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Comedian, la banana di Cattelan.

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ComedianIn tanti hanno sentito parlare della banana di Cattelan, Comedian, la banana attaccata a una tela con un pezzo di nastro adesivo e venduta per 6,2 milioni di dollari. Come ben si sa, una banana è qualcosa che non dura molto e infatti l’acquirente dell’opera d’arte ha ricevuto un kit (un rotolo di nastro adesivo, una banana, il certificato di autenticità e le istruzioni per l’installazione) per realizzarla a casa sua. L’acquirente ha detto che sarà felice di mangiarsela (cosa che ha già fatto) e ha dichiarato che: “Non si tratta di una semplice opera d’arte, ma di un fenomeno culturale che unisce i mondi dell’arte, dei meme e della comunità delle criptovalute” e ha aggiunto anche “che mangerà questa banana “come esperienza artistica unica, per avere un posto sia nella storia dell’arte che nella cultura popolare”.” (1)
La cosa ha fatto discutere e in tanti hanno detto la loro. Qualcuno ha definito Cattelan un genio e da un certo punto di vista, lo si può definire tale, visto che con una spesa minima (si può trovare un chilo di banane a poco più di un euro, un rotolo di nastro costa poco di più) ha avuto un guadagno senza precedenti (si può tranquillamente dire sei milioni di volte superiore). Si è detto che Comedian è un’opera d’arte perché è una creazione prodotta da un artista, spostando il focus dall’oggetto artistico tradizionale al concetto che rappresenta, sfidando la nostra comprensione di cosa sia l’arte. Non si tratta di una semplice banana attaccata al muro, ma di un gesto che mette in discussione il valore simbolico, culturale ed economico degli oggetti e si pone in maniera critica nei confronti dello stesso sistema che l’ha prodotta. Si tratta di un ready made, ovvero di un oggetto ordinario, quotidiano, persino banale, che viene però spostato in un contesto artistico (per esempio una galleria d’arte) e diventa quindi un’opera d’arte per decisione di un artista che è universalmente riconosciuto per essere, appunto, un artista. (2)
Si è detto anche che costa tanto perché è un’opera d’arte a cui viene attribuito un elevato valore economico. Il prezzo elevato di Comedian non definisce la sua natura artistica, ma è piuttosto un effetto del sistema dell’arte contemporanea. L’opera sarebbe arte anche se non costasse nulla, perché il suo valore risiede nel concetto che rappresenta. Il costo è, come detto, un riflesso del valore che il mercato attribuisce all’opera (2). E si aggiunge che il valore di Comedian non risiede nel materiale (una banana e del nastro adesivo) ma nell’idea e nel contesto in cui è stata presentata. Chi ha acquistato l’opera non ha comprato un oggetto fisico, ma un’opera d’arte rappresentata da un concetto, e ha acquistato il diritto di replicarlo. L’acquirente ha riconosciuto in Cattelan un artista capace di catturare lo spirito del nostro tempo, e il prezzo pagato riflette questo riconoscimento. Un altro fattore è il prestigio associato al possesso di un’opera d’arte concettuale famosa. Comprare Comedian significa non solo possedere un pezzo unico della storia dell’arte contemporanea, ma anche partecipare a un discorso culturale che va oltre l’oggetto in sé. È come acquistare un simbolo: chi possiede Comedian possiede un pezzo della conversazione globale sull’arte. (2)
Chi più ne ha più ne metta; il link citato nel punto 2 parla ampiamente della cosa, difendendo Comedian a spada tratta: è un punto di vista.
Il mio punto di vista su tale questione è come quello del ragionier Ugo Fantozzi in Il secondo tragico Fantozzi (vedere dal minuto 1 e 33 della clip).

6.2 milioni di dollari per una banana attaccata con adesivo a una tela sono una cazzata pazzesca. Trovo difficile trovare parole per descrivere l’imbecillità della cosa. Non so se è più da imfamare chi ha realizzato questa cosa, chi l’ha valutata o chi l’ha comprata. Tutto questo clamore, tutti questi soldi investiti per una cosidetta idea, per qualcosa d’astratto, sono un’assurdità senza senso e trovo ancora più senza senso chi cerca di proteggerla e giustificarla. Comedian non è un’opera d’arte: l’arte è un’altra cosa, non è questa roba. A pensarci bene, Comedian, non può neppure rappresentare un’idea, come è stato detto, perché non si sa neppure di che idea si tratta. Questa al massimo è una provocazione, ma una provocazione non la si vende a questo prezzo; Cattelan non è un genio e non va nemmeno considerato intelligente: se fosse intelligente, non l’avrebbe venduta, l’avrebbe definita qualcosa che non ha prezzo. Invece se n’è approfittato e gli approfittatori non meritano di essere considerati artisti. Con 6,2 milioni di dollari si potevano fare scuole, ospedali, sfamare senzatetto, ricostruire interi paesi colpiti da disastri naturali e invece li si mettono per un frutto che dopo qualche giorno marcisce. Se è da biasimare l’autore di questa cosa, ancora di più lo è chi l’ha comprato, che perché ha tanti soldi vuole dimostrare di averli, vuole fregiarsi di titoli senza senso. Tutto questo è assurdità e follia, è un insulto ai poveri, agli sfortunati, all’intelligenza, ai veri artisti. Perché se Comedian è un’opera d’arte allora opere come la Gioconda, la Pietà, la Cappella Sistina, cosa sono? E quanto possono valere? Se seguiamo la logica usata per Comedian, siamo dinanzi a qualcosa di fuori scala, assolutamente priva di prezzo perché di valore incalcolabile.
Pazzia. Tutto questo è soltanto pazzia. E non ci meravigliamo se il mondo scivola sempre più in basso.

1. https://www.r101.it/news/fuori-onda-news/1377969/la-banana-di-cattelan-venduta-per-6-2-milioni-di-dollari.html
2. https://www.finestresullarte.info/arte-contemporanea/10-domande-e-risposte-per-capire-comedian-di-cattelan

Lo scrittore è ciò che scrive?

