Il ritorno del Cavaliere Oscuro è una grande storia. Soprattutto è una storia attuale, che andrebbe letta per capire in che sistema stiamo vivendo.

Il canto del sangue

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Il canto del sangueSeppur nulla originale, Il canto del sangue di Anthony Ryan è stata una piacevole e scorrevole lettura, che ha tenuto incollato alla pagine, con la voglia di sapere cosa accadeva nelle pagine successive. Tutta la storia è un lungo flash back del protagonista, mostrato attraverso il racconto che fa al suo compagno di viaggio su una nave; un compagno di viaggio forzato, con il protagonista costretto ad andare incontro a uno scontro che per lui si rivelerà mortale. O almeno, questo è quello che viene fatto credere. Come il racconto dato al compagno di viaggio non è proprio lo stesso che il lettore ha modo di scoprire, dato che quest’ultimo ha il beneficio di conoscere la storia attraverso il penserio del protagonista mentre per il primo non è così: ha solo una verità parziale, come lui stesso si accorge.
Vaelin al Sorna è un ragazzino che viene portato davanti al cancello del Sesto Ordine, dove verrà addestrato come guerriero. Dopo la morte della madre e la decisione del padre di lasciarlo ad addestrare nel famoso e temuto ordine, Vaelin ha come unica famiglia ragazzi che si trovano nelle sue stesse condizioni: il duro allenamento, le prove alle volte spietate, cementano il legame tra loro anche se sono di estrazioni differenti. Con il passare del tempo e delle prove, Vaelin scoprirà una realtà molto più complessa della semplicità vita da guerriero: avrà a che fare con intrighi, tradimenti, con un re manipolatore, con i segreti degli ordini. E poi c’è il Buio, una sorta di oscuro potere che in tanti temono, specialmente i sei Ordini del regno, contro cui un tempo avevano combattuto e vinto, ma che non è stato distrutto completamente: esso è sopravvissuto, celato in ciò che si credeva scomparso, il settimo Ordine di cui pochi sono a conoscenza. La realtà però è più complessa di ciò che sembra: il Buio non è davvero qualcosa di malvagio, è soltanto un mezzo. Un mezzo che può essere buono o cattivo a seconda di chi lo usa.
Vaelin, in apparenza seguendo il volere del suo re, obbedisce agli ordini impartiti, ma la sua missione è scoprire chi c’è dietro tutti gli eventi che si stanno verificando e che lo coinvolgono direttamente, dato che è uno dei pochi possessori del canto del sangue, una capacità che lo aiuterà nel suo compito ma lo farà anche prendere di mira.
Anthony Ryan, con il suo stile e il modo con cui ha realizzato il mostrare le vicende, ha fatto un buon lavoro; certo, Il canto del sangue non è nulla d’innovativo (l’addestramento e il percorso di crescita di un ragazzino fino a diventare prode e valente guerriero sono stati mostrati molte volte, tra gli ultimi R.A. Salvatore con la serie del Demon Wars) però viene raccontato bene e questo è uno dei punti che possono rendere una lettura una buona lettura.

