Oltre le nuvole, il luogo promessoci è il primo film di animazione realizzato per il cinema da Makoto Shinkai; ambientato in un mondo ucronico, dove il Giappone è un paese diviso in due parti (una dominata dall’America, l’altra dalla Russia), vede come protagonisti due ragazzi, Hiroki Fujisawa e Takuya Shirakawa, che hanno come sogno quello di costruire un aereo e così raggiungere la gigantesca torre costruita dai russi in Hokkaido. Nell’estate in cui stanno per terminare il progetto cominciano a frequentare una compagna di classe, Sayuri Sawatari, il cui nonno ha progettato la famosa torre, che, venuta a sapere di quello che stanno facendo, si fa promettere che la porteranno con loro.
Il periodo che passano insieme è idilliaco e tiene lontano le ombre di un mondo pieno di conflitti, ma alla fine delle vacanze estive la ragazza scompare senza lasciare traccia e dopo questo evento Hiroki e Takuya non portano a conclusione la costruzione dell’aereo.
Passano tre anni e si scopre che Sayuri è finita ed è rimasta in coma da quell’estate; nel mentre, la parte del Giappone tenuta sotto controllo dall’America monitora e studia l’attività della torre, che, grazie agli studi fatti sui mondi paralleli, sta sostituendo parte della realtà attuale con un’altra; se tutto ciò avvenisse, sarebbe la fine del pianeta.
Incredibilmente, l’attività della torre è in qualche modo legata al coma in cui è caduta Sayuri: la ragazza sogna un mondo in cui è l’unica essere vivente del pianeta e nei momenti in cui la sua attività cerebrale s’intensifica, la torre si attiva sostituendo sempre più parti della Terra. Gli studiosi che la tengono monitorata ipotizzano che se lei si svegliasse completamente, sarebbe la fine del mondo.
Hiroki, venuto a sapere di lei attraverso un sogno ricorrente dove la ragazza ricorda solamente la promessa fatta durante quella bella estate, riallaccia i contatti con l’amico di un tempo (che adesso fa parte del team che studia la torre) e vuole portare a termine la costruzione dell’aereo per adempiere a quello che si erano detti tre anni primi. Dopo che i due hanno litigato (si deve scegliere se salvare Sayuri o il mondo), Hiroki riesce a convincere Takuya: quest’ultimo preleva Sayuri dal luogo in cui era tenuta e Hiroki la porta con sé sull’aereo alla volta della torre dove, una volta che lei si sarà risvegliata, lancerà contro la torre una bomba speciale capace di annullare gli effetti della struttura. Il piano andrà a buon fine, ma il desiderio di Sayuri di poter ricordare l’amore per Hiroki, l’unica cosa che l’aveva tenuta ancorata alla realtà, non verrà esaudito; Hiroki, vedendola in lacrime, la consola dicendole che potranno ricominciare di nuovo da capo.
In Oltre le nuvole, il luogo promessoci la componente principale è il legame che si è creato tra i tre ragazzi, soprattutto tra Hiroki e Sayuri, il cui amore andrà oltre il tempo e le dimensioni; l’elemento fantascientifico (i mondi paralleli, la torre che fa da congiunzione a essi), il clima da guerra fredda che ha diviso in due il Giappone, sono marginali e fungono da pretesto per mostrare quanto sono forti e assoluti i sentimenti amorosi che si creano quando si è adolescenti, dove si è disposti a tutto pur di soddisfarli (tema ripreso dall’autore in Weathering with you). Anche se il tema principale può lasciare perplessi, visto come gli altri aspetti del film sono messi da parte a suo favore, è affrontato da Shinkai in tono delicato e soprattutto malinconico, soprattutto per il sottolineare come crescendo venga perso molto dello spirito adolescenziale (tema che verrà sviluppato in maniera più profonda e meglio riuscita in 5 cm per second).
Seppur non perfetto, Oltre le nuvole, il luogo promessoci è un buon esordio per Shinkai e getta i semi di quella che sarà la sua produzione futura, anche se diverse cose vengono lasciate nell’ombra (come nasce la torre, qual è davvero il suo scopo oltre a scoprire altri mondi, perché è legata al mondo dei sogni, qual è il legame che c’è tra essa e Hiroki: s’intuisce che il tutto è connesso al fatto che lei è la nipote del suo ideatore, ma non si sa il perché). Il comparto grafico, seppur si sia di fronte a una pellicola del 2004, è di alto livello ed è uno spettacolo per gli occhi per quanto riguarda i paesaggi.
Secondo Vannacci, autore del libro Il mondo al contrario, Paola Egonu non rappresenta l’italianità. Il riferimento è chiaramente rivolto al colore della pelle e ai tratti somatici: pur essendo italiana, dato che è nata in Italia, non può essere simbolo d’italianità dato che i suoi genitori vengono da un’altra nazione. Premettendo che rappresenterebbe la cosiddetta italianità molto meglio di persone come Berlusconi, Renzi e Salvini (e non ci si riferisce solo fisicamente), bisogna riflettere su cosa sia l’italianità: è questione solo di colore della pelle? Di tratti somatici?
Se ci si limitasse a basarsi solo sull’apparenza esteriore, si farebbe un passo indietro di diverse decine di anni, tornando a quei principi negativi di cui era pervaso l’arianesimo ai tempi del nazismo, dove occorreva corrispondere a determinati requisiti fisici per essere considerati degni, di valore.
L’italianità, invece, è qualcosa che va oltre l’aspetto fisico e non sono certo quegli steriotipi che gli italiani si ritrovano affibbiati dagli altri paesi, purtroppo dovuti al modo di fare di certe persone che con la loro visibilità mediatica hanno avuto una certa influenza sulla considerazione di cosa era l’essere italiano (senza girare tutto il mondo, ma andando semplicemente nei paesi europei vicini, gli italiani erano etichettati come “mandolino, pizza, mafia, Berlusconi, Bunga Bunga”).
Non è neppure l’essere i furbetti che cercano sempre di ottenere quello che si vuole raggirando le regole, cercando raccomandazioni o di fare il meno possibile, ridendo in faccia all’impegno e al merito.