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J.R.R. Tolkien è stato uno scrittore che ha messo molto di sé nelle proprie opere.Lo scrittore è ciò che scrive?
Ovvero, i libri sono specchio di chi scrive? Se si tratta di un’opera autobiografica, sicuramente. Se si tratta di saggistica, lo scrittore mette una parte delle conoscenze che ha, ma non viene mostrato nulla del suo carattere, delle sue preferenze, antiatie, simpatie.
E per quanto riguarda la narrativa?
Dipende, anche se spesso un autore finisce per mettere una parte di sé in quello che scrive. Può essere un’esperienza, dei pensieri, un credo, alle volte finisce per riconoscersi anche con un personaggio. Uno degli esempi più immediati è quello di J.R.R. Tolkien, che mise molto di sé nelle sue opere; l’amore di Beren e Luthien è praticamente specchio dell’amore tra Tolkien e la moglie, l’amore per i cavalli che provava lo scrittore si vede nei Rohirrim. E poi ci sono gli orrori della guerra che sono quelli che lui ha vissuto nella Prima Guerra Mondiale, dove molto si sente della perdita degli amici; l’amore per la natura, i moniti per l’industrializzazione che avrebbe portato danni al mondo. Naturalmente, Tolkien è molto di più dei suoi scritti, però non si può non notare quanto di lui sia stato messo nelle proprie opere.
Altro esempio può essere quello di Stephen King, che nelle sue opere ha messo molti dei suoi incubi, delle sue esperienze, al punto che nella serie della Torre Nera lo scrittore americano ha voluto mettere il grave incidente che gli è quasi costata la vita nel 1999. Logicamente la cosa è stata romanzata e non c’è stato nessun incontro con i personaggi da lui creati (se non nella sua immaginazione), tuttavia non si può non notare quanto del reale è entrato nell’immaginario e quanta influenza ha avuto sui suoi scritti.
Tuttavia, non è così automatico che le opere siano specchio dell’autore: chi scrive di serial killer, di omicidi, non sta certo scrivendo di fatti che ha vissuto. A tanti può essere successo di fantasticare sulla dipartita di un capo dispotico e magari l’hanno pure messo su carta, ma questo non sta a significare che l’hanno fatto poi davvero nella realtà.
Battute a parte, alle volte succede che un autore scriva qualcosa di diverso da quello che sente, da quello che è; per esempio un autore può creare un personaggio che è in netto contrasto con la propria persona (esempio: Arthur Conan Doyle con Sherlock Holmes) oppure realizzare una figura che rappresenti quello che lui avrebbe voluto essere o che avrebbe voluto essere in una determinata occasione. Ci sono autori che mettono su carta storie oscure, fatte di personaggi non proprio positivi magari per esorcizzare lati di sé che temono (e qua viene da dire che è meglio mettere su carta violenza e omicidi che attuarla nella realtà), altri che cercano di mettere in mostra la parte migliore dell’uomo magari perché non sono riusciti a farlo nella realtà.
Sia chiaro: queste sono solo supposizioni, ipotesi. Solo gli autori che parlano direttamente di quello che scrivono, di cosa li ha ispirati, cosa hanno voluto mostrare, possono dare risposta a queste cose.
Questo però porta a un caso che ha fatto molto discutere e che è stato spinoso, ovvero quello di Marion Zimmer Bradley. In molti avranno sentito parlare della sua opera più famosa, Le Nebbie di Avalon, vuoi per averla letta, vuoi per aver visto la serie tv, vuoi perché è divenuto simbolo per aver dato risalto alla figura femminile, non più relegato a figura di secondo piano, ma protagonista, artefice del proprio destino. La Bradley fu vista per anni come una figura positiva, specie per come mostrava la donna nei suoi romanzi, almeno fino a quando, quindici anni dopo la sua morte, la figlia rivelò una realtà spiazzante: gli abusi sessuali subiti dalla madre. E lei non fu la sua unica vittima.

“Dopo il divorzio dal primo marito, la scrittrice si risposa dopo nemmeno un mese con Walter Breen, un numismatico, da cui successivamente ha due figli. Breen ha già condanne di piccola portata per molestie su minori nel momento in cui si sposano. Nel 1989, Breen è accusato, da parte della figlia Moira, di molestie sessuali nei confronti del figlio di una collega della Bradley, una organizzatrice di convention di fantascienza, che per un periodo era residente a casa dei Breen.
Grazie alla denuncia di Moira, Breen è arrestato e processato, in quanto non solo deve rispondere del recente capo d’accusa, ma anche di altri ventidue casi di abuso sessuale testimoniati sempre dalla figlia. Il Processo si trascina per alcuni anni, finchè nel 1991 Breen è condannato a dieci anni di carcere, dove però muore poco dopo, nel 1993. All’epoca dei fatti, durante gli interrogatori, la Bradley dichiara di essere al corrente delle attività del marito, contribuendo addirittura a coprirlo. Nonostante ciò, la scrittrice non subisce nessuna condanna. Perciò, quando 15 anni dopo la morte di sua madre, Moira rivela in un blog le atrocità subite, esse sono meramente una conferma di una situazione già in parte nota.

“Era molto peggio.
La prima volta che lei mi ha molestato avevo tre anni. L’ultima ne avevo dodici ed ero in grado di scappare.
Ho mandato in prigione Walter per aver molestato un ragazzo. Avevo cercato di intervenire già quando avevo tredici anni, dicendo tutto a mia madre e a Lisa (Elisabeth Waters – compagna della Zimmer, ndr.), ma loro si limitarono a farlo trasferire nel suo appartamento.
Ho dovuto spesso dormire da amici sin da quando avevo dieci anni, a causa del costante flusso di persone fuori controllo per la droga che andavano e venivano e delle orge che si tenevano nella nostra “casa”.
Non sono novità.
Walter era uno stupratore seriale, aveva fatto molte, molte vittime (alla polizia ne ho elencate ventidue). Ma Marion era di gran lunga peggiore. Era crudele e violenta, sessualmente del tutto fuori di testa.
Non sono la sua unica vittima e le sue vittime non erano solo bambine.
Vorrei poter avere notizie migliori.”
Dopo queste affermazioni, si sono tutti domandati per quale motivo Moira parlasse di quanto accaduto solamente dopo quindici anni dalla morte di Marion Zimmer Bradley. Sulla questione, la Greyland risponde tramite il The Guardian:

“Perché ho pensato che i fan di mia madre si sarebbero arrabbiati con me per aver detto qualcosa contro una persona che si era battuta per i diritti delle donne e che aveva portato molti di loro a percepire in modo diverso se stessi e la propria vita. Io non volevo ferire nessuno di coloro che aveva aiutato, così ho tenuto la bocca chiusa.”

