Martedì 17 giugno la Virtus Bologna ha vinto il suo 17° scudetto. Si potrebbe parlare di come sia stato uno scudetto inaspettato, visto l’anno pieno di difficoltà sia a livello societario (con l’instablità dovuta al non sapere nelle mani di chi sarebbe stato il club) sia a livello di risultati sul campo (un’Eurolega deludente che ha portato al cambio d’allenatore in panchina). Si potrebbe parlare di una squadra che sotto la gestione Ivanovic ha cambiato pelle, migliorando nettamente in difesa, divenendo una compagine più solida e quadrata, perdendo quella schizofrenia che le faceva avere dei blackout di interi quarti capaci di farle dilapidare vantaggi anche superiori ai venti punti. Si potrebbe parlare di una Virtus Bologna capace di saltare fuori dai momenti più difficili come nei quarti di finale con Venezia, vincendo in rimonta in gara 5 dopo essere stata sotto di 9 a quattro minuti dalla fine, di vincere nelle semifinali due volte di fila in casa contro Milano (dove negli ultimi tre anni aveva sempre perso nei playoff) dopo aver perso gara 2 in casa di diciannove punti, e di vincere una gara tiratissima in gara uno nelle finali contro Brescia che ha dato il meglio di sè.
Ma più della vittoria finale, che fa sicuramente piacere, va ricordato come sia i giocatori di Brescia, sia i suoi tifosi, abbiano applaudito la Virtus Bologna nonostante la sconfitta (cosa già fatta dall’Inter nella finale di Champions contro il PSG), dando esempio di sportività. Soprattutto va ricordato come i pensieri sia dei giocatori sia dei tifosi della Virtus Bologna siano andati soprattutto ad Achille Pollonara, giocatore delle V Nere, prima colpito da un tumore e poi da leucemia mieloide riscontrata durante le semifinali scudetto.
Così dovrebbe essere lo sport, perché ci sono cose più importanti di una vittoria o un trofeo.
Il referendum dell’8 e 9 giugno è stata una sconfitta dei lavoratori. Una sconfitta che si sono cercata e creata con le proprie mani, perché in tanti, troppi, non sono andati a votare. Un grosso errore quello di non presentarsi alle urne perché si aveva la possibilità di cambiare leggi ingiuste, leggi che favoriscono datori di lavoro e che naturalmente vanno a influire in negativo sulle condizioni dei lavoratori. Il referendum è uno dei pochi mezzi che le persone hanno a disposizione per far sentire la loro voce, per poter dire cosa ne pensano di temi che li toccano diversamente, e per questo va sfruttato. Purtroppo così non è stato ed è qualcosa che oltre a far molto riflettere su cosa sono diventati gli italiani, fa molto arrabbiare; è comprensibile che si decida di non andare a votare alle politiche perché si ha a che fare con una classe politica mediocre, dove, se si va a votere, si cerca di votare il meno peggio, ma non votare a un referendum su questioni lavorative che toccano praticamente una gran fetta della popolazione lavorativa è qualcosa di veramente stupido. Quello che soprattutto fa arrabbiare è che si sentono tanti lamentarsi del lavoro e delle loro condizioni e poi, avendo una possibilità di cambiare qualcosa col referendum, non la si sfrutta. E non la si sfrutta per motivi stupidi: si sono sentiti tanti dire che non sarebbero andati a votare perché dovevano andare al mare, perché non si poteva rinunciare a una domenica in spiaggia per rilassarsi e divertirsi. A parte che l’estate deve ancora cominciare e quindi c’è tanto tempo per andare al mare, ergo per una volta si poteva rimandare perché il mondo non finisce; a quanto pare però per gli italiani ferie e svago sono sacri e hanno la priorità su tutto, piuttosto si salta qualche pasto, ma tempo e soldi per ferie si trovano sempre (ci si pongono delle domande però a questo punto: chi è al potere ha scelto le date 8 e 9 giugno contando proprio su questo, non volendo rischiare che i quesiti passassero? Non si poteva scegliere un periodo differente, dove l’affluenza poteva essere maggiore, come a esempio marzo o novembre?)