E non è neppure fare soldi a qualsiasi costo, pronti a tutto per il guadagno, come succede per le morti bianche, che per guadagnare di più si risparmia sulla sicurezza. O lasciare da parte etica e ideali, pronti a vendere di tutto come ha fatto la casa editrice che pubblicherà il libro di Vannacci e non perché, come asserito da essa, è contro la cancel culture, ma perché non si sputa sui soldi, visti i grandi guadagni che Il mondo al contrario ha portato all’autore (al momento si parla di più di ottocentomila euro). Viene da chiedersi se la casa editrice pubblicherebbe, se mai fosse scritto, anche il libro dell’imam che spiega come lapidare le donne, visto che è contro la cancel culture e quindi a favore della libertà d’espressione.
L’italianità non è neanche il prendere in giro le persone e nascondersi dietro falsità, nascondere la verità dietro storielle inventate cui tutti dovrebbero credere. Non è l’arrampicarsi sugli specchi asserendo che le critiche su un libro sono sullo stile quando invece sono sul contenuto: questa non è italianità, ma uno sviare l’attenzione. E nemmeno asserire che Vannacci adora tanto le figlie da non rinunciare alle vacanze in Sardegna per via delle critiche subite sul libro scritto (spiacenti, ma questo non dimostra nulla: l’affetto è altra cosa).
L’italianità non è voler arricchirsi usando populismo, smerciando mentalità distorte che istigano all’intolleranza, all’odio per chi non rientra nella maggioranza, non è insultare omosessuali o immigrati, anche se una parte degli italiani fa proprio questo.
L’italianità è la somma di culture ed etnie diverse. E non si tratta di utopia o idealismo, ma di fatti storici, dato che l’Italia ha ospitato popoli diversi: etruschi, greci, popoli del nord, ottomani, borboni, austriaci. Se siamo quello che siamo è perché l’italianità è l’unione di tante diversità; se non fosse stato così non ci sarebbe stata evoluzione. Se non ci fosse stata contaminazione, come molti non vorrebbero sentire dire, l’italianità non sarebbe andata avanti e sarebbe rimasta ferma a una popolazione di pastori priva di cultura. Cultura, va fatto notare, che non è mai stata propria ma di cui ci si è impossessati rubandola agli altri con la forza, come è successo con quella greca: senza di essa non ci sarebbe stato il fiorire dell’impero romano.
Se ci si soffermasse ai tecnicismi e si sfrondasse tutto ciò che non è italianità pura, ci si ridurrebbe ad avere un popolo di ladri e di bruti.
Se invece si guarda alla realtà, l’italianità è un miscuglio di tanti elementi che hanno portato ad affrontare e a superare sfide impossibili, a sognare in grande, a realizzare opere di bellezza allo stato puro, a fare grandi scoperte.
L’italianità è il saper cogliere il meglio di quello con cui si entra in contatto e far sì che porti frutto. Non importa la classe sociale d’appartenenza, il colore della pelle, i tratti somatici o i gusti sessuali: questo non ha nulla a che fare con l’italianità.
P.s.: fa pensare che tanti testi migliori e superiori a Il mondo al contrario hanno venduto molto meno. Questo la dice lunga su quello che la gente vuole sentirsi dire e su com’è; il che, sotto certi aspetti, è abbastanza preoccupante. A dimostrazione che non si è mai venuti a patti con la carica d’odio (causata da fascismo e nazismo) che ha fatto scaturire, al momento, il peggior conflitto che la Terra abbia mai visto.
E per riflettere un altro po’, un video di Crozza su Vannacci; fa pensare come siano i comici quelli che mostrano e analizzano di più la realtà.
P.p.s.: fa un po’ sorridere la scelta del titolo dell’opera di Vannacci, visto che proprio l’autore usufruisce dei benefici di un mondo del genere. Infatti, in un mondo dove le cose vanno per il verso dritto, in posizioni di comando non ci sarebbero persone come lui e a vendere sarebbe libri fatti bene e con contenuti validi.
Andavo alle elementari (anni 80) quando vidi Il Signore degli Anelli di Bakshi in televisione. Allora, a differenza di adesso, non c’erano molti film e serie dedicate al fantastico, e quindi fu un piccolo evento; la storia si capiva che non terminava con la fine della pellicola, dato che c’era sì la vittoria al fosso di Helm, ma Frodo e Sam erano ancora in viaggio con Gollum per portare l’Unico Anello al Monte Fato, e quindi aspettai con trepidazione la trasmissione della seconda parte. Attesa vana, perché non ci fu mai un seguito, ma allora non c’era internet per fare ricerche e quindi non era possibile avere notizie rapidamente. In seguito scoprii le ragioni del perché non ci fu un prosieguo della storia e di tutto quello che c’era stato dietro: dal rifiuto di Kubrick alla controversa sceneggiatura di Boorman che tradiva ciò che era Il Signore degli Anelli con alcune licenze che la fecero bocciare senza se e senza ma, fino ad arrivare a Ralph Bakshi, che decise di farne una versione animata.
Visti i costi che una produzione del genere avrebbe richiesto e che i mezzi di allora non avrebbero permesso di creare un’ambientazione adeguata a quella del romanzo, la scelta fatta da Bakshi sembrava quella giusta: un’animazione realistica, senza tanti fronzoli, lontana dallo stile disneyano tanto conosciuto fino ad allora, con fondali curati nei dettagli maniacalmente (ci ha lavorato anche un allora sconosciuto Tim Burton). Lo stesso Bakshi definì il suo lavoro un dipinto animato, pura pittura in movimento.
Per l’impossibilità di disegnare tutto, si decise di usare il rotoscopio, ovvero di ricalcare le scene a partire da pellicole girate in precedenza. Dopo gli acquerelli dei fondali e lo stile dei personaggi, l’uso di questa tecnica può risultare stridente e creare un risultato finale grottesco. Eppure, proprio questa scelta ha reso caratteristico Il Signore degli Anelli creato da Baksji: può piacere o non piacere, ma ha dato al film un suo perché. Ed è un rammarico che al regista non sia stata data la possibilità di completare il lavoro (benché a fronte di un investimento di quattro milioni di dollari ne avesse guadagnati trenta) perché aveva saputo adattare abbastanza bene l’opera di Tolkien; certo, c’erano stati dei tagli (eliminata la parte di Bombadil, visto che risulta slegato alla trama principale), ma nel complesso lo spirito originario viene mantenuto.
