Racconti delle strade dei mondi

Il falco

L’inizio della Caduta

 

Jonathan Livingston e il Vangelo

Jonathan Livingston e il Vangelo

L’Ultimo Demone

L'Ultimo Demone

L’Ultimo Potere

L'Ultimo Potere

Strade Nascoste – Racconti

Strade Nascoste - Racconti

Strade Nascoste

Strade Nascoste

Inferno e Paradiso (racconto)

Lontano dalla Terra (racconto)

365 storie d’amore

365 storie d'amore

L’Ultimo Baluardo (racconto)

365 Racconti di Natale

365 racconti di Natale

Il magazzino dei mondi 2

Il magazzino dei mondi 2

365 racconti d’estate

Il magazzino dei mondi 2
Febbraio 2025
L M M G V S D
 12
3456789
10111213141516
17181920212223
2425262728  

Archivio

Incapacità di amare

No Gravatar

La riflessione è partita dopo aver visto questo video (e averlo commentato), anche se già in altre occasioni avevo discusso della cosa. Partiamo subito da una premessa: l’incapacità di amare o di prendersi responsabilità nel creare un rapporto stabile con un’altra persona non penso dipenda solamente dalle mancanze dei giovani. Anzi, penso che la questione non riguardi solamente loro, ma che ormai sia una faccenda inerente l’intera società; è complesso trattare in breve la situazione, tuttavia ci sono degli elementi che possono aiutare a comprenderla un poco di più.
Sicuramente le esperienze personali possono influire nel non volersi impegnare in relazioni serie: la paura di soffrire, l’andare incontro a una nuova delusione, possono frenare o addirittura bloccare una persona, facendola arrivare a pensare che l’amore non esiste oppure non è qualcosa riservata a lei. Questo però non può riguardare la totalità dei casi: non tutti possono avere avuto esperienze così negative da far perdere fiducia negli altri e nei rapporti di coppia. Non si può però non notare che ci sono sempre più casi in cui non ci si vuole impegnare e questo può dipendere dall’assenza di responsabilità, di volersi prendere degli impegni. Un’assenza dovuta a un’educazione e una cultura mancanti; in tutto ciò, rispetto a generazioni passate, i media hanno avuto una forte influenza e un forte condizionamento sulle persone, dando modelli e messaggi non proprio edificanti ed educativi: film, serie tv, social, reality ma anche un certo tipo di politici che hanno fatto passare il disimpegno, la mancanza di valori, l’oggettivazione della persona, l’apparire e il fare quello che si vuole se si hanno soldi e potere come modelli di vita da seguire e attuare. Per molto tempo si è sottovalutato il potere del condizionamento che hanno avuto e hanno i media e adesso si sta cominciando a capire quanto dannoso possa essere stato.
Il condizionamento dei comportamenti però non è sufficiente per spiegare questo non volersi impegnare in relazioni serie dei giovani (e non solo loro): sempre certi politici, facendo leggi a proprio favore, hanno rovinato il mondo del lavoro, rendendolo sempre più precario, il che ha portato a una maggiore incertezza per il futuro, quando non si parla di mancanza di futuro: private di prospettive, le persone non fanno progetti a lunga scadenza, ma si concentrano sulla sopravvivenza e sul presente, vivendo il momento in cui sono e cercando di trarne le maggiori soddisfazioni permesse. Brutto da dire, ma senza basi solide, ovvero senza soldi, diventa molto difficile poter progettare qualcosa e questo include anche relazioni stabili che portano al formare una famiglia. I problemi ci sono sempre stati, solamente che in passato si avevano meno difficoltà anche se le cose non erano facili: al giorno d’oggi diventa difficile pensare che una famiglia possa essere mantenuta solo da una persona avente come impiego quello di operaio o impiegato. Pagare affitto o mutuo, bollette, assicurazioni, è difficile, ancora di più se non si ha un lavoro stabile; e le difficoltà aumentano se si pensa di avere un figlio, che ha costi non da poco: vestiario, alimentazione, scuole, sempre che non sopraggiungano spese mediche. Tutto questo porta i giovani (ma non solo loro) a pensarci bene prima di fare certi passi. Si parla d’incapacità d’amare, e si può dire che in parte è anche così per via di un’educazione che ha saputo dare cose materiali ma non valori (soprattutto non ha saputo dare valore alla vita), ma si deve anche parlare di paura per un futuro che non dà rassicurazioni e certezze. Forse non ce ne sono state in nessun tempo, ma questo, ancor più di altri, non sembra dare prospettive e senza di esse non ci si muove o ci si impegna.
C’è infine un altro fattore da tenere presente: anche se connessi alla rete, anche se si è social, si deve fare i conti con una solitudine dilagante, e non importa se si è sempre in mezzo alla gente, se si hanno contatti con tante persone, perché manca la comunicazione (e con comunicazione non si tratta di parlare del più e del meno, di chattare, ma qualcosa di più serio, profondo, strutturato). Potrà sembrare essere poco pertinente al discorso che si sta facendo, ma trovo interessante il discorso che fa Igor Sibaldi tra il minuto 29 e 55 e il minuto 36 e 48: qui si parla di liberalizzazione sessuale, ma è importante il discorso che viene fatto al riguardo, perché tale elemento, secondo quanto riporta Igor (ma non è il solo a dirlo), ha portato ad allontanare le persone da legami stabili (amori ma anche amicizie), a essere sempre più sole e pertanto a essere più sotto il potere e il controllo di grossi enti come a esempio lo stato. Senza contare i danni che la pornografia ha fatto sui giovani (ma di nuovo, non solo a loro) a più livelli.
In conclusione, dire che è solo colpa dei giovani se non sono capaci di amare e d’impegnarsi, non solo non è giusto, ma è limitativo; certo, anche loro hanno di che guardarsi e analizzarsi (il dire “tutto il futuro dipende dai giovani”, “i giovani sono la nostra unica sepranza per il futuro” e altre frasi simili oltre a essere una presa in giro (il futuro dipende da tutti, non solo da alcuni) sono un modo per sfruttare i giovani e nient’altro), ma una responsabilità per niente ignorabile va alla società e al sistema vigente perché non premia l’impegno: se una persona fa sacrifici, spende tempo ed energie per raggiungere traguardi, è giusto che venga ricompensata, che ottenga ciò per cui si è impegnata. Se questo non avviene, se gli sforzi non sono ripagati, se si fa tanto per ottenere poco o nulla, è logico che alla lunga le persone smettono di darsi da fare. Chi dà il massimo di sè per un lavoro sottopagato e della durata di poche settimane, sapendo che il suo contratto non verrà rinnovato? Chi s’impegnerà a ottenere conoscenze e professionalità sapendo che tanto non otterrà mai dei buoni posti di lavoro perché essi sono riservati a raccomandati? Dinanzi a ciò, senza prospettive salde per il futuro, è logico che in pochi si arrischieranno a cercare di creare qualcosa che duri nel tempo, badando per lo più a cercare di sbarcare il lunario e a navigare a vista e a sopravvivere; con simili basi è logico che le relazioni personali sono le prime a risentirne. E a queste cose dovrebbe pensare in primis chi ha voluto questo sistema e chi avrebbe dovuto educare i giovani e invece non l’ha fatto.