Successivamente Moira, con altre lunghe lettere, descrive nel dettaglio anche la violenza psicologica subita. Entrambi i genitori hanno delle idee sul gender e sull’orientamento sessuale molto specifiche: tutte le persone sono omosessuali e cercano di nasconderlo per entrare nel costrutto sociale eterosessuale. Inoltre, sono inorriditi dalla femminilità della figlia.
Per anni, la forzano a farle credere di essere omosessuale e un maschio intrappolato nel corpo di una femmina. La figlia è, per la coppia, una sorta di esperimento sociale.
Qualche tempo dopo, anche il fratello Mark, conferma la versione della sorella, confessando di essere anche lui vittima di abusi sessuali dei genitori. (1)

Questi fatti hanno cambiato molto del modo in cui la scrittrice veniva vista; c’è chi l’ha rigettata (domanda personale: forse è per questo che nelle bancarelle dell’usato vedevo tante opere di questa scrittrice?), chi non sapeva come gestire la cosa, chi teneva separata la Bradley scrittrice dalla Bradley persona. Certo, fa molto pensare come una persona che abbia scritto libri come Le Nebbie di Avalon nella realtà abbia compiuto simili crimini. Forse lo scrivere è stato per lei un ricercare la parte più luminosa di sé che nella vita non aveva usato? Forse era stato una forma di riscatto? Forse un modo per coprire quello che aveva fatto, dando un’immagine di sé differente? Forse nei suoi libri metteva l’alter ego che avrebbe voluto essere?
Non ci sono risposte a queste domande, ci sono solo i fatti e i fatti sono che ha scritto bei libri ma ha anche commesso crimini non da poco, alcuni dei quali realizzati su dei bambini, il che rende la cosa ancora più grave. Sta a ognuno dare un giudizio e decidere se leggere o meno i suoi libri sapendo quello che ha fatto. Le Nebbie di Avalon (è del 1983) l’ho letto prima che si sapesse dei suoi reati; ho altri suoi libri che non ho ancora letto: forse li leggerò, forse no, dipenderà dal momento e se li troverò validi. Simili scelte le ho fatte con altri autori, come a esempio con Silvana De Mari: nonostante fossi critico per sue scelte e affermazioni, e non le condividessi per nulla, ho trovato validi dei suoi libri (L’ultimo elfo) (c’è però da dire che la De Mari non ha mai fatto di lontanamente paragonabile a quanto commesso dalla Bradley).
Come riportato dall’articolo linkato alla fine del post, non è facile trovare una risoluzione: “Una delle domande poste dal giornale è infatti se vi è il rischio di rigettare i valori promossi nelle opere rigettando la figura stessa che le ha create, oppure se si riesca a separare la figura da ciò che ha promulgato. Il giornale lascia aperta la domanda, ma rimarca che la sua linea di pensiero: “Sostenere questi autori manda un tacito messaggio che quello che stanno facendo vada bene.”
Forse non c’è una risposta a questa domanda, come forse non c’è una risposta alla domanda se lo scrittore è ciò che scrive. Forse perché non esiste un’unica risposta, ma ogni individuo deve trovare quella che è più giusta per il proprio essere.

1. https://site.unibo.it/canadausa/it/articoli/il-lato-oscuro-degli-artisti-marion-zimmer-bradley-e-le-nebbie-di-avalon