Cosa succede però se arriva il momento che non si riuscirà più ad andarci perché le condizioni di lavoro sono così peggiorate che non si avranno più modo e mezzi per andarci?
Si pensa all’immediato, al tornaconto del subito, ma bisognerebbe avere la lungimiranza anche di quello che viene dopo, bisognerebbe pensare un poco al futuro sia proprio sia quello di chi verrà dopo (figli). Invece non c’è visione di futuro, perché a tanti non importa, perché tanti si sono rassegnati e convinti che non si può fare nulla per cambiare lo stato delle cose, ergo, meglio divertirsi finché si può (in pochi ricordano le parole di Thomas Jefferson: “I popoli non dovrebbero avere paura dei propri governi, ma sono i governi che devono aver paura dei propri popoli.”).
Facendo fallire il referendum non solo si è persa un’opportunità per migliorare la propria condizione lavorativa, ma si è dato l’assist a un governo di destra che appoggia gli imprenditori (come sempre hanno fatto i governi di destra e come ha fatto pure Renzi, che non era affatto di sinistra ma un vero e proprio cavallo di Troia della destra asservito ai soldi e agli imprenditori) che così può vantarsi e dire che la maggior parte degli italiani è dalla loro parte, che appoggia le sue politiche del lavoro e condivide in toto il suo modus operandi, dandogli così ancora maggior potere e libertà d’azione. Un governo che ha spinto con forza sull’astensionismo, facendo diventare la sconfitta dei lavoratori una sua vittoria, vantandosi ed esaltandosi di questo fatto, dando l’ennesima dimostrazione di come considera la democrazia e di come la stia mettendo a rischio.
Menefreghismo, lassismo, rassegnazione, egoismo: le ragioni di questo fallimento sono tante. Il termine più adatto per definire tutti gli italiani che non sono andati a votare è ben usata in una famosa canzone dei Green Day (però si usino i termini italian e Italia per rendere il quadro più chiaro e pertinente).
P.s.: in diversi elementi del governo hanno esortato a non andare ai seggi. E se si seguisse lo stesso consiglio quando si dovrà andare a votarli?
Lo sport dovrebbe essere una festa, momenti per divertirsi e gioire, soprattutto quando arrivano vittorie importanti, come successo col Bologna, che è tornato ad alzare la Coppa Italia dopo più di cinquant’anni: festeggiamenti sentiti, ma che sono stati ordinati e rispettosi. Un esempio di cività.
Un caso a quanto pare isolato, dato che altri così non hanno fatto, come successo per la vittoria del Napoli con lo scudetto. Già c’erano stati alcuni episodi che avevano gettato delle ombre sulla festa scudetto, come le parole dell’arbitro Guida che ha rivelato che lui e Maresca hanno deciso di non arbitrare più le partite del Napoli. “Io vivo la città di Napoli e abito in provincia. Ho tre figli e mia moglie ha un’attività. È una scelta personale. La mattina devo andare a prendere i miei figli e voglio stare tranquillo. Quando ho commesso degli errori non era così sicuro passeggiare per strada, così come andare a fare la spesa. Pensare di sbagliare ad assegnare un calcio di rigore e di non poter uscire due giorni di casa per svolgere le mie attività sportive non mi fa sentire sereno.” Coincidenza vuole che al var di Inter-Lazio, partita risultata decisiva per l’assegnazione del tricolore, ci fosse proprio Guida con un rigore negato ai nerazzurri che ha fatto finire la partita 2 a 2 e praticamente assegnando lo scudetto al Napoli. Altro episodio poco piacevole il tentativo di De Laurentis che ha richiesto al governo nell’ultima gara di campionato d’impedire ai tifosi del Cagliari di essere presenti allo stadio del Napoli perché voleva ci fossero solamente tifosi napoletani per festeggiare la vittoria finale.
Le cose non sono però finite qui per quanto riguarda i festaggiamenti del Napoli: la Rai ha mandato in diretta la festa dello scudetto del Napoli, cosa che, da quel che si ricorda, non è mai successa prima. Anche il Papa che riceva la squadra napoletana è stata un’anomalia.