Il caso Neil Gaiman

No Gravatar

Neil GaimanIn questi ultimi giorni fa parlare il caso di Neil Gaiman, accusato da diverse donne di violenza sessuale: secondo le accusatrici, Gaiman avrebbe usato pratiche sessuali non concordate. Accuse che hanno avuto subito delle conseguenze: la casa editrice Dark Horse non pubblicherà più suoi fumetti , tre adattamenti delle sue opere sono stati sospesi. Non si è dinanzi a qualcosa di nuovo: anche Johnny Depp è andato incontro a una situazione simile quando è stato in causa con la moglie Amber Head per abusi, dove subito è stato scaricato da molti, ha perso ruoli e la sua carriera è stata messa a rischio, salvo poi tornare alla ribalta quando ha vinto la causa. Anche Cristiano Ronaldo e Mbappé sono stati prima accusati di violenze sessuali e poi assolti. Quando ci sono situazioni simili, le cose non sono mai facili, ma ci si trova dinanzi a qualcosa di complesso e spinoso.
Parlando di Gaiman, in prima istanza bisogna aspettare per vedere se le accuse diventeranno fatti: allora si potrà dare un giudizio più preciso. Per adesso, si possono prendere in considerazione solo degli scenari possibili. Uno è questo, che può sembrare una difesa a Gaiman. Quando si tratta di un personaggio in vista c’è sempre il dubbio che ci siano tentativi d’incastrarlo, sfruttando la situazione a proprio vantaggio: non è raro che donne, attratte da soldi e posizione, si concedano, anzi, si propongano pure. Se c’è stata violenza sessuale, se ci sono stati abusi, allora, perché non denunciare subito? Quando accadono fatti del genere bisogna farlo immediatamente. In molti obietteranno che ci sono fattori psicologici che frenano: la paura di non essere credute, la vergona, la paura del giudizio. In altrettanti obietteranno che se si pensa che l’uomo sia l’incastrato è perché si sta sempre dalla parte dell’uomo, che la donna viene mostrata come facile e manipolatrice, che “in fondo è quello che voleva” o che “se l’è cercata”. Questo è un discorso impopolare e può essere criticato, ma è una possibilità di come possono essere andate le cose.
Altra possibilità, è che uno nella posizione di Gaiman si ritiene di poter fare quello che vuole per via della fama ottenuta e pertanto a lui può essere concesso di fare cose che altri invece non potrebbero. Anche se venisse denunciato, la fama ottenuta e gli avvocati che può avere gli permetteranno di essere assolto; in fondo non succede spesso così a chi è in posizioni economiche forti?
Poi ci sono altre possibilità che stanno nella zona d’ombra tra le due sopra citate, dove è difficile stabilire come stanno davvero le cose, dove la colpa non è appartenente soltanto a uno, un po’ come successo tra Depp e Head. Probabilmente anche questo scenario non piacerà, perché quando si parla di abusi, soprattutto in questo periodo, le donne sono sempre innocenti e paventare che la colpa non sia solo e completamente dell’uomo fa sollevare proteste e indignazioni. Tuttavia, non è qualcosa che si può escludere e non perché si voglia difendere l’individuo maschile, ma perché la verità deve venire a galla, le cose devono essere raccontate per come realmente sono accadute; per questo bisogna aspettare che le indagini chiariscano come sono andate le cose. Non si può però non riflettere su una cosa: anche se Gaiman risultasse innocente, un’ombra è stata gettata e questo lo seguirà sempre, lasciando in molti il dubbio se la sua sia davvero innocenza oppure se l’assoluzione dipenda dai soldi e dalla posizione che ha.
C’è una cosa che non mi piace in questa vicenda: che si spari subito a zero su qualcuno prima che venga fatta chiarezza. Gaiman ora viene additato come un mostro, un violentatore, esempio di società patriarcale e di maschio predatorio e brutale, ancora prima che la vicenda sia chiarita. Sia chiaro: se i fatti avvaloreranno le accuse mossegli contro, è giusto che paghi per gli abusi di cui ora è accusato: chi fa violenza sulle donne deve andare in galera, per me non ci sono attenuanti. Ma le condanne devono arrivare quando chiarezza è stata fatta, farle come si sta facendo ora non è giusto.
E tutto ciò porta a un’altra questione: se Gaiman risultasse colpevole, sarebbe giusto continuare a leggere le sue opere? Continuare a comprarle non sarebbe appoggiare qualcuno che ha commesso dei crimini?
Non credo ci sia un’unica risposta, penso che sia una questione personale e dipende dal punto di vista di ognuno. Razionalmente viene da dire che, benché siano la stessa persona, uomo e scrittore (o donna e scrittrice) sono anche due elementi differenti: non sempre ciò che uno scrive rappresenta ciò che lui (o lei) è. Tuttavia, succede anche che negli scritti uno scrittore metta delle parti di sé (consciamente o inconsciamente); altre volte invece mette quello che lui non è oppure quello che vorrebbe essere: quale che sia la realtà, varia da scrittore a scrittore. Di fronte a ciò, in teoria, quando si legge un lavoro di qualcuno, non ci si dovrebbe far influenzare da quello che accade nella sua vita. Ma si guardi ciò che è successo con la Rowling, dove perché ha espresso le sue opinioni (condivisibili o no), in tanti hanno inneggiato di boicottare le sue opere, in tanti l’hanno rinnegata dopo averla adorata. Non a questi livelli, ma ho sentito persone che non volevano leggere e suggerivano di non leggere i romanzi di Silvana De Mari per via del suo pensiero e di certe sue dichiarazioni; anche se posso non condividere certe sue idee (specie politiche), se ho smesso di leggere i suoi libri è perché a un certo punto la qualità delle sue opere è calata e non mi hanno soddisfatto.
Questione differente per quanto riguarda invece un’altra scrittrice di fantasy di cui ho letto qualcosa: Marion Zimmer Bradley (ne avevo già parlato in un altro articolo). Dopo aver letto e apprezzato Le nebbie di Avalon, quando è saltato fuori ciò che aveva fatto ai figli e non solo a loro, non sono più riuscito a leggere altri suoi libri che avevo. Non li ho buttati via come hanno fatto tanti, ma mi sono bloccato e non sono riuscito a leggerli fino a ora.
E con Gaiman? Non sono un fan di questo scrittore, anche se ho letto qualche storia di Sandman, oltre a Stardust, Nessun Dove e Il cimitero senza lapidi e altre storie nere (ho visto anche delle trasposizioni di sue opere, quali Coraline e la porta magica e Stardust, uno dei rari casi in cui il film è meglio del libro): alcune storie sono piacevoli, ma niente che mi abbia spinto a cercare altro. Quindi, non ho ricercato prima, non ricerco adesso, ma non per quello che sta succedendo, ma perché quello che ho letto scritto da lui non mi ha preso più di tanto.
Cosa succederà ora?
Si può solo aspettare e stare a vedere, consapevoli che si è dinanzi a una vicenda sgradevole, che porta conseguenze non da poco; a parte quelle dei diretti interessati, non si può però non pensare anche al contraccolpo avuto dai suoi fan al sentire tale notizia, dopo che per tanti anni l’hanno visto in un certo modo, riconoscenti per quello che ha saputo dare con i suoi lavori, e che ora devono fare i conti con questa pagina buia che sconvolge le loro convinzioni.