Planescape: Torment

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Ho parlato di Planescape: Torment recensendo Dungeons & Dragons – L’onore dei ladriPlanescape: Torment, asserendo che sarebbe stato più che adatto per la realizzazione di un film perché si è dinanzi a una gran bella storia.
Innanzitutto, parliamo dell’ambientazione. Planescape si differenzia dal più conosciuto mondo di Faerun perché mentre il secondo è la classica ambientazione composta da elfi, nani, gnomi, orchi, goblin, draghi, oggetti incantatti, magie (insomma, si pensi al genere sword and sorcery), il primo presenta un sistema più complesso. Innanzitutto, si può dire che Planescape sia un punto di raccordo con le altre ambientazioni di Dungeons & Dragons, collegandole attraverso portali magici; ciò rende molto interessante e varia la scelta del tipo di storie che si possono raccontare, oltre alla possibilità di visitare i vari Piani presenti in esso: ci sono quelli Interni (divisi in Elementali, Para-Elementali e Quasi-Elementali), quello Etereo, quello Astrale e quelli Esterni, probabilmente i più interessanti (tra i quali si possono citare Carceri, Baator, Abisso, Elysium). Il tutto fa centro a Sigil, la città delle Porte, completamente contenuta all’interno di un toroide di cui ricopre la superficie interna, situata in cima alla Spira, un picco di altezza infinita al centro delle Terre Esterne. Non c’è un cielo, ma solo una luce diffusa che illumina tutto; il passare dei giorni è creato dall’aumentare e diminuire dell’intensità della luce. Sigil è controllata dalla misteriosa Signora del Dolore (“Lady of Pain”), che tipicamente non si occupa degli affari giornalieri, ma interviene solo quando qualcosa minaccia la stabilità di Sigil stessa. Normalmente appare come una donna fluttuante in una lunga tunica che indossa una maschera metallica circondata da lame. Le sue motivazioni sono imperscrutabili, ma chi anche accidentalmente la offende o le si oppone viene scuoiato vivo o teleportato nel suo labirinto segreto. (1) Oltre alla Signora del Dolore, ci sono quindici fazioni, ognuna delle quali ha le proprie caratteristiche, i propri fini e i propri segreti.
Con queste basi e questa ambientazione, la Black Isle nel 1999 realizzò il videogioco Planescape: Torment. Sebbene apprezzato dalla critica, il gioco non andò bene in termini di vendite (in Italia non ebbe una traduzione ufficiale, la ottenne nel 2002 con una patch gratuita realizzata dall’Italian Translation Project), ma col tempo ebbe il riconoscimento meritato, perché si era dinanzi a una storia davvero profonda e articolata. Qualcuno dinanzi alla grafica potrebbe storcere il naso facendo il confronto con quelli attuali (ma si consideri che sono passati venticinque anni dall’uscita), ma se si vogliono fare confronti, allora c’è da dire che molti dei videogiochi attuali impallidiscono a livello di trama e personaggi. Soprattutto si differenzia da molti giochi attuali e del passato perché non tutto viene risolto combattendo; certo, si può scegliere la via del combattimento, ma le ricompense e le scoperte migliori si ottengono attraverso scelte basate su riflessione e conoscenza, non per niente la scelta migliore nel creare e sviluppare il personaggio è concentrarsi su caratteristiche come intelligenza e saggezza, così da poter scoprire molti più aspetti della storia del protagonista.
Ed eccoci al protagonista, attorno cui ruotano tutti i personaggi e la trama. Nameless One (uno senza nome) si risveglia all’interno di un obitorio, senza ricordarsi assolutamente nulla: non sa niente di sé, degli altri, degli eventi che l’hanno portato dov’è. Le uniche indicazioni che lo possono aiutare sono i tatuaggi che ha sul corpo, dove ci sono delle sue memorie. Questi e Morte, un teschio volante parlante che gli gira sempre intorno e ciarla in continuazione; assieme a lui, uscito dall’obitorio, comincia il suo lungo viaggio alla ricerca della storia su se stesso, sul perché sia praticamente immortale (pochissime cose gli possono dare la morte definitiva, come un potente oggetto incantato o la Signora del Dolore) e perché le figure più tormentate siano attratte da lui. Un viaggio attraverso Sigil e i Piani, dove incontrerà tracce su suoi precedenti passaggi, personaggi che hanno già avuto a che fare con lui, ma non solo (attenzione, spoiler): avrà a che fare con sue precedenti incarnazioni, che hanno pensato e agito in maniera differente: c’è stato un tempo in cui era pazzo, un altro in cui era freddo, distaccato e calcolatore, pronto a usare e sacrificare chiunque per raggiungere i suoi scopi (insomma, un vero bastardo). E poi c’è la prima, quella che ha dato il via a tutto, quella che ha rischiato d’infrangere i Piani per poter rimediare a tutto quello che ha fatto; la più comprensiva, quella con più rimpianto (questa è la risposta che dà a una delle domande più importanti del gioco: che cosa cambia la natura di un uomo?), quella che lo porterà all’epilogo della sua lunga e tormentata storia. Un epilogo che fa avverare le parole di una persona che tanto l’ha amato e che è giunta a morire per lui, ma non solo, che ha continuato a esistere anche dopo la morte per poter essergli di aiuto: “Ecco cosa vedono i miei occhi, amore mio, liberi dalle catene del tempo: incontrerai tre nemici, ma nessuno di loro più pericoloso di te stesso al pieno della tua gloria. Sono ombre del male, del bene e della neutralità, animate e forgiate dalle leggi dei piani. Giungerai ad una prigione costruita sul pianto e sul dolore, dove perfino le ombre sono impazzite. Là ti verrà richiesto di compiere un terribile sacrificio, amore mio. Per porre fine alla cosa, dovrai distruggere ciò che ti tiene in vita e non essere più immortale. So che devi morire… Finché puoi ancora. Il cerchio deve chiudersi, amore mio…”
Giunto alla Fortezza dei Rimpianti, situata nel Piano Negativo, affronterà Trascendent One, la sua mortalità corporeizzata, nata da un rituale perpetrato da Ravel Puzzlewell, strega notturna e la più potente delle Sorelle Grigie, per ottenere l’immortalità e rimediare a tutti i peccati commessi, perché una sola vita non sarebbe bastata per redimersi; il problema con questo rituale era che ogni volta che Nameless One moriva e rinasceva, un’altra persona moriva al suo posto, divenendo un’ombra dannata. Col tempo, tutto ciò avrebbe portato alla fine della vita, mettendo fine all’esistenza sui Piani. Ridivenuto una sola cosa con la sua mortalità, Nameless dirà addio ai suoi compagni giunti con lui fino a quel punto, scontando la sua pena combattendo nell’Ade nella Guerra Sanguinaria, uno scontro senza fine tra le forze del Caos e quelle della Legge (Demoni contro Diavoli), dove chissà, forse un giorno potrà, scontata la sua pena, trovare redenzione.
Per questo motivo nell’articolo precedente dicevo che con Planescape: Torment c’erano tutte le basi per fare un film basato sul mondo di D&D e di far saltar fuori qualcosa di davvero buono, perché si è dinanzi a una storia che ha lasciato un profondo segno nel mondo dei videogiochi.