Purtroppo, c’è di peggio: con i festaggiamenti ci sono stati decine di feriti, diversi arresti e carabinieri aggrediti, senza contare che sono state spazzate via dalle strade di Napoli ben 60 tonnellate di rifiuti, un dato tre volte superiore a quello registrato a Capodanno. Per non parlare di come hanno lasciato altre città italiane i tifosi napoletani con i loro festaggiamenti. Se si pensa che questo sia non un gran bell’esempio di civiltà, i tifosi del Paris Saint Germain hanno fatto di peggio: per la loro prima Champios League, i giocatori del PSG sono stati costretti a rifugiarsi negli spogliatoi per l’invasione di campo dei suoi tifosi che volevano rubargli per coppa per sollevarla loro, con la polizia che ha dovuto creare dei cordoni per impedire che invadessero anche gli spogliatoi. Ma non è finita qui: sia a Monaco sia a Parigi ci sono stati scontri feroci già prima della finale. E i festaggiamenti dopo la vittoria hanno portato due morti, oltre cinquecento arresti, Parigi che sembrava una città in stato d’assedio: pensiline degli autobus distrutte, centinaia d’incendi, decine di vigili e forze dell’ordine feriti.
In Grecia le cose non vanno meglio nella finale scudetto di basket, con il governo che è dovuto intervenire a sospenderel a serie finale Panathinaikos-Olympiacos, per via di minacce, offese, richieste di arresti e fughe.
Non c’è che dire, davvero dei begli esempi di civiltà.
Duranki è l’ultima opera realizzata da Kentaro Miura e purtroppo resterà incompiuta, come comunicato dalla redazione di Young Animal dopo averne parlato con i membri dello Studio Gaga. Una decisione comprensibile, ma di cui mi dispiace, dato che ho apprezzato l’unico volume realizzato sia per i disegni, sia per l’ambientazione, sia per i personaggi, sia per la storia; sicuramente ha influito la passione che ho verso i miti degli eroi e degli dei dell’Antica Grecia, dato che Duranki proprio su di essi si basa, ma c’è da dire che Miura per i sei capitoli realizzati ha fatto un buon lavoro, sicuramente migliore dell’idea originale da cui si è preso spunto: all’inizio, infatti, l’opera si doveva chiamare Amazones, con un ragazzo dei giorni d’oggi dai tratti molto femminili che veniva catapultato nel mondo dell’Antica Grecia (precisamente ai tempi della Guerra di Troia) e finiva in mezzo alla Amazzoni, finendo scambiato per una ragazza. Leggendo la sceneggiatura pubblicata assiema ai sei capitoli di Duranki, il protagonista viene portato nella città delle Amazzoni (chiamata Amazon) e deve cercare di non far scoprire che in realtà è un uomo (pena il venire decapitato) e con la conoscenza che ha delle tattiche di guerra, delle armi moderne e della storia, aiuta le Amazzoni contro i greci invasori che attaccano Troia, cambiando il corso degli eventi. In sostanza, Amazones sarebbe stato un isekai (il protagonista viene trasportato, reincarnato o evocato in un universo parallelo, spesso di stampo magico o fantastico); l’idea fu poi accantonata perché col passare del tempo gli isekai divennero uno standard, putando perciò più sull’aspetto mitologico. E questo, a mio avviso è stato un bene: con Amazon si voleva mostrare un gruppo di donne (le Amazzoni) che si ribella a una cultura maschilista, e questa l’ho trovata un’idea interessante, valida, peccato non realizzata a dovere, dato che aveva un approccio troppo adolescenziale, in alcuni casi da macchietta. Senza contare che i greci venivano stereotipati, presentati come un gruppo di bruti imbeccilli; sinceramente, non mi sarebbe piaciuto vedere realizzate tavole dove un esercito esperto come quello spartano viene sbaragliato da un gruppo di ragazzine; va bene l’aiuto avuto dai mezzi realizzati dalla conoscenza del protagonista, ma un popolo come quello di Sparta, che viveva di addestramento militare e guerra, non poteva essere sconfitto e umiliato così facilmente. Anche le battute che venivano fatte contro i greci (Menelao etichettato come “cornuto” e “re della pena”) erano un po’ troppo da macchietta e da anime comico, così come certe scene rovinavano l’epicità che è stata l’opera di Omero (Menalao che se ne va con una freccia nel sedere, Achille che dopo essere stato ferito dal protagonista con un’arma da fuoco s’innamora di lui e ci prova quando casualmente si ritrovano nelle stesse terme, venendo scacciato come un maniaco dalle altre giovani Amazzoni). Insomma, mostrare gli eroi greci come cattivi rimbecilliti e basta non sarebbe stato nelle mie corde.