Considerazioni su Brandon Sanderson

No Gravatar

Brandon SandersonLa decisione di scrivere un articolo su Brandon Sanderson nasce da quanto detto da Andrea, ma è da tempo che facevo riflessioni su di lui. Partiamo dal video e per chi non volesse vederlo tutto, faccio un breve riassunto: le critiche che muove Andrea riguardano il modo di fare dell’autore, che ha deciso di puntare sulla quantità di uscite delle sue opere e sulla modalità con cui vengono realizzate. Per Andrea, Sanderson realizza la prima stesura e poi la passa al suo staff per l’editing, velocizzando in questo modo il processo di realizzazione del libro: questo spiegherebbe la mole di romanzi che riesce a pubblicare. Puntare sulla quantità invece che sulla qualità non è una cosa che Andrea apprezza, come non apprezza la scelta di aver puntato sul Kickstarter.
Il modo di fare così veloce di Sanderson, oltre che influire sulla qualità della storia, influisce anche sullo stile, che deve essere semplice e facile da realizzare, in modo che ci si possa mettere le mani velocemente. Sanderson con questa scelta ha deciso di puntare sulla commercialità e i numeri di vendite e guadagni gli danno ragione; se questo era il suo fine, ci è perfettamente riuscito, per adesso.
Alla lunga questo continuerà a funzionare?
Probabilmente sì, anche se ci saranno dei lettori che si scontenteranno e non lo seguiranno più, benché non sarà sufficiente a fargli perdere una fetta di mercato così grossa da farlo andare male.
Quello che dice Andrea lo capisco e in gran parte lo condivido; se devo essere sincero, dinanzi a una simile prolificità, rispetto ad Andrea, credevo che alcune parti le facesse scrivere ad altri, visto che avevo avuto in alcune occasioni la sensazione che lo stile fosse differente, ma probabilmente è più verosimile il suo pensiero. Per Andrea questo non è essere scrittore; per me Sanderson è diventato qualcosa di diverso: è sì scrittore, ma è diventato soprattutto impresa, perché sui suoi libri non lavora solo lui, ma ha un’intero staff a sua disposizione, ha tanti collaboratori che lo aiutano, basta vedere nei ringraziamenti che fa nei suoi libri il numero di persone che ne sono comprese. Sanderson (che non si occupa solo di libri, ma anche di giochi di vario genere) è differente da altri scrittori (i quali dopo aver fatto diverse stesure e revisioni lo passano all’editor della casa editrice che li pubblica) perché attorno a sé ha un intero team a disposizione (non me ne vengono in mente altri con una situazione simile); si può dire che il tutto si avvicina al lavoro di una catena di montaggio. Per questo motivo lo stile non deve essere ricercato, ma semplice, così da rendere il lavoro più facile e veloce, così da realizzare in tempi ristretti prodotti commerciali e d’intrattenimento.
Questo sono i libri di Sanderson e ciò non significa che sia un male. Ma non saranno mai, faccio un esempio, al livello di quelli di Guy Gavriel Kay, che ha uno stile che ha un che di poetico, oltre a una profondità e una sintesi che manca nei romanzi di Sanderson: Kay in un libro dice quello che altri dicono in tre o quattro.
Sinceramente, non credo che riuscirei a lavorare in questo modo, dato che vivo la scrittura in maniera differente e la ritengo qualcosa di diverso da questo modo di fare. Non sto dicendo che è sbagliato: semplicemente non lo sento qualcosa che fa per me e pertanto non voglio farlo, piuttosto preferisco fare altro. Si tratta del mio punto di vista, ma essere più imprenditore che scrittore non è qualcosa che vedo tanto positivo, forse è dovuto al fatto che l’imprenditoria, specie quella attuale, è qualcosa che ha poco rispetto per gli altri.
Queste disamine non tolgono il fatto che apprezzi i lavori di Sanderson e al momento abbia letto tutto quello che è stato tradotto in italiano; lo stile semplice e scorrevole non inficia sulla lettura e il fatto che non sia ricercato non mi fa abbandonare questo scrittore. Le storie che sono state scritte mi sono piaciute, alcune di più, altre di meno, benché c’è da dire che non si possono paragonare serie come Folgoluce o la prima trilogia dei Mistborn ai romanzi di Skyward: sono su livelli differenti.
Tuttavia c’è una cosa che personalmente ho notato: c’è un prima Sanderson e un dopo Sanderson, ovvero un Sanderson prima di essere conosciuto dal grande pubblico e un Sandserson dopo tale riconoscimento. Un Sanderson all’inizio aveva qualcosa di diverso da quello venuto con l’essere conosciuto dal grande pubblico e questo per me ha fatto perdere qualcosa allo scrittore; la creatività c’è sempre, ma si è smarrita una parte dello scrittore. Senza fare come Martin (della serie: aspetta e spera), preferirei meno pubblicazioni ma che abbiano quel qualcosa in più che c’era nei suoi primi lavori, e magari vorrei che si sia più attenti a certi aspetti e dettagli, che si cerchi meno d’includere il più pubblico possibile (si può dire che la storia dell’inclusività ha stancato? Si rifanno le fiabe, si rivedono i miti per metterli al passo coi tempi, si mettono le mani su D&D: invece di fare ciò, si cerchi di creare qualcosa di nuovo e valido, piuttosto che rovinare qualcosa che ha avuto un suo significato).
Viste le capacità di Sanderson, personalmente parlando, non accetto che in momenti critici di una storia il/la protagonista si perda in pensieri amorosi per chi gli/le piace, non importa se si tratta di uno ya (critica rivolta a Skyward e Gli Eliminatori); non accetto che ci siano personaggi che si mettano a parlare di peti sulle sedie o bisogni fatti nelle armature (cosa ancora più imperdonabile per me se si tratta di Folgoluce). Non m’importa se bisogna arrivare ai più giovani: parlare di peti e bisogni fisiologici fa schifo (purtroppo è una cosa non solo di Sanderson e dei libri, ma anche di altri generi, come le serie anime, a esempio Dragon Ball Daima, dove Goku fa la cacca, non si lava e puzza). Poi c’è modo e modo: se si parla di ciò in determinate situazioni (il degrado di una persona malata in certe condizioni fiische o mentali) può avere un senso, ma così per far divertire, per far ridere, no: non fa divertire, non fa ridere. Ribadisco: fa schifo. E da autori con le capacità di Sanderson mi aspetto di più e di meglio. Posso apprezzare le tipologie delle sue storie (in parte, se guardo le ultime uscite), ma queste cose non le accetto.
E parlando di ultime uscite, gli ultimi due romanzi delle serie Skyward raggiungono la sufficienza, se si è generosi. Soprattutto l’ultimo di questa serie mi ha abbastanza deluso: ha quegli elementi degli ya che non apprezzo. Si può dire che il dopo Sanderson è stato per lo più con lo sguardo rivolto allo ya, cosa che il Sanderson della prima trilogia Mistborn non era. E sinceramente si rimpiange il primo Sanderson; si spera che Brandon ritorni al modo di fare dell’inizio e ritrovi quello che ultimamente ha perso: uno scrittore come lui, con l’affermazione che ha, non ha bisogno di rivolgersi allo ya per avere un seguito, ma può puntare a creare qualcosa di più di qualità.

Il potere dell'informazione

No Gravatar

Suggerisco di vedere questo video di Sommobuta perché fa un’ottima disamina sul potere dell’informazione.

 

il potere della informazioneAvevo già parlato di una cosa simile all’interno di L’Ultimo Potere e anche se l’informazione non era tra i poteri da distruggere, perché senza gli altri non poteva esistere, l’informazione aveva avuto un ruolo importante per come si era ridotta l’umanità. Un potere, quello dell’informazione, ora determinante più che mai.