Il 17° scudetto della Virtus Bologna

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Achille Pollonare e il 17° scudetto della Virtus BolognaMartedì 17 giugno la Virtus Bologna ha vinto il suo 17° scudetto. Si potrebbe parlare di come sia stato uno scudetto inaspettato, visto l’anno pieno di difficoltà sia a livello societario (con l’instablità dovuta al non sapere nelle mani di chi sarebbe stato il club) sia a livello di risultati sul campo (un’Eurolega deludente che ha portato al cambio d’allenatore in panchina). Si potrebbe parlare di una squadra che sotto la gestione Ivanovic ha cambiato pelle, migliorando nettamente in difesa, divenendo una compagine più solida e quadrata, perdendo quella schizofrenia che le faceva avere dei blackout di interi quarti capaci di farle dilapidare vantaggi anche superiori ai venti punti. Si potrebbe parlare di una Virtus Bologna capace di saltare fuori dai momenti più difficili come nei quarti di finale con Venezia, vincendo in rimonta in gara 5 dopo essere stata sotto di 9 a quattro minuti dalla fine, di vincere nelle semifinali due volte di fila in casa contro Milano (dove negli ultimi tre anni aveva sempre perso nei playoff) dopo aver perso gara 2 in casa di diciannove punti, e di vincere una gara tiratissima in gara uno nelle finali contro Brescia che ha dato il meglio di sè.
Ma più della vittoria finale, che fa sicuramente piacere, va ricordato come sia i giocatori di Brescia, sia i suoi tifosi, abbiano applaudito la Virtus Bologna nonostante la sconfitta (cosa già fatta dall’Inter nella finale di Champions contro il PSG), dando esempio di sportività. Soprattutto va ricordato come i pensieri sia dei giocatori sia dei tifosi della Virtus Bologna siano andati soprattutto ad Achille Pollonara, giocatore delle V Nere, prima colpito da un tumore e poi da leucemia mieloide riscontrata durante le semifinali scudetto.
Così dovrebbe essere lo sport, perché ci sono cose più importanti di una vittoria o un trofeo.

Referendum 8 e 9 giugno. Una sconfitta dei lavoratori.

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referendum 8-9 giugnoIl referendum dell’8 e 9 giugno è stata una sconfitta dei lavoratori. Una sconfitta che si sono cercata e creata con le proprie mani, perché in tanti, troppi, non sono andati a votare. Un grosso errore quello di non presentarsi alle urne perché si aveva la possibilità di cambiare leggi ingiuste, leggi che favoriscono datori di lavoro e che naturalmente vanno a influire in negativo sulle condizioni dei lavoratori. Il referendum è uno dei pochi mezzi che le persone hanno a disposizione per far sentire la loro voce, per poter dire cosa ne pensano di temi che li toccano diversamente, e per questo va sfruttato. Purtroppo così non è stato ed è qualcosa che oltre a far molto riflettere su cosa sono diventati gli italiani, fa molto arrabbiare; è comprensibile che si decida di non andare a votare alle politiche perché si ha a che fare con una classe politica mediocre, dove, se si va a votere, si cerca di votare il meno peggio, ma non votare a un referendum su questioni