Fortunatamente, la storia ha preso un’altra piega, facendo arrivare a Duranki. Due antichi dei della saggezza si ribellano al sistema mitico dando vita a un essere che non è né uomo né dio, né maschio né femmina, donandogli il nome di Usumgal che significa “Drago”; affidano la loro creatura a Hermes, dio greco protettore dei ladri, perché lo porti sul suolo sacro della Vetta dell’Arca, dove verrà trovato da una coppia anziana di pastori. Qui crescerà libero insieme a loro e alla compagnia del grosso cane Huwawa e del dio degli armenti Pan; grazie al suo intelletto, realizza delle invenzioni che semplificano la sua vita e quella degli anziani che l’hanno adottato, che fin da quando l’hanno trovato in fasce ai piedi della gigantesca arca del diluvio hanno compreso che è opera degli dei.
Crescendo, Usum ha il permesso di scendere dalla montagna, dove incontrerà un gruppo di ragazzi provenienti dal villaggio Tase, con il quale legherà fin da subito. Il nonno però lo mette in guardia, sia per il fatto che potrebbe incontrare difficoltà a farsi accettare per via della sua natura androgina, sia per il risentimento che cova negli abitanti di Tase, spogliati e derubati da una guerra e costretti a fuggire e rifugiarsi sulle montagne.
Nonostante queste ombre, la vita di Usum continua tranquilla, venendo ben accettato a Tase, grazie anche a ciò che realizza. Tutto va per il meglio fino a quando non incontra e deve combattere contro un mostro mitologico, una manticora. Purtroppo. Duranki finisce qui, nel bel mezzo dello scontro e non si saprà mai come finirà lo scontro (probabilmente bene), né come continuerà la storia e come si sarebbe evoluta. Davvero un peccato, perché c’erano tutte le premesse per realizzare qualcosa di valido e interessante.
Nonostante la sceneggiatura di Buronson (autore di Ken il guerriero) e i disegni di Kentaro Miura (Berserk), Japan non è nulla di che. Personaggi, trama, sono qualcosa che non lascia traccia: tutto accade troppo in fretta, non c’è spazio per l’approfondimento, per la creazione di una storia memorabile. L’unica cosa che si salva sono i disegni di Kentaro Miura, il cui tratto è quello dei primi volumi di Berserk (la storia venne pubblica in Giappone sulla rivista Young Animale nel 1992, quando il tratto del mangaka non era evoluto a quello attuale).
Tema e ambiantazione sono qualcosa di molto caro a Buronson: uno scenario postapocalittico dove vengono catapultati i protagonisti. E mai termine (catapultati) è più appropriato. Katsuji Yashima (che ricorda un po’ Gatsu, un po’ Nosferatu Zodd), un bestione membro della Yakuza (mafia giapponese) segue dovunque va la giornalista Yuka, di cui è innamorato. Mentre sta facendo un’intervista a quattro viziati ragazzi giapponesi sull’aggressivo modo di espandersi e di aggredire i mercati per arricchirsi sempre di più del Giappone, facendo un paragone con l’antica Cartagine, distrutta da Roma per lo stesso modo di fare, un terremoto li fa precipitare in una grotta dove ci sono i resti dell’antico esercito cartaginese; lì incontrano un vecchio che li mette in guardia sul destino del loro paese se continueranno a fare come i fenici, facendogli fare un salto avanti nel tempo e mostrandogli cosa succederà nel futuro.
Yashima, il suo amico Akira, Yuka e i quattro ragazzi si ritroveranno in un mondo desertico, barbarico, dove i giapponesi sono un popolo nomade, senza più una patria e senza più orgoglio, schiavizzato e costretto a subire i soprusi delle altre popolazioni. Yashima naturalmente non ci sta e con la sua forza e la sua testardaggine si ribella a questo mondo, diventando leader di un gruppo sempre più grande per far rivivere l’orgoglio giapponese e creare un paese dove gli uomini di tutte le razze possano vivere liberi e rispettati: quel paese si chiamerà Japan.