Seppur stroncato dalla critica, il film ha diversi punti positivi, al punto da avere una forte influenza sul più fortunato Il Signore degli Anelli girato da Peter Jackson, che non solo effettua molti dei tagli realizzati da Bakshi, ma rifà diverse inquadrature alla stessa maniera del suo precedessore (la festa di Bilbo, l’incontro dei quattro hobbit con il Nazgul nella foresta, quello con Aragorn). Sia ben chiaro: la pellicola del 1978 non è perfetta, visto che non approfondisce i personaggi, è troppo compressa per via di tagli richiesti dalla produzione con salti di trama non da poco (mancano venti minuti di scena che il regista non è riuscito a completare per poter far uscire il film nella data prevista) e si può essere perplessi su certe scelte (Gimli non è un nano ma un silvano), ma se ne si ha la possibilità, la si recuperi, perché ha subito un giudizio troppo duro.
Berserk – L’epoca d’oro è una trilogia di film dedicata a quello che per molti è il miglior arco narrativo della storia narrata da Kentaro Miura. Senza dilungarsi troppo sulla trama, le pellicole raccontano dell’ingresso di Gatsu (qui chiamato Guts), adolescente ma già esperto guerriero, nella Squadra dei Falchi dopo aver perso a duello con il suo comandante, Grifis. Una vittoria dopo l’altra, il gruppo di mercenari guadagna sempre più notorietà presso la corte del re delle Midland; oltre alla fama però cominciano a sorgere anche l’invidia e il rancore da parte dei nobili, che non sopportano che persone che vengono dalla plebe ottengano una simile attenzione: ciò porterà attentati alla vita di Grifis, che però falliranno.
La vendetta del Falco Bianco non si farà attendere e chi si metterà sulla sua strada farà una brutta fine.
Tutto sembra andare per il meglio, se non fosse per la profezia che Zodd l’Immortale ha rivelato a Gatsu dopo essersi scontrato con lui e Grifis e aver visto che quest’ultimo indossa il Bejelit del Re Conquistatore. Un presagio oscuro, un presagio di morte, aleggia su Gatsu e i suoi compagni e la causa di tutto sarà proprio Grifis.
Le nubi nere però per il momento sembrano lontane e i Falchi ottengo un’importante vittoria contro i nemici delle Midland, al punto da essere elevati al rango di nobili. Gatsu però non è soddisfatto di ciò e decide di andarsene per trovare la propria strada, convinto dalle parole pronunciate da Grifis su chi considera suo amico. Ma ciò che è perso con la spada, va riconquistato con la spada e per potersene andare deve sconfiggere a duello Grifis.
La sconfitta lascia una profonda ferita sul Falco Bianco che, incapace di accettare l’abbandono di Gatsu, perde il controllo e fa qualcosa di avventato, andando a letto con la figlia del re delle Midland; scoperto, viene imprigionato e torturato per un anno. La Squadra dei Falchi viene messa al bando e braccata senza pietà; solo il ritorno di Gatsu eviterà il peggio. Assieme a Caska, Judo e Pipin, libereranno Grifis ma ormai il capo dei Falchi è un rudere, con tendini di gambe e braccia recisi e lingua tagliata. La condizione in cui versa e l’aver rivisto Gatsu generano in lui una disperazione tale che lo porta ad attivare il potere del Bejelit: l’Eclissi ha inizio e i membri della Mano di Dio (demoni di un’altra dimensione) giungono sulla terra per accogliere il quinto di loro, che altri non è appunto che Grifis.
Grifis accetta quanto offerto e sacrifica i suoi compagni. Inizia una carneficina tremenda, dove solo Gatsu e Caska sopravvivono; l’uomo perde un braccio e un occhio, la donna, stuprata da Grifis rinato come Phempt, il Falco delle Tenebre (qui chiamato corvo), perde la ragione. Solo l’intervento del Cavaliere del Teschio li salva da morte certa; ma sarà una salvezza effimera, perché portando su di loro il marchio del Sacrificio, saranno sempre perseguitati da spiriti, mostri e Apostoli (servitori della Mano un tempo umani divenuti mostri dopo aver usato un bejelit). Berserk – L’epoca d’oro presenta grossi difetti. Tralasciando la computer grafica che non è eccezionale (anche se è meglio di quella dell’ultima serie realizzata su Berserk, ma ci voleva poco), il vero problema riguarda i tagli, che lasciano buchi di trama non da poco, e la rivisitazione dei dialoghi, che fanno perdere molto della bellezza del manga. Tradotto in parole povere: anche questi film non si avvicinano al livello del manga.
Si può comprendere che con il tempo a disposizione non si possa mettere tutto, ma la scelta di cosa mettere e cosa no compromette la comprensione della storia.
Del passato di Gatsu c’è un breve flashback di qualche secondo dove, se non si conosce il manga, non si capisce chi sono le figure mostrate (uno è Gambino, il mercenario che l’ha adottato, l’altro è il soldato a cui il padre adottivo l’ha venduto e che l’ha violentato). Il bejelit rosso viene mostrato da Grifis a Gatsu in un momento diverso da quello del manga, dando una spiegazione differente: è più lunga e articolata, ma rivela troppo e toglie aspettativa, facendo capire troppo di quello che accadrà. Viene eliminata la figura della regina delle Midland e tutta la parte a essa relativa. Stessa sorte tocca a Godor il fabbro, all’arco narrativo che lo riguarda e al periodo che Gatsu ha passato lontano dalla Squadra dei Falchi. Idem per i Barkilaka, Wiald e i Cani Neri. Nello scontro tra Gatsu e il generale dei Rinoceronti Viola viene eliminato l’intervento di Zodd, decisivo per l’esito del combattimento. Il rapporto sessuale tra Gatsu e Caska dopo il ritorno del guerriero tra ciò che resta della Squadra dei Falchi viene semplificato, eliminando la parte in cui Gatsu ricorda la violenza subita da piccolo e ha una reazione improvvisa contro la donna.