lavorative che toccano praticamente una gran fetta della popolazione lavorativa è qualcosa di veramente stupido. Quello che soprattutto fa arrabbiare è che si sentono tanti lamentarsi del lavoro e delle loro condizioni e poi, avendo una possibilità di cambiare qualcosa col referendum, non la si sfrutta. E non la si sfrutta per motivi stupidi: si sono sentiti tanti dire che non sarebbero andati a votare perché dovevano andare al mare, perché non si poteva rinunciare a una domenica in spiaggia per rilassarsi e divertirsi. A parte che l’estate deve ancora cominciare e quindi c’è tanto tempo per andare al mare, ergo per una volta si poteva rimandare perché il mondo non finisce; a quanto pare però per gli italiani ferie e svago sono sacri e hanno la priorità su tutto, piuttosto si salta qualche pasto, ma tempo e soldi per ferie si trovano sempre (ci si pongono delle domande però a questo punto: chi è al potere ha scelto le date 8 e 9 giugno contando proprio su questo, non volendo rischiare che i quesiti passassero? Non si poteva scegliere un periodo differente, dove l’affluenza poteva essere maggiore, come a esempio marzo o novembre?)
Cosa succede però se arriva il momento che non si riuscirà più ad andarci perché le condizioni di lavoro sono così peggiorate che non si avranno più modo e mezzi per andarci?
Si pensa all’immediato, al tornaconto del subito, ma bisognerebbe avere la lungimiranza anche di quello che viene dopo, bisognerebbe pensare un poco al futuro sia proprio sia quello di chi verrà dopo (figli). Invece non c’è visione di futuro, perché a tanti non importa, perché tanti si sono rassegnati e convinti che non si può fare nulla per cambiare lo stato delle cose, ergo, meglio divertirsi finché si può (in pochi ricordano le parole di Thomas Jefferson: “I popoli non dovrebbero avere paura dei propri governi, ma sono i governi che devono aver paura dei propri popoli.”).
Facendo fallire il referendum non solo si è persa un’opportunità per migliorare la propria condizione lavorativa, ma si è dato l’assist a un governo di destra che appoggia gli imprenditori (come sempre hanno fatto i governi di destra e come ha fatto pure Renzi, che non era affatto di sinistra ma un vero e proprio cavallo di Troia della destra asservito ai soldi e agli imprenditori) che così può vantarsi e dire che la maggior parte degli italiani è dalla loro parte, che appoggia le sue politiche del lavoro e condivide in toto il suo modus operandi, dandogli così ancora maggior potere e libertà d’azione. Un governo che ha spinto con forza sull’astensionismo, facendo diventare la sconfitta dei lavoratori una sua vittoria, vantandosi ed esaltandosi di questo fatto, dando l’ennesima dimostrazione di come considera la democrazia e di come la stia mettendo a rischio.
Menefreghismo, lassismo, rassegnazione, egoismo: le ragioni di questo fallimento sono tante. Il termine più adatto per definire tutti gli italiani che non sono andati a votare è ben usata in una famosa canzone dei Green Day (però si usino i termini italian e Italia per rendere il quadro più chiaro e pertinente).