1. https://it.wikipedia.org/wiki/Planescape

Dungeons & Dragons – L’onore dei ladri

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Dungeons & Dragons – L’onore dei ladriMemore della delusione dei precedenti film di D&D, Dungeons & Dragons – L’onore dei ladri me lo sono visto solamente quando è passato in televisione ed è stato bene così. Non che sia orribile, è un film passabile, fatto per l’intrattenimento, che gioca sul sicuro e non vuole scomodare e offendere nessuno; un film per le famiglie, un po’ buonista, che mai osa andare oltre  il semplice compitino.
Iniziamo dall’ambientazione. Siamo a Faerun, una delle ambientazioni più conosciute di D&D, resa celebre da autori come R.A. Salvatore e il suo famoso Drizzt Do’Urden con la sua lunga serie di romanzi o videogiochi come la serie di Baldur’s Gate o quella di Neverwinter Nights. Un’ambientazione di stampo classico, ben fatta, buona, ma a mio avviso ce ne sono delle superiori (Ravenloft) e più interessanti (Planescape). Come già detto, si è voluto andare sul sicuro.
Passiamo alla storia, molto semplice. Il protagonista della vicenda è un bardo che un tempo lavorava con gli Arpisti, un gruppo che lotta per il bene e per mantenere l’equilibrio; dopo però che i Maghi Rossi per vendicarsi delle sue azioni gli hanno ucciso la moglie, rinnega il suo giuramento e insieme a una barbara, alla figlia, a un mago e a un ladro, si dà ai furti. Si fida però della persona sbagliata, finisce nei guai, perde il rispetto e l’affetto della figlia e per riconquistarla si lancia in un’impresa per salvare la città di Neverwinter. Riuscirà nei suoi propositi, tutti saranno felici e contenti tranne il malvagio di turno che verrà sconfitto e avrà la punizione che merita. La trama è tutta qua.
I personaggi. Un canovaccio già visto. Il protagonista che in fondo è buono ma che ha perso la retta via, l’amica forzuta ma con poco acume che risolve tutto con le maniere forti, una druida che si erge a difendere la natura contro i soprusi del malvagio e il mago imbranato che non azzecca gli incantesimi. Una figura quest’ultima già vista, basti pensare a Orko di He-man, Questor Thews della saga di Landover di Terry Brooks o a Presto della serie animata degli anni 80 di Dungeons & Dragons (piccolo easter egg: il gruppo che rimane intrappolato nella gabbia acuminata nell’arena è quello del cartone animato).
Tutto sommato, Dungeons & Dragon – L’onore dei ladri non è male, ma sinceramente non me la sento di promuoverlo. Motivo? Con tutte le storie a disposizione si poteva e doveva fare di più. Non si è osato, non ci si è voluti impegnare, eppure bastava poco. Ci si poteva ispirare a figure come Strad di Ravenloft se si voleva virare sull’horror o a Lord Soth, se si voleva mostrare la caduta di un eroe (dato che per tanti una storia su un paladino o un cavaliere non hanno molto da dire, anzi, spesso sono una noia). Oppure, si poteva prendere la trama del videogioco di Planescape Torment e trasporla per il grande schermo: si sarebbe avuta una storia interessante, sfaccettata e profonda. Immaginate un uomo privo di memoria, col corpo pieno di tautaggi che si risveglia in un obitorio, e con unico compagno un teschio volante che ciarla in continuazione e fa battute a raffica. Il suo obiettivo è scoprire chi è, qual è la sua storia, perché non può morire e come venire a capo della scelta che l’ha portato fino a quel punto. Lungo il suo viaggio sarà affiancato da un gruppo variegato quale un guerriero che segue un codice, una sboccata tielfing, un drone con personalità, una casta succube, un’armatura animata da un forte spirito di giustizia; incontrerà le figure più strane e varie come angeli traditori, fantasmi tristi mossi da grande amore, streghe della notte, e viaggerà attraverso i piani, quali Carceri, il piano negativo, gli inferi.
Con Planescape Torment c’erano tutti i presupposti per fare un gran film. E invece ci si è accontentati di Dungeons & Dragons – L’onore dei ladri. Peccato.

Halloween: la fine della saga cinematografica?

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Halloween EndsComplice la programmazione televisiva di Halloween, ho guardato gli ultimi due capitoli della saga di Halloween, Halloween Kills e Halloween Ends; non che smaniassi di vederla, ma dato che avevo visto tutti gli altri, ho voluto completare la visione di questa lunga serie di film horror.
Inutile soffermarsi sulla trama, perché è sempre la stessa: Michael Myers viene ritenuto morto ma lui prontamente ritorna e fa una strage prima di essere fermato di nuovo (attenzione spoiler da qui in avanti). Così era successo in Halloween del 2018 (che riprende gli eventi di Halloween – La notte delle streghe del 1978 ignorando tutti gli altri film): Micahel dopo essersi preso pallottole, essere stato accoltellato, viene rinchiuso nel seminterrato della casa di Laurie (che aveva preparato una trappola perché sicura che prima o poi lui sarebbe tornato) a cui viene dato fuoco; nonostante la casa sia completamente ormai avvolta nelle fiamme, nei titoli di coda Michael è sparito dal seminterrato.
E infatti in Halloween Kills, penultimo capitolo della saga, Michael inesorabilmente ritorna: dopo che Laurie, la figlia Karen e la nipote Allyson si sono allontanate dalla casa, arrivano i vigili del fuoco che inavvertitamente liberano il famigerato assassino che ricomincia ad uccidere proprio eliminando loro. Segue solita carneficina, fino al finale che sinceramente lascia un po’ perplessi (anzi, per me fa cascare un po’ le braccia); se nel film precedente c’era pathos e credibilità nel finale, in questo proprio no.
Karen salva la figlia Allyson che sta per essere uccisa da Michael piantondogli un forcone nella schiena; naturalmente Michael non muore, ma Karen gli ruba la maschera e si fa inseguire, facendolo cadere in trappola: una folla inferocita e armata circonda Michael e dopo avergli sparato, lo massacra di mazzate, bastonate e chi più ne ha più ne metta. Mentre c’è questa scena, Laurie all’ospedale sta facendo un discorso a un altro ferito sulla natura di Michael: è qualcosa che va oltre l’essere umano (ma và, non si era capito) e più uccide, più diventa forte. Come a dargli ragione, Michael si alza in piedi e massacra tutta la folla, come se niente fosse, e prima di sparire, compare dietro a Karen che è lontano dal linciaggio e la uccide (manco avesse il teletrasporto). Uccisa la donna, Michael sparisce.
E qui viene una domanda da porsi: ma se più uccide più diventa forte, dopo aver massacrato la folla (saranno state una trentina di persone direi) sarebbe stato ormai inarrestabile. Invece Michael viene ritrovato per caso quattro anni dopo in una fogna gravemente indebolito. Misteri del cinema che deve trovare sempre pretesti per scrivere nuovi copioni dimenticandosi di quello che aveva detto in precedenza. Su queste basi si svolge Halloween Ends (ma, sorpresa, questa volta non è solo Michael a uccidere, perché il male non muore ma cambia solo forma); dopo diverse morti, si arriva al solito scontro finale tra Laurie e Michael; dopo essere stato accoltellato più volte, Michael viene inchiodato sul tavolo di cucina, bloccato facendogli cadere addosso un frigorifero, e dissanguato (gli vengono tagliati i polsi e il collo). Dopodiché, viene legato sul tetto dell’auto e scortato in corteo da tutti gli abitanti della città, portato in un trituratore industriale dove il suo corpo viene completamente distrutto.
Fine della saga? Sembrerebbe, anche se le parole di Laurie (il male non può morire ma solo cambiare forma) e l’ultima inquadratura con la maschera di Michael sul tavolo del salotto di Laurie fanno venire il sospetto che si stia tenendo una porta aperta per un altro capitolo (ma se Michael è stato completamente distrutto, come si farà a fare un altro seguito? Forse la maschera la indosserà Laurie, con lei divenuta come il fratello? Oppure lo spirito del fratello la possederà?)
Questi due ultimi film non sono stati nulla di che, rappresentano il fatto che quando una saga è tanto lunga non si abbiano più tante idee da usare e quelle che si trovano non siano poi il massimo.