…Tu conosci la storia recente del nostro mondo, ma non sai tutto del passato. Adesso vedi il caos, ma un tempo c’erano ordine e schemi che regolavano ogni funzione di vita, rendendo tutto regolare e sotto controllo; almeno in apparenza. In realtà era un sistema malato e quanto ora vedi è il tumore che era in incubazione. Molti hanno contribuito a crearlo e molti hanno voluto non vederlo. Il risultato è stato che il tumore ha continuato a lavorare fino a rivelarsi nella sua totale virulenza. Fu a quel punto che qualcuno decise d’intervenire: gli organi infetti furono tolti, sostituiti con dei nuovi. Com’era naturale che fosse, andare al cuore della questione portò scompiglio.»
«Dopo il gioco, ora la lezione di chirurgia?»
«Il paragone tra il corpo umano e il mondo è pertinente, dato che praticamente sono la stessa cosa, solo vista più in grande» Maestro sorrise mestamente. «Se non fosse stato per una volontà che non aveva nulla d’umano, tutto sarebbe passato inosservato.»
«So già che dietro ai sistemi esistiti c’erano i Demoni: dove vuoi arrivare? Che gli uomini hanno perso il controllo del sistema creato e che gli si è rivoltato contro?»
«No: il sistema creato avrebbe continuato a esistere, andando avanti senza curarsi di nulla, sfruttando la gente e rendendola schiava. Se non fosse che, prima che i danni fossero irreparabili, sorse qualcuno a guidare il moto di rivolta per arrestare le macchine infernali create.»
“Perché ho l’impressione di aver già sentito questa storia?” Guerriero corrugò la fronte. «Stai parlando di un uomo?»
«Un tempo lo era stato, ma non è della sua natura che dobbiamo parlare, quanto che è stato l’inizio della liberazione dal giogo dei Demoni» Maestro sottolineò con forza l’ultima parte. «Il primo potere a cadere fu quello economico, seguito da quello politico e di conseguenza quello informativo.»
«L’informativo da che pezzo è rappresentato?» domandò Guerriero.
«Non ha una rappresentazione negli scacchi. È stato un mezzo usato per espandersi: senza la politica a crearlo e usarlo, esso ha smesso di esistere.»
«E così sono stati tolti di mezzo i detentori di potere.»
Maestro confermò le sue parole. «Dopo l’epurazione, i concetti di nazione, di popolo e di classe svanirono: le gerarchie furono spazzate via e ogni forma d’influenza d’uomini su altri uomini cessò di esistere. Le differenze furono appianate: fu un tornare agli albori della storia umana. Un reset necessario per attuare la salvezza e permettere agli uomini di tornare a vivere.»
«Dato che quella che conducevano non poteva essere considerata vita» aggiunse Guerriero ripensando alle persone incatenate ai macchinari.
«Erano condizionati nel modo di pensare, vestire, mangiare. Il pensiero, i desideri che avevano non nascevano dalla propria volontà, ma erano presi in prestito, imposti da altri. Erano divenuti greggi bovini, sballottati a destra e sinistra come più piaceva a chi era dietro al sistema. Per questo sono state eliminate le persone di potere e quello cui erano legati.»
«Non credo che molti abbiano ringraziato.»
Maestro lo fissò intensamente. «La gente nemmeno si è resa conto del dono ricevuto: non ha fatto altro che piangersi addosso perché il bel gioco si era rotto. È stata schiava troppo a lungo per apprezzare la libertà: la sua mente è stata talmente condizionata e imprigionata che è voluta ritornare nella condizione in cui è sempre stata. Se avesse saputo per tempo quello che si stava facendo, avrebbe ostacolato, anche ucciso, pur di difendere quelli che considerava privilegi. Adesso paga lo scotto per non aver vissuto secondo le proprie scelte e i propri desideri.»

L’Ultimo Potere.

Perché Goldrake U non funziona.

No Gravatar

Goldrake UGoldrake U è uno dei tanti reboot realizzati in questi ultimi tempi; più che un’azione nostalgica (anche se non manca), pare essere stata un’operazione commerciale nata dalla proposta di una casa di produzione saudita, che ha commissionato e prodotto la serie attraverso le giapponesi Dynamic Planning, detentrici dei diritti, e dello studio Gaina, che si è occupato della realizzazione vera e propria (1); se sia stato un successo o meno dal lato economico, non ho i dati per dirlo.
Quello che posso dire è che questo Goldrake U non è proprio il massimo, né sotto l’aspetto grafico, né sotto l’aspetto di personaggi e trama; nel mio caso non si può dire che si tratta di un giudizio negativo condizionato dal ricordo della storica serie, perché mi ricordo davvero pochissimo di essa: ho in mente alcune scene, ma pochissimo altro, al punto che per fare un confronto e vedere le differenze col reboot sono dovuto andare a leggere su Wikipedia la storia della prima serie (no, non avevo voglia di vedere l’originale con le sue settanta e passa puntate dove il copione era quasi sempre quello: arriva il mostro settimanale, quasi sempre uno per volta, Goldrake lo affronta e dopo una breve difficoltà lo sconfigge). Quindi non si può dire che il giudizio è dovuto alla memoria che avevo riguardo questo cartone animato (quindi niente mitizzazioni o che altro), ma è dovuto semplicemente al fatto che Goldrake U non è scritto bene; di positivo è che la trama non è dispersiva, è concentrata in poche puntate (tredici), forse troppo concentrata: magari qualche puntata in più sarebbe servita per sviluppare meglio certi aspetti. Altra cosa positiva, ma questo non dipende dall’anime, è che la Rai dopo tanti anni ripropone una serie anime su uno dei suoi canali (se non ricordo male, l’ultima serie proposta in prima serata fu L’attaccato dei giganti su Rai4 nel 2015/16; mi sembra che sempre in quell’anno sia stato trasmesso anche Fairy Tail, ma non era in prima serata).
Per il resto, dopo le prime puntate che riescono anche a prendere lo spettatore, il destino del pianeta Terra passa in secondo piano per far diventare la serie un romantic drama tra il principe Duke (Actarus) e la principessa Rubina e sua sorella Teronna.
Che altro menzionare?
La rivalità e l’invidia che Cazador Zeola Whiter ha nei confronti di Actarus, al punto da uccidere i genitori di Duke e far ricadere su di lui la colpa, facendolo passare per traditore; il tutto per essere riconosciuto come migliore e poter guidare Goldrake. Personaggio che dopo essere stato alleato per un po’ con i terrestri, avendogli paventato la possibilità di pilotare Goldrake, sparisce senza lascaire traccia.
L’upgrade di Mazinga che diventa quasi forte come Goldrake (in Giappone non era stata digerito molto bene che Alcor fosse la spalla di Actarus e quindi in questa nuova serie gli è stato dato un ruolo più importante).
Goldrake più che un robot sembra una divinità (e in effetti, in alcuni casi ci si riferisce a lui così) e, a parte qualche momento di difficoltà, non subisce danni. Su certi aspetti ricorda l’Eva di Neon Genesis Evangelion, reagendo allo stato emotivo del pilota e andando in berserk.
Perché, nonostante qualche buona cosa, Goldrake U, nonostante alcune cose positive, non funziona?
Un po’ perché il tempo in cui i robottoni affascinavano è passato e le nuove generazioni guardano altro (e ci si domanda quanti giovani l’abbiano visto, dato che preferiscono affidarsi alla rete). Un po’ perché non ci sono innovazioni. Ma soprattutto per la piattezza della trama (che ha un sussulto solo in un punto nelle ultime puntate) e dei personaggi, specie in Actarus, lontanissimo dalla sua prima versione, che ricalca da una parte il personaggio ultra buono e disponibile verso tutti, anche i nemici, dall’altra ricorda il complessato Shinji Ikari di Neon Genesis Evangelion. Se in più ci si mette che il finale è aperto e fa capire che la storia ha ancora degli aspetti da sviluppare, e che non c’è mai pathos, mai la sensazione di minaccia e pericolo per i protagonisti, si capisce perché non si può essere soddisfatti da questa serie.
Goldarke U è un prodotto penasato per adolescenti e i loro problemi amorosi, che non può soddisfare gli spettatori della prima ora e neppure gli spettatori più giovani, dato che ci sono prodotti migliori su questo tema; non funziona neppure come anime sui robot perché anche qui ci sono prodotti migliori, basti pensare a Neon Genesis Evangelion (se si esclude il finale), Fortezza Superdimensionale Macros, la prima serie di Gundam (la migliore a mio avviso) e Sfondamento dei cieli Gurren Lagann.
Peccato, si poteva fare molto meglio.