P.s.: in diversi elementi del governo hanno esortato a non andare ai seggi. E se si seguisse lo stesso consiglio quando si dovrà andare a votarli?

Esempi di civiltà

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Lo sport dovrebbe essere una festa, momenti per divertirsi e gioire, soprattutto quando arrivano vittorie importanti, come successo col Bologna, che è tornato ad alzare la Coppa Italia dopo più di cinquant’anni: festeggiamenti sentiti, ma che sono stati ordinati e rispettosi. Un esempio di cività.
Un caso a quanto pare isolato, dato che altri così non hanno fatto, come successo per la vittoria del Napoli con lo scudetto. Già c’erano stati alcuni episodi che avevano gettato delle ombre sulla festa scudetto, come le parole dell’arbitro Guida che ha rivelato che lui e Maresca hanno deciso di non arbitrare più le partite del Napoli. “Io vivo la città di Napoli e abito in provincia. Ho tre figli e mia moglie ha un’attività. È una scelta personale. La mattina devo andare a prendere i miei figli e voglio stare tranquillo. Quando ho commesso degli errori non era così sicuro passeggiare per strada, così come andare a fare la spesa. Pensare di sbagliare ad assegnare un calcio di rigore e di non poter uscire due giorni di casa per svolgere le mie attività sportive non mi fa sentire sereno.” Coincidenza vuole che al var di Inter-Lazio, partita risultata decisiva per l’assegnazione del tricolore, ci fosse proprio Guida con un rigore negato ai nerazzurri che ha fatto finire la partita 2 a 2 e praticamente assegnando lo scudetto al Napoli. Altro episodio poco piacevole il tentativo di De Laurentis che ha richiesto al governo nell’ultima gara di campionato d’impedire ai tifosi del Cagliari di essere presenti allo stadio del Napoli perché voleva ci fossero solamente tifosi napoletani per festeggiare la vittoria finale.
Le cose non sono però finite qui per quanto riguarda i festaggiamenti del Napoli: la Rai ha mandato in diretta la festa dello scudetto del Napoli, cosa che, da quel che si ricorda, non è mai successa prima. Anche il Papa che riceva la squadra napoletana è stata un’anomalia.
Purtroppo, c’è di peggio: con i festaggiamenti ci sono stati decine di feriti, diversi arresti e carabinieri aggrediti, senza contare che sono state spazzate via dalle strade di Napoli ben 60 tonnellate di rifiuti, un dato tre volte superiore a quello registrato a Capodanno. Per non parlare di come hanno lasciato altre città italiane i tifosi napoletani con i loro festaggiamenti.
Festeggiamenti Paris San Germain per la vittoria della Champions League, un esempio di civiltàSe si pensa che questo sia non un gran bell’esempio di civiltà, i tifosi del Paris Saint Germain hanno fatto di peggio: per la loro prima Champios League, i giocatori del PSG sono stati costretti a rifugiarsi negli spogliatoi per l’invasione di campo dei suoi tifosi che volevano rubargli per coppa per sollevarla loro, con la polizia che ha dovuto creare dei cordoni per impedire che invadessero anche gli spogliatoi. Ma non è finita qui: sia a Monaco sia a Parigi ci sono stati scontri feroci già prima della finale. E i festaggiamenti dopo la vittoria hanno portato due morti, oltre cinquecento arresti, Parigi che sembrava una città in stato d’assedio: pensiline degli autobus distrutte, centinaia d’incendi, decine di vigili e forze dell’ordine feriti.
In Grecia le cose non vanno meglio nella finale scudetto di basket, con il governo che è dovuto intervenire a sospenderel a serie finale Panathinaikos-Olympiacos, per via di minacce, offese, richieste di arresti e fughe.
Non c’è che dire, davvero dei begli esempi di civiltà.