Tutti questi sono tagli importanti, ma la cosa più grave è la modifica fatta ai dialoghi, uno dei punti di forza dei manga: troppo affettati, al punto da essere a tratti banali. Con questa scelta si perde troppo della poesia e della profondità trovata tra le pagine disegnate da Kentaro Miura.
In definitiva, il giudizio dato a Berserk – L’epoca d’oro non è propriamente positivo, al punto che si rivaluta la prima serie realizzata negli anni novanta per questo manga. Peccato aver perso un’occasione per fare un buon lavoro.
Complice un forte sconto outlet, ho acquistato Il potere della magia, volendo dare un’altra occasione a Terry Brooks. Brooks è stato un autore che ho apprezzato quando ero adolescente (anche rileggendo le sue opere da adulto, pur non provando le stesse sensazioni, non ho potuto che trovare buoni i suoi lavori) e che fino alla fine degli anni 90 ha saputo scrivere romanzi interessanti. Ma con Il viaggio della Jerle Shannara è cominciata la china discente: idee valide ma sfruttate male, personaggi di cui ci si dimentica presto. Brooks ha preso a perdere sempre più colpi; il culmine è giunto con La Genesi di Shannara, dove, dopo un inizio in cui l’autore sembrava tornato ai suoi livelli migliori, c’è stato il crollo, soprattutto con I figli di Armageddon: questo romanzo funziona benissimo finché parla del gruppo degli Spettri e del Cavaliere del Verbo Logan Tom, sa creare un’atmosfera veramente buona. Poi la rovina mettendo all’improvviso gli elfi, che fino a quel momento nella serie di Verbo e Vuoto non si erano mai visti: prende il sense of wonder e in un istante lo fa a brandelli (ed è uno dei rarissimi momenti in cui m’è partito un “ma v……..”). Va bene che la trilogia di cui fa parte I figli di Armageddon doveva essere l’anello di congiunzione tra Shannara e mondo reale visto da Verbo e Vuoto, ma si poteva e doveva fare meglio. Brooks ha utilizzato male un personaggio come O’olish Amaneh; poteva usarlo in modo più centrale, legare il mondo degli spiriti (date le origini indiane del personaggio), il mondo di Faerie, con quello degli elfi, facendo sì che l’armageddon scatenato incarnasse le essenze immateriali e dando così vita agli orecchi a punta. E invece… “ecco, gli elfi ci sono sempre stati e se ne stanno tra le montagne americane”.
Il Brooks di questo periodo è riuscito a rovinare oltre Shannara e Verbo e Vuoto, anche la saga di Landover con quel lavoro pessimo di young adult che è La principessa di Landover (e questo problema non da poco si rivede anche in Il potere della magia).
Per queste ragioni, smisi di leggere nuove uscite di questo autore. Il passare del tempo alle volte fa strani scherzi e, portando un poco di nostalgia, fa venire voglia di rivedere (in questo caso leggere) cose che sono state legate al passato, e quindi ecco ad avere tra le mani Il potere della magia.
Certo, è il secondo volume di una duologia, ma questo non influisce sulla comprensibilità della storia (essendo poco originale ed essendo divenuto ripetitivo, non è difficile capire le trame di Brooks): la barriera magica protettiva erta per difendere umani ed elfi creata diversi secoli prima ai tempi di Falco (la Genesi di Shannara) sta venendo meno e le creature che vivono fuori dalla pacifica valle cominciano a entrare. Sider Ament, l’ultimo dei Cavalieri del Verbo, deve avere a che fare con i troll che cercano di invaderla, ma muore e lascia il suo bastone magico e il suo compito a Panterra Qu, un diciassettenne, compito che divide con la sua migliore amica, la quindicenne Prue Liss. Verranno aiutati dalla giovane principessa degli elfi Phryne Amarantyne, che però è accusata ingiustamente dall’invidiosa matrigna dell’omicidio del padre, di cui lei è artefice.
Da queste basi parte Il potere della magia. Occorre premettere che ero arrivato a questa lettura preparato, non avendo gradi aspettative, viste le tante critiche ricevute da questo lavoro: ripetitività delle trame, troppa introspezione. Tutto giusto, ma il vero problema di questo romanzo è un altro: Brooks si è adeguato allo young adult. Ma è lo young adult più scarso, perché c’è modo e modo di farlo. Anche Sanderson ha scritto young adult, ma l’ha fatto in modo diverso, con risultati decisamente migliori, basti vedere Il ritmatista o la trilogia degli Eliminatori (che ha qualche piccola caduta, ma nel complesso il suo dovere lo fa); qui invece Brooks segue la linea peggiore di questo filone.
I protagonisti sono due adolescenti che non hanno grandi capacità e neppure eccellono di preparazione (anzi, si può dire che non ne hanno), ma che si ritrovano a essere i salvatori di tutto: gli adulti come Sider Ament, che in altre sue opere sarebbero stati gli eroi della storia, vengono tolti di mezzo per lasciare spazio a questi giovani con facilità e quasi banalità. E mentre il destino della valle ricade sulle loro spalle, il lettore si deve sorbire pianti e crisi adolescenziali, baci e amori da cotta, pensieri che ruotano attorno a essi, oltre a bisticci e dialoghi che che fanno cascare le braccia (“ah, tu pensi che sia colpa mia, che io non sia capace, ma io ho le capacità!” “io non pensavo questo…” “no, tu pensavi proprio questo!” e via con le lacrime agli occhi, ai singhiozzi e agli abbracci di conforto “no, io credo in te, ti sarò sempre a fianco perché ti voglio bene”).
Le “adolescenzialate” però non si limitano a questo. Oltre a eliminare Sider Ament, si tirano via quei personaggi adulti che potrebbero rubare il palcoscenico ai giovani: via il mercenario Deladion Inch, via la nonna di Phryne (tutte figure che col Brooks del passato avrebbero avuto una caratterizzazione e uno sviluppo interessante) perché si deve puntare sui giovani. Il che non sarebbe nemmeno un problema, se Brooks si comportasse come si è comportato con il ciclo degli Eredi. Anche lì c’erano dei giovani (giovani, non adolescenti), come Wren, come Morgan Leah, ma o erano stati addestrati fin da piccoli (primo caso), oppure da tempo combattevano contro la Federazione (secondo caso); a differenza di questi due, Par non aveva nessuna capacità combattiva, ma possedeva la Canzone Magica (che almeno all’inizio era capace di creare solo illusioni) e per questo era stato scelto dallo spirito di Allanon per il compito di soccorrere le Quattro Terre; ispirato dalle geste di eroi di cui canta, decide di accettare quanto richiesto dal druido di un tempo, ma per questo chiede aiuto a chi è più capace ed esperto di lui (Morgan Leah, Padisar Creel e i Nati Liberi), come il buon senso suggerirebbe di fare. Invece ne Il potere della magia il buon senso viene messo da parte e si punta tutto sul “youth power” (adolescenti che solo perché tali hanno il potere di risolvere tutto).
