Quanta conoscenza perduta c’è nella storia dell’uomo?
Ci si è mai soffermati a riflettere su questo?
Se ci si pensa, già quando muore un singolo individuo si perde l’esperienza accumulata in tutta una vita e anche se l’individuo scomparso avesse raccontato ad amici e parenti quanto vissuto, nel giro di una/due generazioni questa andrebbe dimenticata e persa. Nel caso lasciasse qualcosa di scritto, come succede con autobiografie di personaggi noti, la conoscenza del suo vissuto potrebbe perpetrarsi un po’ più a lungo; ma va tenuto conto che un individuo non racconta tutto quello che ha appreso, specie per quanto riguarda le esperienze strettamente personali, e questa è irrimediabilmente conoscenza perduta, che andrà scoperta nuovamente da ogni singolo quando rivivrà esperienze analoghe. Anche lasciando qualcosa per iscritto, le esperienze passate vengono dimenticate, soprattutto vengono dimenticate le lezioni che hanno da dare, come purtroppo accade, basta vedere come le promesse fatte nel 1945 di non ripetere più gli orrori della Seconda Guerra Mondiali e poco più di quarant’anni dopo si sono ripetuti in quella guerra che ha diviso la Jugoslavia.
Anche se è brutto dirlo, questo è purtroppo qualcosa d’inevitabile, dato che sembra esserci qualcosa nella mente dell’uomo che spinge a dimenticare, specie le esperienze e gli eventi più nefasti, quando la memoria di ciò dovrebbe essere invece ben salda.
Ma quando è la conoscenza di un’intera civiltà, un popolo, ad andare perduta?
Si pensa a quale patrimonio l’umanità deve fare a meno? Che cosa porta questa perdita? Soprattutto, che cosa la causa?
Alle volte può essere una catastrofe naturale. Anche se per molti si tratta solo di un mito, basta pensare ad Atlantide: tra le varie storie sulla sua scomparsa, si racconta di una catastrofe che l’ha completamente spazzata via, lasciando di lei solo il ricordo, cancellando tutto il sapere che era a sua disposizione (un sapere che si narra ben più avanzato di quello attualmente in possesso dell’umanità). Senza scomodare il mito, basta pensare alla civiltà cretese, distrutta da un terremoto: è vero che non è scomparsa del tutto, ma è anche vero che dopo il disastro non è più riuscita a riavere il fasto di prima e parte del suo sapere è andato perduto.
Il più delle volte però la causa della perdita di conoscenza è dovuta all’uomo e sempre per via di guerre, di conquista, di sopraffazione.
E’ vero che i conquistatori hanno anche saputo inglobare il sapere degli sconfitti, come hanno fatto per esempio i romani con la cultura greca, apprendendo molto dal popolo conquistato, ma il più delle volte alla conquista è seguita la perdita. Non va dimenticato quello che ha fatto la Cina, che con i suoi vari governi ha distrutto interi patrimoni del passato.
Quante storie, lingue, sono andate perdute in questo modo?
Basta pensare ai nativi americani, scacciati dalle loro terre, rinchiusi in riserve quando non uccisi: un popolo spezzato, dove, dopo la morte degli anziani, il sapere delle tradizioni non è stato portato avanti dai giovani, andando così perduto, e ora rimane solo qualche frammento di ciò che si sapeva un tempo.
Adesso si può obiettare che se avessero avuto la tecnologia di cui ora si è in possesso, niente sarebbe scomparso. Ma se ne è davvero sicuri?
La tecnologia è volta sempre a evolvere, a creare cose nuove, ma spesso si dimentica, od omette volontariamente, di creare dispostivi che possano essere compatibili con quelli precedenti, facendo così perdere quanto era connesso a essi; qualcosa che va perduto in nome del consumismo e della ricerca di accumulare sempre più denaro che si nasconde dietro la maschera del progresso. E’ risaputo che a seguito di tale spinta si vorrebbe rendere tutto digitale, informatizzare ogni cosa (riviste, libri), in modo da non avere più nulla di materiale, così da rendere tutto più veloce e avere meno problemi di spazio e di consumo di materie prime.
Ma che cosa succederebbe se si perdessero i dispositivi per visionare i dati, se si perdesse il saper usare tale tecnologia o più semplicemente non si avesse più modo di alimentarli?
La conoscenza accumulata sarebbe qualcosa d’inutile, un grande tesoro cui nessuno potrebbe accedervi.
Su queste fondamenta si basa la trilogia di Il Viaggio della Jerle Shannara di Terry Brooks. Ben inferiore rispetto al ciclo precedente degli Eredi, con una trama meno strutturata e complessa e una caratterizzazione dei personaggi molto al di sotto di quanto l’ha preceduto (tra tutti l’unico che spicca e ha un qualche spessore è Truls Rohk), dove Brooks riesce a rovinare uno dei protagonisti che meglio è riuscito a tratteggiare in precedenza (Walker Boh), questa serie tuttavia riesce ben a mostrare come le conoscenze di civiltà del passato possano andare perdute. Il gruppo partito dalle Quattro Terre per Parkasia, alla ricerca di un tesoro (il sapere accumulato prima delle Grandi Guerre), dopo aver superato pericoli e orrori di ogni sorta, si ritrova a raggiungere l’obiettivo e a non poter farlo proprio, dato che non ha i mezzi per utilizzare i dispositivi tecnologici in cui la conoscenza è contenuta: i personaggi sopravvissuti hanno tra le mani tutto il sapere del passato e non possono farsene assolutamente nulla.
Quello di Brooks è un ciclo di fantasia, ma alcuni aspetti di quello che narra non sono qualcosa d’impossibile: che cosa accadrebbe se il mondo che noi conosciamo venisse distrutto da una grande guerra (cosa tutt’altro che improbabile, visto quello che sta accadendo e visto cosa ha insegnato la storia) e le generazioni nate dopo il conflitto, senza insegnamenti, trovassero i resti del sapere attuale?
La stessa identica cosa.
Fatto che è già accaduto: l’uomo si è diverse volte trovato di fronte a testi di lingue morte di cui non conosce nulla, perdendo così tutto quello che avevano da trasmettere.
Per quanto l’uomo si gongoli delle proprie scoperte, il successo di ciò che porta alla luce è inferiore alla perdita delle conoscenze che gli scivolano dalle mani e finiscono nell’oblio, spesso perdute per sempre.
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