Duranki

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DurankiDuranki è l’ultima opera realizzata da Kentaro Miura e purtroppo resterà incompiuta, come comunicato dalla redazione di Young Animal dopo averne parlato con i membri dello Studio Gaga. Una decisione comprensibile, ma di cui mi dispiace, dato che ho apprezzato l’unico volume realizzato sia per i disegni, sia per l’ambientazione, sia per i personaggi, sia per la storia; sicuramente ha influito la passione che ho verso i miti degli eroi e degli dei dell’Antica Grecia, dato che Duranki proprio su di essi si basa, ma c’è da dire che Miura per i sei capitoli realizzati ha fatto un buon lavoro, sicuramente migliore dell’idea originale da cui si è preso spunto: all’inizio, infatti, l’opera si doveva chiamare Amazones, con un ragazzo dei giorni d’oggi dai tratti molto femminili che veniva catapultato nel mondo dell’Antica Grecia (precisamente ai tempi della Guerra di Troia) e finiva in mezzo alla Amazzoni, finendo scambiato per una ragazza. Leggendo la sceneggiatura pubblicata assiema ai sei capitoli di Duranki, il protagonista viene portato nella città delle Amazzoni (chiamata Amazon) e deve cercare di non far scoprire che in realtà è un uomo (pena il venire decapitato) e con la conoscenza che ha delle tattiche di guerra, delle armi moderne e della storia, aiuta le Amazzoni contro i greci invasori che attaccano Troia, cambiando il corso degli eventi. In sostanza, Amazones sarebbe stato un isekai (il protagonista viene trasportato, reincarnato o evocato in un universo parallelo, spesso di stampo magico o fantastico); l’idea fu poi accantonata perché col passare del tempo gli isekai divennero uno standard, putando perciò più sull’aspetto mitologico. E questo, a mio avviso è stato un bene: con Amazon si voleva mostrare un gruppo di donne (le Amazzoni) che si ribella a una cultura maschilista, e questa l’ho trovata un’idea interessante, valida, peccato non realizzata a dovere, dato che aveva un approccio troppo adolescenziale, in alcuni casi da macchietta. Senza contare che i greci venivano stereotipati, presentati come un gruppo di bruti imbeccilli; sinceramente, non mi sarebbe piaciuto vedere realizzate tavole dove un esercito esperto come quello spartano viene sbaragliato da un gruppo di ragazzine; va bene l’aiuto avuto dai mezzi realizzati dalla conoscenza del protagonista, ma un popolo come quello di Sparta, che viveva di addestramento militare e guerra, non poteva essere sconfitto e umiliato così facilmente. Anche le battute che venivano fatte contro i greci (Menelao etichettato come “cornuto” e “re della pena”) erano un po’ troppo da macchietta e da anime comico, così come certe scene rovinavano l’epicità che è stata l’opera di Omero (Menalao che se ne va con una freccia nel sedere, Achille che dopo essere stato ferito dal protagonista con un’arma da fuoco s’innamora di lui e ci prova quando casualmente si ritrovano nelle stesse terme, venendo scacciato come un maniaco dalle altre giovani Amazzoni). Insomma, mostrare gli eroi greci come cattivi rimbecilliti e basta non sarebbe stato nelle mie corde.
Fortunatamente, la storia ha preso un’altra piega, facendo arrivare a Duranki. Due antichi dei della saggezza si ribellano al sistema mitico dando vita a un essere che non è né uomo né dio, né maschio né femmina, donandogli il nome di Usumgal che significa “Drago”; affidano la loro creatura a Hermes, dio greco protettore dei ladri, perché lo porti sul suolo sacro della Vetta dell’Arca, dove verrà trovato da una coppia anziana di pastori. Qui crescerà libero insieme a loro e alla compagnia del grosso cane Huwawa e del dio degli armenti Pan; grazie al suo intelletto, realizza delle invenzioni che semplificano la sua vita e quella degli anziani che l’hanno adottato, che fin da quando l’hanno trovato in fasce ai piedi della gigantesca arca del diluvio hanno compreso che è opera degli dei.
Crescendo, Usum ha il permesso di scendere dalla montagna, dove incontrerà un gruppo di ragazzi provenienti dal villaggio Tase, con il quale legherà fin da subito. Il nonno però lo mette in guardia, sia per il fatto che potrebbe incontrare difficoltà a farsi accettare per via della sua natura androgina, sia per il risentimento che cova negli abitanti di Tase, spogliati e derubati da una guerra e costretti a fuggire e rifugiarsi sulle montagne.
Nonostante queste ombre, la vita di Usum continua tranquilla, venendo ben accettato a Tase, grazie anche a ciò che realizza. Tutto va per il meglio fino a quando non incontra e deve combattere contro un mostro mitologico, una manticora. Purtroppo. Duranki finisce qui, nel bel mezzo dello scontro e non si saprà mai come finirà lo scontro (probabilmente bene), né come continuerà la storia e come si sarebbe evoluta. Davvero un peccato, perché c’erano tutte le premesse per realizzare qualcosa di valido e interessante.