1.https://movieplayer.it/articoli/goldrake-u-finale-cronaca-fenomeno-mancato_34567/

Dungeons & Dragons è stato rovinato

No Gravatar

Il manuale del dungeon master di Advanced Dungeons & DragonsDungeons & Dragons, come film, libri, videogiochi e quant’altro, è stato colpito dal politicamente corretto e dal woke: uno dei cambiamenti fatto con i nuovi manuali è stato sostituire il termine razze (elfi, nani, orchi, umani) con specie. Di per sé usare una terminologia al posto di un’altra non cambia molto, anzi non cambia niente se poi la sostanza è sempre quella; il problema è la mentalità che sta dietro tutto ciò e che spinge per cambiare il modo di giocare. Già, perché se si pensa che alcuni dei contenuti del gioco possono riflettere pregiudizi etnici, razziali e di genere, allora c’è un grosso problema. E il problema non è certo nel gioco che non ha elementi del genere (lo so per esperienza, dato che conosco le edizioni passate, soprattutto la AD&D), ma nella mente di certe persone che vedono il “male” dove male non c’è: il male non è nel gioco, il male è nelle persone e nel come fanno e vivono le cose.
Non c’era bisogno di fare cambiamenti inclusivi; non c’era bisogno di creare tanti problemi. Se a un giocatore non piace l’avventura creata dal master, smette di gicoare, ne cerca un altro; una volta si faceva così. Il voler accontentare tutti, voler mettere tutti d’accordo, non solo è praticamente impossibile, ma presenta due grosse storture: uno è imporre una mentalità unica, due è appiattire e cancellare le diversità. Altro che inclusività.
Il nuovo Manuale del Dungeon Master consiglia alla persona che narra la storia e conduce la campagna di mettersi d’accordo con i giocatori per fare una lista di situazioni e temi con cui non si sentono a loro agio, come per esempio le violenze sessuali o l’uso di droghe. Si consiglia anche di individuare un segnale condiviso che comunichi se uno dei partecipanti si sente personalmente a disagio con qualcosa che sta succedendo nel gioco, in modo che il master possa eventualmente deviare la storia in un’altra direzione (1).
Con questa mentalità si finisce con l’arrivare a non fare più niente perché non si sa mai che si vada a urtare la sensibilità di qualcuno. Allora tanti saluti all’ambientazione maledetta di Ravenloft, addio alle cacce a mostri e bestie magiche perché non ci sia qualche animalista che rimane sconvolto dalla cosa; niente più guerre con orchi e goblin perché possono rappresentare tribù un tempo considerate violente e incivili: bisogna bandirli i pregiudizi, no?
Diavoli e demoni? Non bisogna più rappresentarli come il male da combattere e sconfiggere, ma figure che sono state incomprese ed emarginate per scelte sbagliate fatte, che vanno capite e accettate.
Il nobile prepotente, dispotico e corrotto? No, la nobiltà deve essere vista come buona, la guida dei popoli: basta col mostrare sempre che il ricco è meschino, questo è sintomo d’invidia repressa, sentimento negativo che nuoce al gioco.
Addio paladini e cavalieri che salvano principesse da draghi malvagi, perché storie del genere non solo infastidisco gli animalisti, ma anche le donne perché vengono mostrate come deboli e bisognose di essere salvate dagli uomini: abbasso il patriarcato!
Quello che non si capisce è che si sta parlando di un gioco di fantasia, non di realtà: si fanno tante storie per un gioco, poi nel reale si lascia che le persone inneggino pubblicamente a fascimo e nazismo con saluti, simboli e parole come se niente fosse. Se seguiamo la linea dettata da questo nuovo corso, allora bisogna riscrivere o bandire Il Signore degli Anelli di Tolkien, visto come aveva rappresentato gli orchi (e tanti saluti a tutti i messaggi che il romanzo e l’epica dello scrittore hanno saputo dare). Questo solo per mostrare a che livello di stortura, ma anche d’ipocrisia, si è arrivati.
Fortunatamente, i manuali possono sì dare delle regole e linee guida da seguire, ma è il dungeon master che decide la storia da realizzare e come vuole portarla avanti, se usare o meno determiante regole: è sempre stata così. Logicamente se fa una buona storia sarà seguito, altrimenti non andrà avanti molto. Adattando al constesto attuale una battuta di sommobuta, esistono solo due categorie di storie: quelle belle e quelle brutte. E da entrambe c’è da imparare qualcosa. Il bello delle storie è proprio questo, senza contare che sono proprio le tante sfaccettature che possono saltare fuori dall’immaginazione delle persone che le rendono meritevoli di essere raccontate o vissute (in questo caso va inteso naturalmente con l’immaginazione, non realmente).
Alla fine, cose come l’inclusività e il politcamente corretto lasciano il tempo che trovano, ma va notato che si stanno mettendo d’impegno per cercare di rovinare tutto, anche se viene fatto passare come un adeguamento dei tempi (vedere ciò che hanno combianato con favole come Biancaneve e i sette nani, La bella addormentata).