La storia si conclude così, e non si sa se il gruppo tornerà nel suo tempo o continuerà a vivere in questo futuro perseguendo l’obiettivo che il suo leader ha dato: Buronson e Miura non sono più tornati sulla storia e quindi si rimane con il punto interrogativo. Benchè alcune tematiche siano ancora attuali e i mondi apocalittici alla Interceptor affascinino sempre, Japan non ha una gran forza, è qualcosa di già visto e mostrato in una maniera non all’altezza: ribellarsi all’ingiustizia, il decantare l’orgoglioso giappone, sono elementi troppo sbattuti in faccia, troppo “inneggiati” per essere davvero convincenti. Peccato, Japan poteva esere qualcosa di più di quello che è stato.
L’ombra degli dei, primo volume della saga dei Fratelli di Sangue di John Gwynne, è, come asserito dall’autore, un libro ispirato sia a Beowulf sia al Ragnarok, la battaglia dei miti nordici dove trovarono la fine i vecchi dei vichinghi come Thor e Odino (questa però non fu la fine di tutte le divinità, alcune sopravvissero dando inizio a una nuova era). Se devo essere sincero, ricordare tutti i termini legati alla mitologia nordica usati nel romanzo mi è difficile, quindi, per evitare di scrivere inesattezze, eviterò di usarli.
La storia segue tre filoni, ognuno dedicato a un personaggio principale.
Varg è uno schiavo che è riuscito a scappare dai suoi padroni e chi si unisce a un gruppo di combattenti chiamato i Fratelli di Sangue.
Orka vive una vita tranquilla con suo marito e suo figlio in una fattoria isolata, almeno fino a quando non vengono attaccati e a lei non rimane che vendicare il marito ucciso e ritrovare il figlio rapito.
Elvar è una guerriera degli Sterminatori, un gruppo che caccia Corrotti, persone nelle cui vene scorre il sangue degli Dei.
Le vicende di queste tre figure per un buona parte del libro si evolvono per conto loro ma finiranno inevitabilmente per intrecciarsi in una vicenda che è più grande di quel che sembra: tutto si riconduce alla battaglia in cui gli dei sono caduti, al luogo dove le loro spoglie giacciono. Un luogo divenuto leggenda, che tanti ambiscono trovare e la chiave è il sangue, perché il sangue è più che vita: è memoria, è potere.
John Gwynne fa un buon lavoro con L’ombra degli dei, ricreando l’atmosfera dei miti nordici tra foreste, viaggi in mare e terre misteriose dove riecheggia ancora la presenza degli dei. Anzi, è più di un riecheggiare, dato che ci sono città che sorgono proprio tra i resti delle divinità. A parte un po’ di difficoltà iniziale avuta con alcuni termini, la lettura è proceduta spedita e piacevole, rendendo L’ombra degli dei un libro consigliato per chi ama battaglie sanguinose, leggende e dei d’ispirazione vichinga.