Così, grazie al “youth power”, ci si deve sorbire una scena ridicola dopo l’altra. Prue e Panterra sono seguiti da un nemico molto pericoloso, come li avvisa la nuova capacità di Prue avuta dal re del Fiume Argento (saltato fuori così all’improvviso); si apprestano a fargli un’imboscata, lui li sorprende ma viene lo stesso messo al tappeto in pochi secondi. Catturato e legato, l’assassino Bonnasaint, declama che non rivelerà nulla ai due giovani, nemmeno se è giorno e notte; nel giro di poche pagine, Prue e Panterra decidono di portarlo dalla regina degli elfi e l’assassino spiattella tutto senza colpo ferire. Poco dopo, sfrutta una cavolata di Prue e la prende in ostaggio per scappare, ma la ragazza si libera e lo pugnala ammazzandolo all’istante. Per fortuna era uno che aveva eliminato tanti avversari molto più pericolosi dei due giovani: bei tempi quando Brooks raccontava di Pe Ell (personaggio di Il druido di Shannara), un assassino con i fiocchi, non quella buffonata che è stato Bonnasaint.
Ma questo termine si può estendere a tutto il romanzo e spiace usarlo per un autore che ha saputo dare molto fino a un certo punto (fino al 2000), ma questa è la realtà: Il potere della magia è una buffonata. Scene assurde. Dialoghi penosi. Ragionamenti altrettanto scadenti. Personaggi secondari ben caratterizzati fino a questo momento rovinati, come successo con La principessa di Landover (qui alla domanda di Prue “Dove devo andare?” Il Re del Fiume Argento risponde “Segui il tuo cuore”…). Deus ex machina penosi (Panterra e la principessa degli elfi stanno andando incontro a un grande pericolo ma in loro soccorso arriva un drago che li ha seguiti percependo la scia lasciata dalle pietre magiche; la principessa capendo ciò, per addomesticarlo, usa di nuovo le pietre magiche e il drago si mette a giocare con la luce emanata da essa e a rincorrerla come farebbe un gatto. Le pietre magiche sono una cosa seria, non un oggetto da usare banalmente così). L’unica parte un poco passabile è quella del demone, anche se Brooks ha saputo fare di meglio con la trilogia del Verbo e del Vuoto e con Le Pietre Magiche di Shannara. Visti i successi avuti, non si riteneva possibile che un autore come Brooks per continuare a pubblicare si vendesse alla direttive dello young adult. Questa però è la realtà e occorre accettarla e trarne le relative conclusioni. Brooks adeguandosi a questo mercato ha perso moltissimo, sia come qualità dei lavori svolti, sia come lettori: se questo è il nuovo corso che ha deciso di seguire l’autore, come già dimostrato con La principessa di Landover, non ho intenzione di leggere altro di quanto ha scritto in seguito. E sconsiglio anche altri a farlo. Molto meglio rileggere quanto scritto in precedenza (praticamente tutto quello che viene prima della pubblicazione di Il viaggio della Jerle Shannara, che, comunque, alla luce di quanto letto, può tranquillamente essere rivalutato e addirittura divenire positivo). Lo stesso consiglio viene dato a chi volesse conoscere questo autore: si legga tutto quello che ha fatto prima del 2000.
Spiace dare un giudizio così negativo, visto il rispetto avuto per questo autore fino a un certo punto, ma Il potere della magia non merita altro. L’unica cosa utile di questo libro è che insegna a come non scrivere un buon romanzo fantasy e d’avventura. E fa riflettere su un aspetto: questo è quello che si pensa debbano leggere dei giovani lettori? Se è così, allora non si ha una gran considerazione di loro, dimostrando che tipo d’immagine ci si è fatti di chi sta per diventare adulto; una cosa per niente positiva e, se si vuole, a tratti pure insultante.
(su Letture Fantastiche c’è un approfondimento riguardo il calo di qualità delle opere di Terry Brooks)
Con L’oro bianco si conclude la seconda trilogia di Thomas Covenant e prosegue con la stessa atmosfera del volume precedente, ovvero l’assenza di speranza. La missione che ha portato il gruppo all’Albero Magico per creare un nuovo Scettro della Legge è fallita, uno dei giganti è morto nell’imprensa, degli Haruchai partiti per l’impresa (che un po’ ha ricordato il viaggio degli Argonauti e quello di Ulisse) è rimasto soltanto Cail, e Linden Avery scopre con gran sconcerto che non c’è nessuna possibilità di salvare Thomas, ferito a morte sulla Terra, ma che col potere dell’oro bianca era riuscito a curarsi sulla Landa; come già si sa, il tempo tra i due mondi scorre in maniera molto diversa (quelli che sono pochi istanti sulla Terra, sulla Landa sono giorni o settimane) e quindi Thomas Covenant nel mondo diventato ormai dello Spregiatore è ancora vivo, ma la sua vita sta inevitabilmente scivolando via. Covenant è consapevole di questo, ma non lo ha voluto rivelare a Linden, anche se essendo lei medico sperava che potesse salvarlo; ciò non ha fatto che portare attrito e lontananza tra i due. Come se non bastasse, l’Elhoim che è con loro non fa che rimarcare come Covenant debba cedere a Linden il suo anello, causando ancora più tensione tra i due; Covenant non vuole saperne di fare un simile gesto e l’unica possibilità che ha Linden per ottenere l’anello è quella d’impossessarsi di lui e usarne il potere.