Suicide Squad

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Suicide SquadSuicide Squad non fa eccezione: rientra tra i film Dc Comics che non mi hanno preso e questo riguarda la maggior parte di tali pellicole, chi più chi meno (certo è molto meglio del seguito, che davvero è meglio lasciar perdere). Va premessa una cosa: ho una conoscenza limitata dei personaggi tratti dai fumetti presenti in Suicide Squad. Conoscevo il Joker (ci vuole davvero poco, è il nemico numero uno di Batman, ma qui non un ha ruolo da protagonista), Harley Quinn e Deadshot come uno dei tanti avversari di Batman, ma degli altri praticamente non sapevo nulla (anche se va detto che Katana fa la sua comparsa nella serie televisiva Arrow, ergo non mi era nuova), quindi non posso dire se sono stati fedeli allo spirito e all’idea che stava alla base della Suicide Squad. Quello che posso dire è che i personaggi (stando a pareri di chi li conosce meglio di me), rispetto alla versione cartacea, sono stati addolciti, resi più “buoni” (rimanendo pur sempre dei criminali) per il grande schermo: questo si vede per esempio in Deadshot, dove ci si è dimenticati che è un individuo privo di sentimenti, pronto a tradire i compagni pur di raggiungere il proprio scopo. La Suicide Squad sembra un gruppo di reietti cui viene data una sorta di possibilità di riscatto e redenzione.
La trama del film è abbastanza semplice: senza più Superman a difendere la Terra, Amanda Waller crea una squadra di criminali a cui vengono dati sconti di pena e altri benefit per fermare una minaccia soprannaturale. La verità salterà fuori col tempo, ci saranno attriti interni, ma alla fine il gruppo farà fronte comune contro il nemico, ci sarà un sacrificio come ci si aspetta in un film del genere e alla fine tutto andrà come deve andare.
Tutto sommato, Suicide Squad non è un film malvagio, si lascia guardare, ma manca di mordente e in più di un’occasione regna la noia; una delle note positive è Margot Robbie, che interpreta Harley Quinn, a mio avviso una delle poche ragioni per vedere questo film (la sua interpreteazione è migliore di quella di Will Smith, che tutto sommato però il suo lo fa discretamente).
In una cosa però Suicide Squad è riuscita, ovvero creare il peggior Joker visto finora su schermo: in questa pellicola davvero inconsistente.
Pellicola che raggiunge la sufficienza ma nulla di più (ma se si fa il confronto con il seguito, si è di fronte a un film davvero buono).