1. https://www.ilpost.it/2024/12/31/nuovi-manuali-dnd-2024/

Il Signore degli Anelli - La guerra dei Rohirrim

No Gravatar

Il Signore degli Anelli - La guerra dei RohirrimChe cosa dire di Il Signore degli Anelli – La guerra dei Rohirrim?
Se ci si aspetta un capolavoro oppure qualcosa che sia al livello della trilogia di Peter Jackson su Il Signore degli Anelli, allora è meglio prepararsi a una delusione.
Se invece non si hanno grandi aspettative, allora si può vedere qualcosa di discreto, ma niente di eccezionale.
Partiamo dagli aspetti positivi: belli i paesaggi, buone le animazioni senza essere tuttavia straordinarie. Lo spettatore, se ha già visto la trilogia di Jakson, si sentirà a casa, dato che i disegni riproducono quanto già visto in Le Due Torri: Edoras, il Fosso di Helm. Nulla di strano, dato che la società di produzione di questo film, la New Line Cinema, è la stessa di Il Signore degli Anelli.
Purtroppo, avere in comune la stessa casa di produzione, la stessa ambientazione, la stessa fotografia, non hanno permesso di rendere la stessa atmosfera, la stessa epicità viste in precedenza; si può dire che in questo caso la magia non ha funzionato (se mai c’è stata magia in Il Signore degli Anelli – La guerra dei Rohirrim). Praticamente, le cose positive finiscono con la grafica, dato che né la storia, né i personaggi riescono a fare presa (salvo qualchge guizzo), anzi per buona parte fanno un po’ cascare le braccia. Soprattutto quello che delude è che si sente che questa non è una storia di Tolkien, manca il suo spirito; pare che qualcuno abbia tentato di copiarlo cercando però di adattarlo ai giorni nostri e ciò lo si vede soprattutto nella scelta di far ricadere tutta l’attenzione sulla protagonista femminile, Hera, figlia di Helm Mandimartello: forte, indipendente, risoluta, emancipata, che non ha bisogno di uomini per essere qualcuno. Uno spirito libero capace di risolvere tutto, che capisce tutto in anticipo, un po’ come piace tanto alla società attuale mostrare (almeno in apparenza).
Questo però non è Tolkien e non perché Tolkien non ritenesse le donne importanti o all’altezza, tutt’altro: basta vedere quello che ha fatto con Luthien. Quindi non è la scelta di puntare su una donna dallo spirito forte, ma il come è stato fatto. Certo non è una novità questo modo di fare del grande schermo: già era stata fatta una rilettura di Arwen in Il Signore degli Anelli di Jackson e anche con Tauriel nella versione cinematografica di Lo Hobbit si era fatto qualcosa di analogo (personaggio questo creato appositamente per il grande schermo ma non presente nel romanzo). Il problema è che negli altri film basati sul mondo di Tolkien Arwen e Tauriel erano una parte della storia (e soprattutto avevano avuto una caratterizzazione), mentre in Il Signore degli Anelli – La guerra dei Rohirrim Hera è tutta la storia e questo non basta a rendere la pellicola di buon livello (e se a questo si aggiunge che manca la caratterizzazione si capisce perché non riesca a fare presa sullo spettatore). Prima che a qualcuno possa venire in mente che la critica è dovuta a maschilismo, patriarcato (cose che vengono tirate fuori appena si critica una figura femminile), beh, nel mio caso ci si sbaglia: ho amato personaggi femminili in storie fantastiche come Wren del mondo di Shannara di Brooks e Vin del mondo dei Mistborn di Sanderson perché non solo erano donne forti e di carattere (ma anche sensibili) ma erano figure di spessore, sfaccettate, approfondite cosa che Hera non è: di lei si sa poco e praticamente è nullo l’approfondimento fatto sul suo conto.
Dopo i personaggi, l’altro aspetto negativo della pellicola è la storia, che ha poco di nuovo da dare e non è sviluppata in modo adeguato, rendendo Il Signore degli Anelli – La guerra dei Rohirrim una bella confezione e poco altro: sembra di guardare una sbiadita copia di Le Due Torri, dato che praticamente ripropone un copione simile.
La vita a Rohan scorre tranquilla, anche se ci sono dei dissidi, soprattutto tra il re Helm e uno dei suoi, Freca, Signore del Mark Occidentale, un opportunista che per i suoi fini vuole far sposare suo figlio Wulf con Hera. Naturalmente i modi tronfi e sprezzanti di Freca fanno adirare Helm, che lo sfida a un confronto tra uomini fuori dalle sale del re; Freca si dimostra tutto fumo e niente arrosto e finisce al tappeto al primo pugno di Helm. Purtroppo, ci lascia la pelle e suo figlio Wulf giura vendetta: dopo essere stato bandito dal regno, raduna un esercito per farla pagare a Helm ma anche a Hera, che ha rifiutato la sua mano.
Già qui con la caratterizzazione dei personaggi non ci siamo, che risulta stereotipata. Helm è forte ma come re non è il massimo: non si accorge che uno dei suoi Signori è un traditore quando anche un bambino vedendolo lo capirebbe (anche non avendo letto o visto Il Signore degli Anelli, dato che le somiglianze con Grima Vermilinguo non sono poche) e non ascolta i saggi suggerimenti della figlia e del nipote riguardo al nemico che sta arrivando, entrambi zittiti senza mezzi termini.
Wulf inizialmente sembra avere una parvenza di carattere, ma è solo una parvenza: a parte l’essere mosso dalla vendetta, non ha altro. Non ascolta ragioni, non ascolta consigli, non ha piani a parte eliminare i figli di Helm e farli soffrire (si potrebbe dire che soffre di complesso d’inferiorità, ma si sarebbe un pochino generosi nel cercare di trovare spessore al personaggio). Inoltre, oltre a essere un opportunista, è pure codardo; insomma, ha tutti i requisiti per incarnare uno dei classici cattivi.
Per metà del film, la storia va avanti pesantemente, senza scossoni, prevedibile e anche noiosa. Wulf arriva col suo esercito, Helm lo affronta, subisce un tradimento, si deve ritirare perché le forze nemiche lo sovrastano (Hera lo aveva avvertito ma, ehi, lui è Helm Mandimartello, cosa vuoi che possano farmi i nemici?) ma non ce la farebbe se non fosse per la figlia Hera che ha previsto il peggio e ha messo al sicuro la gente di Rohan in quello che diverrà il Fosso di Helm. Wulf uccide i due fratelli di Hera, Helm viene ferito e tutto ricade sulle spalle di Hera, che risulterà più assennata del padre (ma ci voleva poco).
Poi, dopo il ferimento di Helm, le cose si fanno un poco più interessanti: le ferite di Helm guariscono, ma la sua mente appare spezzata, dato che rimane sempre a letto. Poi una notte sparisce e gli assedianti cominciano a morire uno a uno: tra le loro fila serpeggia il terrore e si comincia a vociferare che sia lo spettro di Helm a ucciderli. Hera, cercando il padre, trova un passaggio segreto, arrivando tra le montagne dove degli orchi rovistano tra i cadaveri in cerca di anelli da portare a Mordor (allacciamento con quello che avverrà in Il Signore degli Anelli, dato che qui siamo duecento anni prima della storia di Frodo). Verrà salvata dal padre, che finalmente ha capito gli errori fatti con lei e la salverà riportandola nella fortezza, sacrificandosi (la sua morte è forse uno dei pochi momenti con un minimo di epicità).
Quando tutto sembra perduto, Hera salverà la situazione: sconfiggerà e ucciderà Wulf in duello, e farà arrivare in soccorso della sua gente il cugino (mandato a chiamare con una grande aquila), che farà il suo ingresso come Gandalf in Le Due Torri.
Il popolo di Rohan è salvo, Hera lascia il trono al cugino e potrà continuare a essere libera di fare quello che vuole.
Purtroppo, Il Signore degli Anelli – La guerra dei Rohirrim non funziona a dovere e l’aver scelto Kenji Kamiyama non ha aiutato (è stato allievo di Mamoru Oshii, ma non sembra aver appreso molto da lui vedendo questo film); forse, se si fosse puntato su un regista con meno impronta anime si sarebbe ottenuto un risultato diverso. Forse, se non si fossero fatti certi cambiamenti e “adattamenti” si sarebbe provato meno fastidio vedendo questo film. Certo, c’è qualche guizzo quando la storia presenta dei collegamenti con quella principale del mondo di Tolkien, ma pochi secondi d’interesse non possono ribaltare il giudizio su una pellicola che di tolkieniano ha davvero poco (se non nulla). Un’occasione sprecata.