Il Papa del compromesso: questo è Papa Leone XIV. Già la scelta del nome indica coraggio, forza, tipica dell’animale cui ci si riferisce, visti i tempi che si stanno affrontando. Ci si dimentica però una caratteristica del leone: la ferocia. Il fatto che sia stato scelto come Papa il cardinale Prevost, un cardinale americano per cui Trump simpatizza, non aiuta certo a essere ottimisti. L’avevo già scritto in un post precedente: la scelta più indicata era Zuppi, ed essendo quella più indicata, non sarebbe avvenuta (perché fare una scelta giusta quando si può fare una cavolata?). Avevo anche scritto che bisognava evitare l’elezione a Papa di un cardinale americano, specialmente se legato in qualche modo a Trump: troppe ingerenze e pressioni, una scelta troppo politica. Purtroppo così è stato, ma non è certo una novità: la Chiesa si è sempre inchinata al potere e ai soldi, legandosi a essi fin dai tempi di Paolo (prima chiamato Saulo e grande persecutore dei cristiani). Paolo si rivolse infatti alla nobiltà, ai ricchi, a chi aveva potere per avere appoggio e far sì che l’istituzione Chiesa crescesse; una scelta pragmatica, qualcuno osserverebbe che è stata una scelta intelligente perché avendo maggior appoggio, aveva maggiore possibilità di crescita e diffusione. Peccato solamente che tradisse il messaggio originale, quello da cui è partito tutto, al punto che Pietro, uno dei primi discepoli di Gesù, capì, anche se tardi, che quella non era la strada da percorrere. E dire che era stato proprio avvisato da Gesù che avrebbe commesso tale errore: Gesù nel Vangelo dice a Pietro la seguente frase: “quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi” (Gv 21,18-19) indicando come il suo percorso si sarebbe allontanato da quello cristiano, le sue scelte guidate da altri. Cosa che è appunto successo con Paolo: come già scritto, ma lo si ribadisce, Paolo per far crescere l’istituzione della chiesa si basò sull’appoggio di ricchi e nobili; una scelta pragmatica, sicuramente utile per far aumentare l’influenza della nuova e appena nata religione, ma non consona al messaggio originale. Pietro, alla fine della sua vita, capì le parole di Gesù e vide che la strada intrapresa non era quella che lui aveva creduto: per questo motivo si ritenne indegno di morire nello stesso modo di Gesù e fu crocefisso a testa in giù, ammonendo così che la via che stava seguendo la Chiesa era all’opposto da quanto detto da Cristo.
E qui si deve trattare un argomento che a molti scandilizzerà, farà arrabbiare, urlare; reazioni forti insomma. Quando si parla di croce capovolta, si pensa all’Anticristo, inteso come demonio, diavolo, Satana, maligno, insomma una figura di puro male. Si è pensato però che l’Anticristo non sia il simbolo di una figura di puro male, ma sia il contrario dell’insegnamento originario di Cristo? Certo, molti associando a Gesù il bene puro pensano che l’Anticristo sia il male puro, ma non è così: il modo in cui ha agito l’istituzione Chiesa ha dimostrato nei secoli cosa significa il contrario del messaggio di Gesù.
Si è di fronte a un’eresia o una bestemmia dicendo qualcosa del genere?
No: in molti, anche tanti religiosi e membri della Chiesa, hanno criticato e giudicato l’operato dell’istituzione Chiesa, opulenta e lontano dalla gente comune, dai bisognosi, dai poveri. Uno degli esempi più lampanti è stato Bonifacio VIII, ma basta anche vedere come sono state trattate dalla Chiesa figure come Francesco d’Assisi e Padre Pio, prima perseguitati e poi riabilitati perché avevano un gran numero di seguaci; numeri talmente grandi da essere un popolo e un popolo è potere. Oltre che un grosso problema, se si decide di prenderlo di petto. Molto più semplice ingannarlo. Pertanto hanno scelto di fare di quelle persone eroi e santi acclamati e osannati: così facendo hanno stretto nella propria morsa quelle grandi folle. Qualcuno giudicherebbe questa mossa una porcata, altri opportunismo, altri politica, altri tradimento, come successo nella Seconda Guerra Mondiale, quando l’istituzione Chiesa invece di opporsi al fascismo e al nazismo, rimase in silenzio per paura di essere colpita da essi; omertà, codardia, pragmatismo: ognuno scelga il termine che preferisce, ma è un fatto che tale scelta non aveva nulla del messaggio originale. Certo, ci sono stati uomini all’interno della Chiesa che si sono opposti e battuti contro il fascismo e il nazismo, arrivando a sacrificarsi per salvare altre persone ed essere fedeli a ciò che credevano. Ma la loro è stata una scelta come individui, non come membri di un’istituzione che ha tradito quello che avrebbe dovuto seguire e insegnare.
Se si pensa che quanto scrivo sia perché non sono d’accordo sulla scelta di questo Papa, ci si sbaglia: scrivevo di queste cose (il messaggio della crocifissione a testa in giù, lo sfruttamento di figure religose) più di dieci anni fa con L’Ultimo Potere, (uscito nel 2015, ma la cui stesura risale al 2010), perché per me il fantastico, almeno per quello che realizzo, non deve essere solo intrattenimento, ma parlare di realtà.