Il ritorno sulla Landa non è per niente facile. Con la nave gravemente danneggiata, Thomas, Linden, Cail, la Prima, Posapece, Tessitore e Cercaporti debbono lasciarla e raggiungere la terra a piedi attraverso i ghiacci; vengono attaccati dagli arghuleh, feroci predatori del ghiaccio, e inseguiti fin oltre il loro territorio. Soltanto il prodigioso, quanto casuale, intervento di Hamako e dei silfidi li salva da fine certa. Ma si tratta di un momento di breve gioia: scoprono che i Silfidi giunti fin lì sono gli ultimi, distrutti nei propri rifugi dalle Abbiezioni, convinte che abbiano rivelato a Thomas e Linden il segreto riguardante Vain.
Hamako, per fermare gli arghuleh si sacrifica, distruggendo il croyel (creatura già incontrata quando hanno combattuto contro Kasreyn) che teneva uniti i feroci esseri del ghiaccio. Il gruppo raggiunge la Rocca dei Signori, dove trovano Hollian, che è incinta, e Sunder e gli Haruchai che sono stati liberati dalle prigioni delle rocca: loro sono gli unici che si oppongono al potere dei signori, dato che i Pietrai e i Silvani, benché li sostengano, sono stati razziati da tutte le persone che possono combattere per alimentare con il sangue il Sole Ferito. Covenant riesce a vincere il Posseduto che guida i Signori e a distruggere la fornace che alimenta il Sole Ferito, ma viene perso Cercaporti, desideroso di avere vendetta per la fine del fratello.
Ormai non rimane che affrontare lo Spregiatore, nel suo covo sotto le radici del Monte del Tuono. Hollian muore per cambiare il Sole Ferito e far sì che abbiano le condizioni favoreli per raggiungere la base del nemico, ma quando raggiungono l’Andelain, l’unica area della Landa non colpita dal Sole Ferito, Caer Cavedal, suo Forestale e un tempo Hile Troy, si sacrifica per riportala in vita; ora, Thomas Covenant è l’ultimo rimasto delle avventure della trilogia precedente. Il Morto Kevin il Distruttore (il Signore che ha portato la distruzione sulla Landa quando ha combattuto contro lo Spregiatore molti secoli prima del primo arrivo di Covenant) avverte Linden che Covenant vuole consegnare allo Spregiatore l’Anello Bianco; Covenant non parla con lei del suo piano, ma prosegue per la sua strada. Alla donna non resta che fidarsi di lui.
Superati i Coboldi nelle catacombe del Monte del Tuono, il gruppo viene catturato: Covenant fa proprio quello che Kevin aveva detto e lo Spregiatore con il nuovo potere lo uccide. Il nemico è sicuro ormai di poter distruggere l’Arco del Tempo, ma non ha mai capito cosa è realmente l’oro bianco: come disse un tempo il Signore Mhoram a Covenant, è lui l’oro bianco. Covenant compare come Morto e lo Spregiatore si accanisce su di lui: avendo ora lui l’anello e usandolo su Covenant, è come se colpisse se stesso. E infatti lo Spregiatore finisce per distruggersi.
La Landa è salva, ma il processo di guarigione è lungo. Linden, venuto a mancare chi l’ha evocato, ha solo il tempo di affidare il nuovo Scettro della Legge (nato dalla fusione tra Vain, che ha funto da involucro, e Findail, che è Potere della Terra incarnato) alla Prima e Posapece, così che lo possano consegnare a Sunder e Hollian. Tornata sulla Terra, non può che costatare la morte di Covenant anche lì e affrontare quella che a tutti, tranne che a lei, appare come una follia collettiva mossa da isteria (la moglie di Covenant, dopo la morte del marito e la sconfitta dello Spregiatore, non è più preda della pazzia che si era impossessata di lei). L’oro bianco chiude così l’avventura di Thomas Covenant (anche se negli anni duemila Donaldson ha realizzato altri quattro romanzi dedicati all’Incredulo, al momento mai arrivati in Italia), lasciando l’amaro in bocca, a differenza della prima trilogia che dava un piccolo spiraglio di luce; il male che ha colpito la Landa è stato fermato, ma non si sa se quel mondo si riprenderà. Covenant dopo averne passate di cotte e di crude, senza aver assaporato una gioia ma conoscendo solo dolori, muore. Linden ritorna sulla Terra lasciando dietro di sé morte e ritrovando ad attenderla morte. Anche se si fa presagire che la Landa si riprenderà, non si hanno certezze sulla sua avvenuta; alla fine della lettura rimane solo perdita. Non che questo sia negativo (anzi, è di certo molto meglio di tanti young adult che purtroppo hanno infestato la lettura odierna con adolescenti che senza capacità diventano all’improvviso salvatori dell’universo ma che si mettono a cigare (frignare) appena l’ormone gli si gira), però si sperava in qualcosa di più simile al finale della prima trilogia, anche se, analizzando il tutto, la scelta fatta da Donaldson è coerente con tutto quello che ha scritto. L’oro bianco conclude degnamente questa seconda trilogia dedicata all’Incredulo, anche se, va detto, che per affrontarla occorre la giusta predisposizione d’animo.
Robin Hobb con L’assassino di corte riprende le avventure di FitzChevalier. Sopravvissuto al tentativo di omicidio da parte dello zio Regal (tentativo che avrà un prezzo alto, dato che perderà il primo cane con cui è stato legato e che il veleno con cui è stato colpito lascerà segni duraturi sulla sua salute), ma riuscendo a sventare il piano di eliminare Veritas, FitzChevalier ritorna a Castelcervo. La sua convalescenza è lunga, ma il suo sacrificio ha permesso a Veritas di sposare Kettricken, principessa del Regno delle Montagne, ottenendo così il prezioso legname per costruire le navi con cui combattere i Pirati Rossi. Dopo un iniziale successo contro il pericoloso nemico, le vittorie cominciano a diminuire: i pirati vengono avvistati tardi, le richieste di soccorso non arrivano, tutto quello che Veritas aveva messo in atto sembra aver smesso di funzionare. Così, in un ultimo disperato tentativo, il re in attesa decide d’intraprendere un lungo viaggio per trovare gli Antichi, che già in passato erano stati d’aiuto contro i pirati.