Robocop

No Gravatar
Robocop

Version 1.0.0

Robocop, dopo Terminator, è una delle figure robotiche più conosciute e iconiche degli anni 80. C’è una grossa differenza tra i due: il primo esteriormente è un robot in tutto e per tutto ma ha una mente umana con i corrispettivi sentimenti, il secondo invece sembra dall’aspetto un essere umano come tanti ma sotto la pelle è completamente una macchina. Piccola curiosità: per interpretare il ruolo di Robocop inizialmente si era pensato ad Arnold Schwarzenegger ma a causa della sua massa muscolare fu scartato per non dover rifare il costume iniziale del cyborg.
Premessa importante: il successo di questo personaggio e di tutto il merchandise che ne è conseguito (serie animate, giocattoli, videogiochi) è dovuto al primo film della serie, quello del 1987 diretto da Paul Verhoeven. La storia è ambientata in un futuro prossimo in una Detroit dominata da crimine, violenza, corruzione e la multinazionale OCP; proprio quest’ultima prende le redini del dipartimento di polizia con lo scopo d’immettere il robot di sua progettazione ED-209 per eliminare la delinquenza della vecchia Detroit, così da poterla demolire e costruire l’innovativa Delta City, una megalopoli utopistica. Le cose però non vanno come sperato e il robot, causa un malfunzionamento durante una dimostrazione, uccide trivellando di colpi di mitragliatrice un consigliere comunale. Nasce così una feroce competizione interna alla OCP per trovare una soluzione: a Dick Jones, progettista di ED-209, si contrappone Bob Morton, che propone il suo progetto cyborg, Robocop.
Proprio in questo periodo Alex Murphy, poliziotto con un forte senso del dovere, inizia a lavorare con la nuova collega Anne Lewis. Purtroppo, il primo giorno di lavoro insieme è nefasto: i due si scontrano con la banda di uno dei più potenti e feroci malviventi della vecchia Detroit. Mentre Anne riesce a salvarsi, Murphy viene massacrato brutalmente a colpi di fucile. Inutili sono i soccorsi: Murphy muore sotto i ferri. Ciò che resta del suo corpo viene preso dalla OCP (essendo che la polizia è gestita dalla miltinazionale, ora è di sua proprietà) e Bob Morton può attuare il suo progetto cyborg: le parti mutilate (praticamente tutte, si salva solo il volto, parte del cervello e poco altro) sono sostituite con parti meccaniche rivestite di una corazza di titanio e kevlar. Grazie a un computer integrato nel cervello, oltre ad avere una mira precisa al millimetro, può registrare audio e video da usare come prove contro i criminali. Nasce così Robocop e le sue operazioni sono un successo tale che Bob Morton viene nominato vicepresidente della OCP.
La cosa non piace a Dick Jones che farà uccidere Morton da Boddicker, il supercriminale al suo soldo, nonché assassino di Murphy (è stato lui a dargli il colpo finale in testa).
Quello che però nessuno ha preso in considerazione è che nel cervello di Murphy siano rimasti i ricordi della sua vita precedente e che stiano lentamente ritornando alla luce. Anne Lewis è l’unica che si accorge che Robocop altri non è che Murphy, riconoscendo il gesto che il cyborg fa con la pistola quando la deve rinfoderare e che era tipico del suo collega. Murphy/Robocop arresta uno dei suoi assassini e pronuncia (di nuovo) una frase divenuta iconica nel mondo del cinema: “Vivo o morto tu verrai con me.” Poco dopo distrugge un gruppo criminale che produce droga e lì arresta Boddicker, che per avere salva la vita gli rivela di lavorare per Dick Jones.
Murphy si reca alla OCP per arrestare Jones, ma una direttiva primaria del pc collegato al suo cervello gli vieta di muoversi o fare del male a chi lavora per la multinazionale; Jones gli manda contro prima un ED-209 e poi un’elite della SWAT; Murphy, aiutato da Lewis, riesce a scappare, rifugiandosi nella vecchia acciaieria dove è stato ucciso e dove chiuderà una volta per tutti i conti con la banda dei suoi assassini. Ma la sua giustizia non finirà qui: torna alla OCP, irrompendo durante una riunione dei dirigenti, mostra il video dove Jones confessa i suoi crimini ed eliminandolo dopo che è stato licenziato e aveva preso come ostaggio il presidente.
La violenza senza tante censure, l’allegoria, la critica e la satira feroce di Verhoeven, unita a una società crudele, cinica, capitalista e senza rispetto, resero Robocop un successo, oltre a farlo divenire un cult per gli amanti del genere. Robocop però non era solo un film d’azione, è l’uomo che vince sulla macchina, è il mantenere la sua umanità anche quando di umano c’è rimasto poco, specie all’interno di una società così cupa e opportunista. Weller, che ha interpretato Murphy/Robocop, ha fatto un buon lavoro con questo personaggio, e Verhoeven ha dato il suo classico tocco, rendendo la pellicola un piccolo must da vedere.
Dopo il successo avuto con Robocop, è stato quasi giocoforza fare un seguito: Peter Weller e Nancy Allen (Anne Lewis) sono stati confermati nel cast, così come Dan O’Herlihy nel ruolo del presidente della OCP, mentre alla regia non c’è più Paul Verhoeven, sostituito da Irvin Kershner. Va detto subito che Robocop 2 (1990) non ha la stessa forza del predecessore, tuttavia ha degli aspetti apprezzabili. La città di Detroit è sempre in preda a violenza, corruzione ed è sempre più nelle mani della OCP che vuole portare avanti il progetto Delta City, oltre a dare il via alla creazione di un nuovo Robocop (finora i tentativi non sono andati a buon fine, dato che i soggetti scelti rigettano la loro nuova condizione); in aggiunta a tutto ciò, nelle strade circola una nuova droga, la Nuke, messa in circolo da Cain, un nuovo pericoloso criminale. Sarà proprio Cain, ridotto in fin di vita da uno scontro con Robocop, il soggetto per la realizzazione del nuovo cyborg, ma le cose andranno storte, dato che Robocop II, tenuto sotto controllo tramite cariche di Nuke, impazzisce alla presentazione di un nuovo grattacielo e fa una strage. Solo l’intervento di Robocop potrà fermarlo.
Interessante il contrasto tra Murphy che ricorda e ama ancora la sua famiglia e il sapere che non potrà più stare con loro (bello il dialogo che ha con la moglie), benchè non molto approfondito; molto bello lo scontro finale tra i due cyborg, che sicuramnte rende giustizia a quello che non si è visto nel primo Robocop (il modo in cui Murphy elimina ED-209 è sbrigativo, ma ha un suo senso e rappresenta in un qualche modo Verhoeven ). Di certo manca la vena pungente di Verhoeven, ma Robocop 2 svolge il suo lavoro d’intrattenimento, dando anche qualche buona scena (come quella di Murphy che rimane vicino al più giovane membro della banda di Cain in punto di morte).
Sinceramente, ci si poteva fermare qui. E invece, tre anni più tardi (1993), ecco Robocop 3. Robert John Burke prende il posto di Weller mentre Nancy Allen rimane (anche se il suo personaggio non resterà a lungo); di idee ormai se ne è a corto e si vede. Oltre alla OCP, ora a Detroit c’è la multinazionale giapponese Kanemitsu Superprodotti per realizzare il progetto Delta City; al loro soldo c’è un gruppo di mercenari che con la forza sfratta le persone dalle loro case. I cittadini si ribellano e formano bande di resistenza. Dapprima Robocop esegue gli ordini della OCP di dare la caccia ai ribelli, ma dopo la morte di Lewis, si unisce a loro. Per ravvivare una storia ormai povera di spunti, vengono immesso androidi samurai e Robocop viene fatto volare.
Passano ventuno anni e si arriva così a fare un remake del primo film e devo essere sincero, mi ha detto meno della terza pellicola, anzi, mi ricordo davvero pochissimo di trama, ho in mente solo alcune scene e il finale; c’è la solita corruzione, la multinazionale che fa i suoi interessi, ma niente di nuovo e soprattutto niente cinismo e satira, che tanto bene avevano fatto al primo film.
Quindi, meglio lasciar perdere gli ultimi due film e vedere il primo e magari anche il secondo se proprio si vuole, che tutto sommato non è da buttare via.