La realtà di oggi ci dice che il nuovo pontefice è un pontefice di compromesso, dove la politica ha avuto il suo peso, dove la Chiesa si è fatta influenzare da essa: è un caso che sia stato eletto il primo Papa americano della storia dopo che Trump ha versato quattordici milioni di dollari per i funerali di Papa Francesco (se li avesse dati ai poveri sarebbe stato molto più cristiano, ma qui di cristiano c’è ben poco, mentre c’è molto di politica)? Non credo proprio; a pensar male si farà peccato però…
Potrò sbagliarmi, ma come è avvenuta la scelta è qualcosa di molto sospetto; forse il nuovo Papa sarà un buon Papa o forse sarà come tanti che si sono mantenuti nella media. Si spera che non faccia danni.
(I più maligni potrebbero far notare che ci sono somiglianze tra Papa Leone XIV e l’imperatore Palpatine…)
Star Trek – Il futuro ha inizio è stato uno dei diversi remake/reboot di film usciti in passato. Star Trek non ha bisogno di presentazioni, in molti conoscono questo mondo grazie alle gesta del capitano Kirk e del suo ufficiale Spock, conosciuti con la prima famosa serie tv dedicata a loro e agli altri membri dell’equipaggio dell’astronave Enterprise, nonché con i primi film tratti da essa. Sinceramente, non sono mai stato un fan sfegato di questo mondo, anche se ho visto tutti i film di Star Trek e alcune puntate della serie Star Trek: The Next Generation, quindi non ho avuto grosse remore nel vedere Star Trek – Il futuro ha inizio, né tanto meno nel criticarlo, anzi, devo dire che il giudizio dato è positivo.
La storia ha inizio quando una nave stellare della Federazione, la USS Kelvin, viene attaccata da una gigantesca nave romulana che è alla ricerca dell’ambasciatore Spock; avendo avuto risposta negativa, il capitano dei romulani, Nero, ordina di continuare l’attacco, ma grazie al sacrificio del neo capitano George Kirk, la maggior parte dell’equipaggio si salva, e tra esso anche la moglie che proprio nel momento dell’attacco dà alla luce suo figlio, James Tiberius Kirk.
La scena poi si spsota su Vulcano, dove un giovane Spock, metà umano e metà vulcaniano, dopo aver ricevuto un insulto sulla madre terrestre, l’unico punto debole capace di farlo reagire impulsivamente, picchia il ragazzo vulcaniano autore della provocazione.
Qualche anno dopo, i due, ormai adulti, si incontrano all’accademia della flotta stellare e il loro non è certo un incontro amichevole: fin da subito tra i due non corre buon sangue, dato che sono uno l’opposto dell’altro (istinto contro ragione). Fatto salire con un escamotage dall’amico dottore McCoy su un’astronave dopo essere stato sospeso per aver baratro nel test della Kobayashi Maru (un test dove si è sempre destinati a fallire per far comprendere il fallimento e la paura nell’affrontare prove impossibili da superare), Kirk riesce a far capire che la missione cui stanno partecipando è in realtà una trappola: avranno a che fare di nuovo con la nave di Nero, ricomparsa dopo venticinque anni dall’attacco in cui nacque Kirk, intenta a far implodere il pianeta Vulcano, impresa in cui riesce. Gettato su un pianeta quasi disabitato da Spock, Kirk incontrerà la sua versione più anziana, giunta dal futuro attarverso un buco nero creato per cercare di fermare una Supernova sul punto di esplodere che altrimenti avrebbe distrutto il pianeta Romulus. Purtroppo, la missione dello Spock futuro è fallita e Nero incolpa lui dell’accaduto; per questo l’ha inseguito attraverso il buco nero e ha distrutto il suo pianeta natale per fargli provare quello che aveva provato lui. Il piano di Nero però non si ferma qui: per attuare la sua vendetta vuole far fare alla Terra la stessa fine (Spock era anche in parte umano, oltre che vulcaniano).
Con gran sorpresa di Kirk, lo Spock del futuro gli rivela che loro erano grandi amici (gli rivela anche come nel tempo da cui viene il padre di Kirk lo ha visto crescere) e gli spiega come fare per avere il comando della USS Enterprise e così fermare una volta per tutte Nero.