Defiant

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DefiantDefiant conferma le impressioni che avevo avuto con Cytonic: la saga sci-fi di Brandon Sanderson è andata in calare. Con Skyward e Starsight, i primi due volumi della serie, la storia si era mantenuta su un buon livello, risultando coinvolgente e convincente, mentre con il terzo, il già citato Cytonic, si era cominciato ad avvertire una certa mancanza di mordente. Forse era stato l’immettere una sorta di giocare ai pirati di Spensa, forse era stata la specie di ricerca alla Indiana Jones (qualcuno potrà dissentire su quanto scrivo, ma tale è l’impressione che ho avuto leggendo Cytonic), ma ho trovato il tutto un poco fuori posto con l’ambientazione fantascientifica letta fino a quel punto. Sia chiaro: la fantascienza realizzata da Sanderson non è niente di complesso (nulla a che vedere con il mondo e la storia di Dune di Herbert), ma è godibile, almeno fino al terzo romanzo. Continua a esserlo anche con esso e dopo di esso, ma non è più la stessa cosa dell’inizio, non sorprende e non prende più allo stesso modo; è possibile che ciò dipenda dal fatto che la serie è indirizzata a un pubblico young adult e visto che ormai non ho più quell’età da un pezzo (gli anni si sono accumulati e così pure le letture fatte), la percezione e l’impressione sull’opera possono essere diverse (potrei dissentire su tale ipotesi, dato che i primi due romanzi mi erano piaciuti e mi avevano convinto e non è che ero adolescente quando li ho letti).
Una cosa però va detta: uno dei punti deboli più forti di Defiant è che si fa sentire con forza lo young adult, soprattuttto nella parte romance, quando Spensa comincia a partire per la tangente pensando a quanto è bello, quant’è figo il suo amato Jorgen. Niente in contrario con le storie d’amore: quella di Vin ed Elend nella saga di Mistborn era fatta bene. Quello che non va bene è lo scadere negli aspetti più negativi dello young adult, cosa che da Sanderson non si accetta, perché lo scrittore ha dimostrato cosa sa fare. Forse dipende dalle direttive editoriali, forse si è voluto realizzare qualcosa più per i giovani, dando insegnamenti come il non poter fare tutto da soli,  contare sull’aiuto degli altri, fare parte di un gruppo così da non essere soli perché se si è soli si fa una brutta fine (questa è la lezione che si apprende mettendo a confronto Spensa e Brade) ma da un autore come Sanderson ci si aspetta altro.
Altro aspetto penalizzante del romanzo è il che vada tutto bene, non ci siano vittime. Se da un lato è comprensibile che si cerchi un modo differente di battere la Superiorità evitando di causare un gran numero di vittime, è però anche vero che è poco verosimile che questo accada realmente. Se fosse stato così fin da subito, forse la cosa si sarebbe accettata di più, ma è stato il cambiamento fatto durante il corso dell’opera che invece lascia un po’ perplessi; in Skyward, tanti piloti umani vengono uccisi, la stessa Spensa vede morire dei suoi compagni di squadriglia, mentre in Defiant solo uno dei suoi amici rimane ferito (perdita di un braccio, rimpiazzato da uno arteficiale che non fa risentire dell’accaduto). Sì, verso la fine c’è un sacrificio nella battaglia decisiva (come spesso accade in una certa tipologia di storie), ma nulla di più. Sembra che alla fine tutto vada per il meglio, con tutti che si ritrovano a tarallucci e vino.
Quello che però più penalizza la storia, almeno per quanto pubblicato in Italia, rendendola meno comprensibile, è il fatto di avere a che fare con eventi di cui non si è letto nulla; ci si ritrova all’improvviso a sapere di Jorgen che ha salvato Nonnina e Cobb dopo che erano rimasti bloccati in una trappola citonica a seguito di un iperbalzo. Ci si trova davanti all’alleanza creatasi tra umani, kitsen e UrDail pronta opporsi e ribaltare la Superiorità. Ci si ritrova a sapere che i citonici kitsen sono stati liberati dalla loro prigionia e ora sono ben lieti di combattere contro la Superiorità. Tutti eventi probabilmente narrati in Skyward Flight (libro integratico di Cytonic), come si può intuire dalle parole di Sanderson nei ringraziamenti finali in Defiant (sarà tradotto in italiano?)
Come in altre opere di Sanderson ci saranno sorprese, non tutto apparirà come si credeva, ci saranno battaglie, uno scontro risolutivo epico, Spensa avrà la resa dei conti con Brade, si scoprirà che ci sono tante razze di lumache con diversi poteri, la natura degli Eradicatori verrà approfondita (era già stato rivelata in Cytonic), ma ci sono anche elementi inutili per la storia di cui si poteva fare a meno (che senso ha ricostruire il caccia che un tempo ospitava M-Bot se poi non lo si utilizza e viene accantonato come si fa con l’involucro di un cioccolatino?).
Per quanto godibile, Defiant è un po’ troppo semplice, lineare e anche prevedibile, ma soprattutto è troppo young adult. Forse ci si aspetta sempre troppo da Sanderson visto quello che ha saputo dimostrare e questa è la ragione per cui si è così critichi con questo romanzo, ma con Defiant si poteva fare di meglio.

The Tunnel to Summer, the Exit of Goodbyes

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The Tunnel to Summer, the Exit of GoodbyesThe Tunnel to Summer, the Exit of Goodbyes è la storia di due adolescenti, Tono Kaoru e Hanashiro Anzu, che s’incontrano in un giorno di pioggia alla fermata del treno; non avendo l’ombrello, il ragazzo dà alla ragazza l’ombrello perché vede che lei è senza e tiene ben stretta una borsa per non farla bagnare, segno che per lei è importante.
Come scopriranno poco dopo, sono nella stessa classe a scuola; Hanashiro praticamente non lega con gli altri compagni (anzi, ci litiga e viene pure alle mani), tranne con Tono, con cui sembra essere entrata subito in sintonia, forse perché hanno entrambi problemi con i genitori: lei vive da sola perché i suoi l’hanno mandata lontano da casa perché vuole seguire le orme del nonno mangaka (che hanno sempre considerato un peso e un fallito), lui vive con un padre alcolizzato dopo che la madre se n’è andata causa la scomparsa della sorella minore. La morte della sorellina ha segnato profondamente Tono, cambiandone il carattere e lasciando in lui una profonda ferita; è convinto che se la sorella non se ne fosse andata, la famiglia non si sarebbe sfasciata.
Le cose sembra che possano cambiare quando una sera, scappando di casa dopo che il padre ubriaco l’ha aggredito, Tono finisce per caso per trovare il Tunnel di Urashima capace, secondo una leggenda metropolitana, d’esaudire qualsiasi desiderio. Mentre lo esplora, trova uno dei sandali di Karen, la sorella, e subito dopo il pappagallino che avevano da piccoli, vivo e vegeto, quando ormai invece nella realtàè morto da tempo. Altra cosa che scopre una volta uscito dal tunnel è che è trascorso una settimana di tempo, mentre per lui sono passati pochi minuti.
Deciso ad approfondire la cosa, decide di ritornarci e a sua insaputa, viene seguito da Hanashiro. I due decidono di collaborare per venire a capo del segreto del tunnel e scoprire se per davvero può esaudire i loro desideri. La ragazza, durante le loro prove, ritroverà le tavole di un manga che aveva disegnato, e vuole esprimere il desiderio di diventare una mangaka affermata, dato che le possibilità per farcela sono poco e ci vuole un talento particolare per avere successo, cosa che lei non ritiene di avere.
Tono, dopo aver letto il suo lavoro, la incoraggia e lei decide d’inviare la sua opera a una casa editrice; con sua sorpresa, viene accettata, ma lei ritiene di non avere ancora successo e per questo decide di andare assieme al ragazzo fino in fondo al tunnel, come si erano promessi di fare.
Tono però non mantiene la promessa perché ha capito due cose: uno, che Hanashiro non ha biosgno del tunnel perché possiede già talento per avere successo; due, che il tunnel non esaudisce tutti i desideri, ma fa rriavere ciò che si è perso. Da solo entra nel tunnel, deciso ad arrivare in fondo al tunnell per riavere la sorella, anche se per farlo nel mondo reale passeranno degli anni.
Hanashiro, anche se sconvolta e staziata dal dolore di non poter rivedere Tono di cui si è innamorata, segue le ultime parole dell’ultima mail inviata dal ragazzo, e diventata una mangaka apprezzata. Tono, dal canto suo, riesce a ritrovare la sorella e mentre è assieme a lei nella loro vecchia casa, ritrova il cellulare che aveva gettato e legge le mail che Hanashiro gli ha inviato aspettandolo per anni. Tono capisce che entrando nel tunnel ha perso qualcos’altro e, incoraggiato dalla sorella, torna indietro.
Hanshiro ormai è una donna, ma quando rivede Tono, è come se il tempo non fosse mai passato e i due si baciano.
Cosa dire di The Tunnel to Summer, the Exit of Goodbyes? Un buon film, che come atmosfere ricorda quelle di Makoto Shinkai (vedere Your name): sognanti, un po’ tristi, che parlano di cose perdute, persone che si allontanano e a volte si ritrovano. Tomohisa Taguchi segue un po’ le tracce di Shinkai, discostandosi dalle atmosfere del manga (almeno questo è quello che si capisce leggendo altre recensioni) e prendendo un’altra direzione dalla versione cartcea (la storia si focalizza solo sui due ragazzi, che appaiono più chiusi e “cupi”). Lo sviluppo del tema amoroso e del capire cosa è importante e di come alle volte si perda di vista ciò che conta inseguendo sogni impossibili, non sarà dei più originali (si è visto tante volte in tante forme diverse), ma svolge il suo compito di creare una storia che prenda lo spettatore e lo porti fino alla fine; il finale può sembrare un po’ affrettato e scontato, ma serve per discostarsi da certe atmosfere tristi(certo, sarebbe stato più interessante mostrare una Hanshiro più adulta che si domanda se Tono sta ancora camminando nel tunnnel, mostarndo lui che ancora insegue il suo sogno e far finire così il film, ma queste sono solo disquisizioni inutili). The Tunnel to Summer, the Exit of Goodbyes è un buon film, ma non sarà annoverato tra quelli memorabili.