La serie cinematografica di Alien

No Gravatar

Non si poteva non affrontare la saga di Alien dopo quella di Predator, dato che si sta parlando di due delle razze aliene più famose in campo cinematografico fantascientifico (almeno se si resta nell’ambito orrorifico, perché altrimenti bisognerebbe citare anche ET).
Cominciamo con il primo, iconico Alien (1979) di Ridley Scott, quello che ha fatto conoscere lo xenomorfo e che ha lanciato la carriera di Sigourney Weaver interpretando il ruolo di Ellen Ripley.
In un futuro non molto lontano (2122) l’astronave da trasporto Nostromo giunge sul satellite naturale di un pianeta sconosciuto dopo aver ricevuto un misterioso segnale di soccorso. Lì troveranno un relitto extraterrestre e si scoprirà che il segnale di soccorso è in realtà uno di allerta, ma purtroppo ormai è troppo tardi: uno dei membri dell’equipaggio viene assilito da un parassita alieno uscito da un uovo, che gli si avvinghia al volto. Ogni tentativo di liberarlo è inutile e l’uomo finisce in uno stato comatoso. Si riprende quanto il parassito muore e si stacca da lui; tutto sembra tornare alla normalità, ma dal petto dell’uomo, colto improvvisamente da convulsioni, esce fuori una creatura aliena, che in brevissimo tempo crescerà e si svilupperà, cominciando a cacciare e uccidere tutti i membri dell’equipaggio. Solo Ripley si salverà, riuscendo alla fine a eliminare il mostro e tornare verso la Terra con la navetta di salvataggio in stato di ibernazione.
Ripley armata di esoscheletro elevatore da caricoSi arriva così ad Alien – Scontro finale (1986), il film che ho preferito della serie: alla regia c’è James Cameron che dà un’impronta da “arrivano i marines” e in effetti è proprio così. Dopo più di cinquant’anni la navetta di Ripley viene raccolta per caso e la donna scopre che non solo è ritenuta responsabile della distruzione della Nostromo (con relativa sospensione della sua licenza di volo), ma che il planetoide dove ha incontrato l’alieno è stato terraformato e colonizzato; naturalmente nessuno crede alla storia dell’alieno. Almeno fino a quando i contatti con la colonia cessano improvvisamente; a quel punto la storia di Ripley comincia a essere presa in considerazione, ma la donna rifiuta di unirsi alla spedizione di soccorso. Tuttavia, stanca dei continui incubi con l’alieno protagonista e decisa ad affrontare le sue paure, accetta di unirsi alla squadra di marines inviata a indagare (iconica la battuta tradotta in italiano “qualcuno ha detto “salviamo i coloni“, lei ha capito “vi diamo i coglioni” e si è arruolata subito“); assieme a loro ci sono anche un rappresentante della compagnia per cui lavorava Ripley e un androide, nuovo modello di quello che già era con la donna nel precedente viaggio e che aveva creato problemi. Arrivati sul planetoide, trovano la struttura disabitata e in un laboratorio, tenuti sotto vetro, i famosi parassiti alieni; solo una bambina è riuscita a sfuggire al triste destino di tutte le altre persone: si è dinanzi all’inizio della fine. Gli xenomorfi decimano i marines in un’imboscata, sopravvivono solo una manciata di essi, l’androide, il rappresentante della compagnia e la bambina da poco salvata. Privati della navetta di sbarco che li avrebbe riportati sull’astronave, l’esiguo gruppo si trova bloccato all’interno della struttura e Ripley scopre che il rappresentante della compagnia ha mentito: aveva mandato i coloni inconsapevoli della presenza delle uova e voleva trafugare due xenomorfi adulti per usarli come armi biologiche. Non bastassero gli alieni che gli danno la caccia e r tradimenti interni, il reattore della struttura sta per implodere, scatenando così una reazione nucleare. Mentre l’androide si reca alla torre di trasmissione per riallineare la parabola e chiamare la seconda navetta dell’astronave, il gruppo cerca di resistere all’assalto degli alieni. Solo Ripley, un marine e la bambina sopravvivono, ma quest’ultima viene rapita da uno xenomorfo; lasciato il marine ferito alle cure dell’androide sopraggiunto con la navetta, Ripley si arma con tutto quello che ha a disposizione e scende nelle profondità della struttura, dove c’è il covo degli alieni con le loro uova e naturalmente la gigantesca regina. Ripley distrugge tutto e riesce a raggiungere la navetta che li riporta all’astronave. Sembra tutto passato ma, sorpresa, la regina è riuscita a seguirli salendo sulla navetta; col marine fuori combattimento, l’androide troncato in due dalla regina, l’unica che può affrontare la minaccia è Ripley: armata di esoscheletro elevatore da carico, affronta la regina in uno degli scontri finali più iconici dei film di fantascienza (un altro dello stesso impatto emotivo che mi viene in mente è quello tra Luke Skywalker e Dart Fener in Il ritorno dello Jedi anche se c’è da dire che pure quello in L’impero colpisce ancora è allo stesso livello; sì lo so, non c’entra niente ma serve per rendere l’idea del livello dello scontro). Sconfitta la regina (come nel primo film l’alieno viene gettato fuori dall’astronave), Ripley si iberana con gli altri per rientrare sulla Terra.
Per me Alien poteva finire con questi due film, ma naturalmente il botteghino e i fan l’hanno avuta vinta sul buon senso e ci si è dovuti sorbire Alien³ (1992) e tutti gli altri seguiti. Ma se gli altri seguiti li ho visti sopportandoli ben sapendo che non erano all’altezza dei primi due, Alien³ è stato il film che mi ha fatto lanciare un bel WTF. Causa cortocircuito dell’astronave che la sta riportando a casa, Ripley e i suoi compagni in ipersonno vengono espulsi con un modulo di salvataggio e finiscono su una colonia penale; sopravvive solo Ripley, mentre tutti i suoi compagni muoiono. Questa è stata a mio avviso una delle scelte di sceneggiattura peggiori che potessero essere fatte e perciò Alien³ è il film che meno ho apprezzato della serie, ricoscendo la pur sembra buona prova data dalla Weaver. Si scoprirà che da un uovo deposto dalla regina sull’astronave (ma non aveva perso il condotto ovopositore strappandoselo sulla struttura per inseguire Ripley e la bambina prima dello scontro finale?) era nato uno xenomorfo che aveva causato il cortocircuito motivo dell’incidente alla nave; si scoprirà anche che la compagnia sapeva tutto quello che accadeva sulla nave, che con del personale arriva sulla colonia penale per ottenere lo xenomorfo e usarlo per i suoi fini. Come da copione, c’è la solita fuga disperata dall’alieno feroce, quasi tutti muoiono, questa volta pure Ripley, che si sacrifica gettandosi nel metallo fuso (alla Terminator 2) per far sì che l’embrione alieno che porta dentro di sé non finisca nelle mani della compagnia. Il finale di per sé non è stato malvagio benché ricordasse tanto quello di Terminator 2, ma la scelta fatta all’inizio mi ha indispettito così tanto da farmi giudicare la pellicola come meritevole di bocciatura totale.
Naturalmente dopo una morte non può che esserci che una resurrezione, almeno così insegna il cinema perché the show must go on e quindi nel 1997 arriva Alien – La clonazione: il titolo rivela già praticamente tutto. Dopo duecento anni dai fatti di Alien³, Ripley viene clonata dopo vari tentativi per recuperare l’embrione della regina xenomorfa che portava nel corpo e rinasce potenziata, divenendo praticamente un super essere (domanda: perché aspettare due secoli per far rinascere la protagonista se si voleva così fortemente l’embrione alieno?). Non solo: recupera anche le memoria della Ripley originaria, al punto da essere quasi una reincarnazione. Non sto a dilungarmi sulla trama perché il copione già lo si conosce: saltano fuori i famosi alieni, c’è la solita strage di umani, Ripley è l’eroina del film. Vengono messe alcune novità (la regina aliena che oltre a deporre uova può partorire, l’alien bianco), ma non c’è la stessa atmosfera, la stessa adrenalina dei primi due film; meglio del suo precedessore ma ci voleva davvero poco.
Passano alcuni anni e si arriva ai due Alien vs Predator, di cui ho già parlato nel precedente articolo.
Per ridare vita al franchise, Ridley Scott torna alla regia nel 2012 e nel 2017 con Prometheus e Alien: Covenant. Sigourney Weaver non fa parte del cast. Devo essere sincero: ho visto questi due film solo una volta e mi ricordo davvero poco, ma una cosa mi ricordo bene: non mi hanno dato niente, al punto da pensare che Ridley Scott faceva meglio a non averli girati.
Quest’anno è uscito Alien: Romulus ma, dati i precedenti, non l’ho visto; forse lo recupererò se farà un passaggio in televisione.
Consiglio finale? Da vedere sicuramente i primi due film, il resto è solamente il ripetersi di un copione già visto e conosciuto. E alle volte è un ripetersi pure mediocre (vedasi terzo film).