FitzChevalier, che lentamente si è ripreso, rimane a Castelcervo a vegliare su Kettricken e il bambino che porta in grembo, perché i piani di Regal per ottenere sempre più potere non sono finiti, anzi, s’intensificano sempre di più. E mentre combatte contro i pericolosi nemici che continuano ad assalire i villaggi della costa, si prende cura di un cucciolo di lupo (che diverrà suo fedele compagno) salvato da un avido mercante di animali, ha una relazione amorosa con la cara Molly (andata a lavorare nel castello dove anche lui vive), FitzChevalier ha a che fare con la dissolutezza di Regal, che impoverisce sempre più Castelcervo a favore dei ducati interni, di cui è originaria la madre defunta. Il malvagio zio, oltre a minare sempre più la credibilità dell’assente Veritas, a mettere in difficoltà e attentare alla salute di Kettricken, a usare gli addetti dell’Arte per controllare chi gli sta vicino, si spinge a eliminare lentamente suo padre, il re Sagace, avvelenandolo e prosciugando le sue energie tramite l’Arte. FitzChevalier, lasciato da Molly che lo accusa di essere troppo fedele alla corona, dopo aver visto spirare tra le proprie braccia il re, decide di mettere da parte sotterfugi e piani e decide di vendicarsi, riuscendo a uccidere i due addetti dell’Arte che hanno prosciugato l’energia vitale del re prima di essere catturato. Accusato di possedere la magia dello Spirito, viene torturato perché confessi la sua natura; aiutato da Umbra e Burrich, simulando la propria morte, a fuggire dalla prigione, Fitzchevalier è libero, anche se tutti lo credono morto. L’assassino di corte, come il precedente volume, è coinvolgente e si fa leggere con piacere, ma ci si pone una domanda: com’è possibile che, nonostante abbia già dimostrato di cosa è capace nel primo romanzo, Regal sia lasciato agire indisturbato? Ha tentato di uccidere Veritas, Burrich, FitzChevalier, ha complottato impoverendo sempre più Castelcervo, da quando si prende cure del re Sagace la salute è sempre peggiorata: tutto quello che di negativo succcede nel regno si sa che è colpa sua e nessuno fa niente per fermarlo, tutti assistono immobili a quello che fa senza mai intervenire. Sotto questo aspetto, verrebbero da fare delle critiche a Robin Hobb per come ha caratterizzato l’antagonista e per come gli altri personaggi reagiscono. Poi si guarda la realtà e si vede che di Regal, nel mondo, in posizioni di potere, che complottano, fanno i fatti suoi a discapito degli altri e del proprio paese, ce ne sono stati e ce ne sono tanti, in primis l’Italia, che purtroppo ha avuto al comando per quasi vent’anni una figura che ha fatto esattamente quello che ha fatto il personaggio creato da Robin Hobb; e allora non ci si meraviglia più e passa la voglia di criticare: tutti i paesi hanno il proprio Regal. E di Regal ce ne saranno sempre.
Piccola nota a margine su L’assasino di corte: dopo Regal, che ha il titolo di personaggio più odioso della serie, non si può fare a meno di dare una menzione per antipatia a Molly.
In L’albero magico continua il viaggio di Thomas Covenant e Linden Avery attraverso il mondo creato da Stephen R. Donaldson. Dopo aver affrontato la nuova Landa devastata dal potere del Sole Ferito, creato dal potere corrotto dei nuovi Signori della Rocca asserviti allo Spregiatore, i due provenienti dalla Terrra si sono uniti a un gruppo di Giganti e alla loro ricerca; legati da un fine comune, salgono sulla gigantesca nave di pietra Gemma della Rotte per raggiungere i famosi Elohim, coloro che possono indicare la rotta per trovare il Primo Albero, capace di dare il legno per ricreare lo Scettro della Legge. Lo Spregiatore però non si darà per vinto e continuerà a perseguitarli, attaccando Covenant attraverso un Posseduto e avvelenandolo ulteriormente, rendendo il potere dell’anello bianco sempre più fuori controllo.
Giunti sull’isola degli Elohim, scopriranno che questi esseri che possono assumere qualsiasi forma, sono molto di più di quel che appare, essendo profondamente legati al potere della terra, e non sono benevoli come le storie raccontano. Mistreriosi, pragmatici, non danno ai nuovi arrivati il benvenuto che si aspettavano, anzi, risultano essere quasi una minaccia con il loro tentativo di isolare i membri della spedizione e ammaliarli con le loro visioni. Senza contare che proveranno a isolare Vain, la creatura dei Demondim affidata a Covenant dal morto Seguischiuma, e che per dare la rotta per l’Albero Magico, imporrano il silenzio su Covenant, rendendolo praticamente un vegetale, visto che lo considerano una minaccia per l’intera creazione.
Fuggiti dall’isola degli Elohim, ma accompagnati da uno di essi, Flidail l’Incaricato, incapperanno in una tempesta che danneggerà seriamente la nave, costringendoli a cercare rifugio nel porto dei Bhrathair. Anche qui l’accoglienza è solo in apparenza benevola e tutto non è come si vuole credere: dietro la corte e chi comanda c’è in realtà il malvagio e quasi immortale mago Kasreyn, colui che ha imprigionato nel vortice le temibili Gorgoni del Grande Deserto. Come lo Spregiatore, mira a impossessarsi dell’anello di Covenant, ma fallisce nell’impresa, anche se ciò richiederà un prezzo alla compagnia.
Scampati al pericolo delle sirene, con gli Haruchai (il popolo da cui provenivano le Guardie del Sangue incontrate nella prima trilogia) che hanno seguito che Covenant che si dimettono dal suo servizio per quello che hanno provato con l’incontro con le creature marine, arrivano finalmente all’isola dove è custodito l’Albero Magico. Lì, Brinn, uno degli Haruchai, affronta il Guardiano dell’isola e, sacrificandosi, lo sconfigge, prendendo il suo posto e potendo così condurre Covenant alla meta. Quanto temuto da Sognamare (il gigante muto è dotato del potere della Vista, una sorte di chiaroveggenza) si sta per avverare, ma il suo sacrificio nel prendere un ramo dell’Albero Magico, riesce a sventare i piani dello Spregiatore, il cui fine era quello di spingere Covenant, col potere dell’anello bianco, a infrangere l’Arco del Tempo, perttendogli così di essere finalmente libero da quel mondo che lo tiene prigionero.