Josée, la tigre e i pesci

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Josée, la tigre e i pesciJosée, la tigre e i pesci è un bel film d’animazione di Kotaro Tamura, magari non proprio il massimo dell’originalità, che in qualche modo può ricordare La forma della voce (si parla di disabilità), ma è una pellicola interessante, impegnata, con una buona regia, una bella fotografia, una trama ben sviluppata e personaggi approfonditi, specie in quello di Josée (si fa chiamare così per via della protagonista del suo libro preferito, ma in realtà il suo vero nome è Kumiko Yamamura).
Josée è giovane donna disabile (è su una carrozzina a rotelle) e vive con la nonna iperprotettiva (i genitori sono morti da tempo); sa ben poco del mondo esterno e crede che tutto fuori di casa sia pericoloso e pieno di bestie spaventose (una delle frasi che dice è “ci sono tigri ovunque” e si capisce così in parte la ragione del titolo). Un giorno viene involontariamente salvata da uno studente universitario,Tsuneo Suzukawa, appassionato d’immersioni, il cui sogno è andare a studiare in Messico per osservare un pesce raro. La nonna, per ringraziarlo, gli offre un lavoro: occuparsi delle esigenze della nipote.
All’inizio il rapporto tra i due è difficile: Josée gli assegna da fare le mansioni più strane e inutili, lo tiranneggia, al punto che Tsuneo pensa di rinunciare al lavoro. Ma lentamente i due cominciano a comprendersi; Tsuneo le fa conoscere il mondo esterno, nonostante il divieto della nonna di uscire di casa (un divieto che però è solo di facciata, perché la nonna è felice che la nipote cominci ad aprirsi e a crescere). E mentre Tsuneo le fa rivedere il mare così da rispondere alla domanda fattale dal padre su quale sapore avesse il mare e le fa conoscere altre persone, rimane colpito dalla bravura della ragazza nel disegnare e nella passione che mette in quello che fa. Josée, dal canto suo, grazie anche all’amicizia di Kana, la bibliotecaria che ha conosciuto con le uscite di Tsuneo, si apre agli altri e scopre di voler pubblicare un libro illustrato per bambini.
Tutto sembra procedere per il meglio, ma la morte della nonna cambia le cose: Josée, essendo disabile, subisce pressioni dai servizi sociali e si scontra con una realtà diversa dai sogni che ha. C’è una sorta di frattura con Tsuneo e i due si allontanano, almeno fino a quando lui ha un incidente e rischia di non riuscire più ad andare in Messico; scoraggiato, Tsuneo pensa di rinunciare, ma la forza d’animo di Josée gli fa ritrovare il coraggio di non mollare. Ognuno dei due alla fine riesce a trovare la propria strada e a dichiarare i sentimenti che prova per l’altro.
Certo, Josée, la tigre e i pesci non è un film perfetto, ci sono delle forzature e delle coincidenze che fanno alzare gli occhi al cielo, come se tutto fosse guidato per arrivare a un determinato punto, ma nel complesso è un film godibile, che mostra come affrontare e superare le difficoltà, come comprendere e conoscere meglio l’altro. Forse il finale è la parte debole del film, spinto verso l’happy end, ma la critica non è tanto per la scelta che viene fatta, ma per come viene realizzata; ciò non toglie validità a Josée, la tigre e i pesci, uno di quei film che ogni tanto occorre vedere per capire che nonostante le brutture che ci sono nel mondo, c’è qualcosa per cui vale la pena andare avanti.