Japan

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JapanNonostante la sceneggiatura di Buronson (autore di Ken il guerriero) e i disegni di Kentaro Miura (Berserk), Japan non è nulla di che. Personaggi, trama, sono qualcosa che non lascia traccia: tutto accade troppo in fretta, non c’è spazio per l’approfondimento, per la creazione di una storia memorabile. L’unica cosa che si salva sono i disegni di Kentaro Miura, il cui tratto è quello dei primi volumi di Berserk (la storia venne pubblica in Giappone sulla rivista Young Animale nel 1992, quando il tratto del mangaka non era evoluto a quello attuale).
Tema e ambiantazione sono qualcosa di molto caro a Buronson: uno scenario postapocalittico dove vengono catapultati i protagonisti. E mai termine (catapultati) è più appropriato. Katsuji Yashima (che ricorda un po’ Gatsu, un po’ Nosferatu Zodd), un bestione membro della Yakuza (mafia giapponese) segue dovunque va la giornalista Yuka, di cui è innamorato. Mentre sta facendo un’intervista a quattro viziati ragazzi giapponesi sull’aggressivo modo di espandersi e di aggredire i mercati per arricchirsi sempre di più del Giappone, facendo un paragone con l’antica Cartagine, distrutta da Roma per lo stesso modo di fare, un terremoto li fa precipitare in una grotta dove ci sono i resti dell’antico esercito cartaginese; lì incontrano un vecchio che li mette in guardia sul destino del loro paese se continueranno a fare come i fenici, facendogli fare un salto avanti nel tempo e mostrandogli cosa succederà nel futuro.
Yashima, il suo amico Akira, Yuka e i quattro ragazzi si ritroveranno in un mondo desertico, barbarico, dove i giapponesi sono un popolo nomade, senza più una patria e senza più orgoglio, schiavizzato e costretto a subire i soprusi delle altre popolazioni. Yashima naturalmente non ci sta e con la sua forza e la sua testardaggine si ribella a questo mondo, diventando leader di un gruppo sempre più grande per far rivivere l’orgoglio giapponese e creare un paese dove gli uomini di tutte le razze possano vivere liberi e rispettati: quel paese si chiamerà Japan.
La storia si conclude così, e non si sa se il gruppo tornerà nel suo tempo o continuerà a vivere in questo futuro perseguendo l’obiettivo che il suo leader ha dato: Buronson e Miura non sono più tornati sulla storia e quindi si rimane con il punto interrogativo. Benchè alcune tematiche siano ancora attuali e i mondi apocalittici alla Interceptor affascinino sempre, Japan non ha una gran forza, è qualcosa di già visto e mostrato in una maniera non all’altezza: ribellarsi all’ingiustizia, il decantare l’orgoglioso giappone, sono elementi troppo sbattuti in faccia, troppo “inneggiati” per essere davvero convincenti. Peccato, Japan poteva esere qualcosa di più di quello che è stato.

L’ombra degli dei

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L’ombra degli deiL’ombra degli dei, primo volume della saga dei Fratelli di Sangue di John Gwynne, è, come asserito dall’autore, un libro ispirato sia a Beowulf sia al Ragnarok, la battaglia dei miti nordici dove trovarono la fine i vecchi dei vichinghi come Thor e Odino (questa però non fu la fine di tutte le divinità, alcune sopravvissero dando inizio a una nuova era). Se devo essere sincero, ricordare tutti i termini legati alla mitologia nordica usati nel romanzo mi è difficile, quindi, per evitare di scrivere inesattezze, eviterò di usarli.
La storia segue tre filoni, ognuno dedicato a un personaggio principale.
Varg è uno schiavo che è riuscito a scappare dai suoi padroni e chi si unisce a un gruppo di combattenti chiamato i Fratelli di Sangue.
Orka vive una vita tranquilla con suo marito e suo figlio in una fattoria isolata, almeno fino a quando non vengono attaccati e a lei non rimane che vendicare il marito ucciso e ritrovare il figlio rapito.
Elvar è una guerriera degli Sterminatori, un gruppo che caccia Corrotti, persone nelle cui vene scorre il sangue degli Dei.
Le vicende di queste tre figure per un buona parte del libro si evolvono per conto loro ma finiranno inevitabilmente per intrecciarsi in una vicenda che è più grande di quel che sembra: tutto si riconduce alla battaglia in cui gli dei sono caduti, al luogo dove le loro spoglie giacciono. Un luogo divenuto leggenda, che tanti ambiscono trovare e la chiave è il sangue, perché il sangue è più che vita: è memoria, è potere.
John Gwynne fa un buon lavoro con L’ombra degli dei, ricreando l’atmosfera dei miti nordici tra foreste, viaggi in mare e terre misteriose dove riecheggia ancora la presenza degli dei. Anzi, è più di un riecheggiare, dato che ci sono città che sorgono proprio tra i resti delle divinità. A parte un po’ di difficoltà iniziale avuta con alcuni termini, la lettura è proceduta spedita e piacevole, rendendo L’ombra degli dei un libro consigliato per chi ama battaglie sanguinose, leggende e dei d’ispirazione vichinga.