Con la missione fallita, la speranza sembra ormai perduta.
Così termina L’Albero Magico e non si può non notare come Donaldson si accanisca contro Covenant, come se volesse fargli pagare le mancanze che ha avuto nella prima trilogia: lo stupro di Lena, il non credere che la Landa sia un mondo reale, l’essere restio ad aiutare chi crede in lui e ha bisogno del suo aiuto. Non bastasse la lebbra e l’essere emarginato, prima ha a che fare sulla terra con una moglie impazzita che lo ferisce di continuo e un accoltellamento che lo lascai in fin di vita, poi nella Landa viene avvelenato più volte e più volte imprigionato per prendere possesso della sua fede nuziale, dato che è fatta di oro bianco, materiale rarissimo nel mondo magico in cui è finito.
Covenant non è certo un persoanggio simpatico (non fa neanche niente per esserlo) e non è neppure un eroe (essere il protagonista non rende automatica la cosa), però questo non avere un attimo di pace fa pensare. Per tutto L’albero magico, come anche nel precedente romanzo, c’è un’atmosfera cupa, quasi angosciosa, dove non c’è spazio per la speranza; certo, anche nella precedente trilogia le cose non andavano bene, ma c’era un’epica, un bene che si opponeva al male, che rendeva sopportabile la cupezza della storia. Qui invece non è così, visto che la corruzione dello Spregiatore ha colpito anche quelli che dovevano essere dalla parte della luce, come i Signori della Rocca e i Pietrai; in più, non c’è neanche la Landa con la sua magia, dato che il viaggio intrapreso da Covenant e compagni lo porta lontano da essa, verso terre che hanno ben poco di ospitale e gradevole.
Ecco, forse è proprio questa la cosa di cui si sente più la mancanza in L’albero magico: la figura della Landa. Sì, perché è proprio la Landa la vera protagonista dell’opera di Donaldson. E non bastano l’eroismo e lo stoicismo degli Haruchai Brinn, Cail, Ceer e Hergrom, le storie del gigante Posapece, la guida sicura di sua moglie, la Prima, e di tutti gli altri membri della Gemma delle Rotte per sopperire alla sua assenza. La ricerca, il lungo viaggio per mare che possono ricordare un poco le imprese dei miti greci, sono affascinanti, ma è la Landa che rende il lavoro di Donalson meritevole di essere letto.
Tutto sommato, L’albero magico non è da buttare, però risente del difetto che spesso accomuna i libri di mezzo di una trilogia. Un peccato.
L’apprendista assassino è il primo volume della Trilogia dei Lungavista realizzata dalla scrittrice americana Robin Hobb. Scritto in prima persona, il romanzo narra le vicende dall’infanzia di FitzChevalier, figlio bastardo di Chevalier Lungavista, re-in-attesa del Regno dei Sei Ducati; il suo arrivo inatteso (fino ai sei anni era vissuto con la madre e il nonno materno) fa cadere in disgrazia il padre, costringendolo ad abdicare. Affidato a Burrich, braccio destro di Chevalier che se n’è andato in esilio lontano da Castelcervo (la capitale del regno), cresce nelle stalle in compagnia di cavalli e cani; fin da subito mostra una grande affinità con gli animali, rivelando di possedere lo Spirito, la capacità di comunicare mentalmente e spiritualmente con le bestie. Ciò non è un bene, almeno per quanto riguarda la maggior parte delle persone, dato che viene visto come stregoneria, comportando la conseguente condanna a morte. Burrich, per difenderlo e far sì che la sua capacità non sia scoperta, sarà molto duro con lui sotto tale aspetto.
Ma le difficoltà non si limiteranno a questo per il piccolo Fitz, a lungo chiamato il bastardo. Il re Sagace mette gli occhi su di lui e decide di affidarlo alla guida del misterioso Umbra, assassino reale, per farlo divenire suo apprendista e successore. Nonostante il ruolo che ha, Umbra si rivelerà essere una figura paterna più di molte altre, dandogli insegnamenti che vanno oltre l’arte dell’assassinio e della conoscenza delle erbe; è sotto la sua ala che avrà a che fare con i Forgiati, persone private di umanità dai feroci pirati delle Navi Rosse, nemici spietati e grande minaccia dei Sei Ducati.
La vita di Fitz, non fosse già abbastanza complicata, viene sconvolta dall’arrivo di dama Pazienza, moglie del defunto Chevalier, che vuole conoscerlo e insegnargli a essere uomo di corte. Non solo: con grande insistenza riesce a ottenere che il giovane venga iniziato agli insegnamenti dell’Arte, la capacità d’entrare nella mente altrui. Per Fitz inizierà un periodo difficile, dovendo subire tutto l’odio di Galen, maestro dell’Arte, senza contare il disprezzo di Regal, suo zio e figlio minore di re Sagace. Tuttavia non sarà solo, ma potrà contare sulla simpatia e sul supporto di Veritas, secondogenito di Sagace, e sull’amicizia (e forse qualcosa di più) di Molly, una ragazzina di Borgo Castelcervo.
Gli anni dell’infanzia si trasformeranno in quelli dell’adolescenza e Fitz, affrontando prove sempre più dure, mostrerà la sua lealtà alla corona e soprattutto a Veritas, sventando a proprie spese una congiura ordita da Regal e Galen per eliminare lo scomodo secondogenito. L’apprendista assassino può essere definito come il cammino di crescita di un bambino che s’avvia verso l’età adulta in una corte piena d’intrighi e sotterfugi, ma è molto più di questo: c’è la magia, il mistero, ma soprattutto ci sono i rapporti con i personaggi, dove Robin Hobb dà il meglio di sé caratterizzandoli con grande perizia. Proprio questo è il punto di forza del romanzo che spinge il lettore ad andare avanti nello scoprire la storia di Fitz e del mondo che crescendo conosce sempre più; con uno stile accattivante, mai pesante, la scrittrice americana crea trame coinvolgenti che tengono sempre incollati alle pagine, rendendo L’apprendista assassino una lettura fortemente consigliata.
Commenti recenti