Per dare un nuovo inizio a Star Trek – Il futuro ha inizio si è giocata la carta del viaggio nel tempo che crea una realtà alternativa a quella conosciuta; una realtà differente all’inizio ma che poi, con alcuni accorgimenti (Spock del futuro) viene rimessa su binari già conosciuti. Il risultato è decisamente riuscito e la storia non ha momenti di stanca. Si può dire che tutto il cast ha fatto un buon lavoro, così come si possono dire ottimi la fotografia e gli effetti speciali. Star Trek – Il futuro ha inizio è uno dei rari casi in cui un reboot/remake non fa rimpiangere l’originale.
Papa Francesco non era nemmeno stato seppellito che già c’era il toto elezioni. Fa parte del gioco, the show must go on, ecc ecc; si dica quello che si voglia, ma non è una cosa che mi sia piaciuta poi molto. Tuttavia, questi sono i fatti e con ciò che si deve avere a che fare, e che piaccia o no, occorre eleggere un nuovo Papa.
Per me la scelta più logica, più di buon senso e la migliore possibile al momento, dovrebbe essere quella del Cardinal Zuppi: è la figura più indicata. Sia come modo di fare, sia come diplomazia, sia come si pone con le persone (cordiale, pacato), oltre al dare continuità all’operato di Papa Francesco, Cardinal Zuppi sarebbe un buon Pontefice. Purtroppo, come spesso accade, essendo la persona più indicata, temo che ciò non avverrà (perché fare una scelta giusta quando si può fare una cavolata?)
I Cardinali Tagle, Besungu e Turkson, non li vedo eleggibli per uno stupido motivo: il primo filippino, gli altri due africani. Che c’entra, si dirà? C’entra, c’entra, basta pensarci un poco. Ma no, sei tu che pensi male, mica vorrai alludere al razzismo…mah, potrei però attaccarmi alla scaramanzia e a certe credenze… mica si vorrà far avverare la profezia di Nostradamus, no?
Un Papa tedesco lo escludo, dato che ce n’è stato uno di recente. Il patriarca latino di Gerusalemme non mi sembra una buona scelta, così come quella del Cardinale Parolin.
Non male se la scelta cadesse sul Cardinal Aveline, vista l’attenzione che dà alle periferie, alle migrazioni, al dialogo tra religioni differenti.
Da evitare invece l’elezione a Papa di un cardinale americano, specie un trumpiano come Burke; neppure Donovan mi sembra una scelta entusiasmante, nonostante si sia opposto alle politiche anti-immigrazione di Donald Trump. A prescindere da Burke, Donovan o qualsiasi altro nome made in USA, sarebbe meglio che la scelta non cadesse su un Cardinale degli Stati Uniti, specialmente se legato in qualche modo a Trump: troppe ingerenze e pressioni. Si dirà che per la scelta di un Pontefice non si devono guardare simili cose, ma basarsi su qualcosa di più elevato; purtroppo, che lo si voglia ammettere o meno, la Chiesa è un’istituzione e ha potere, e dove c’è potere ci sono degli equilibri sia politici sia economici; è sempre stato così, c’è chi lo ha fatto pesare di meno e chi di più (chi ha detto Bonifacio VIII?). Tuttavia, ci sono dei limiti a quello che si può scegliere, e se non si vuole pensare alla spiritualità, si pensi almeno alla decenza; sì, perché non si potrebbe proprio vedere un Papa che promuove le idee trumpiane o se non le promuove, sta zitto facendo finta di niente. Il Papa, essendo, secondo la religione cattolica, successore di Cristo, non può per tale motivo adeguarsi a certe politiche, in primis perché sarebbe una contraddizione, e poi perché così facendo allontanerebbe dalla Chiesa molte persone (e già se ne sono allontanate tante); e visto che i numeri, specie se grandi, sono potere, non sarebbe una scelta tra le più sagge. Sinceramente, di muri imbiancati, bigotti e ipocriti non ce n’è bisogno, dato che ce ne sono già tanti; ogni riferimento a politici italiani di una certa parte che si professano tanto credenti ma coi fatti smentiscono le parole che professano, non è puramente casuale.
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