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L’assassinio del Commendatore

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L'Assassino del CommendatoreL’assassinio del Commendatore ha i tipici elementi della produzione di Haruki Murakami: un’adolescente che esprime poco le emozioni ma ha particolari capacità sensoriali, il rapporto problematico del protagonista con una donna, lo stesso protagonista che vive una crisi esistenziale tra i trenta e i quarant’anni, una ragazza che improvvisamente e inspiegabilmente scompare, sogni così vividi da essere quasi reali che davvero vanno a influire sulla realtà, strani personaggi che aiutano i personaggi nel dipanarsi delle vicende, la musica (rock e classica) che sempre accompagna. La particolarità di questo romanzo è che la pittura ha un ruolo importante nelle trame e non per niente l’opera prende il titolo da un quadro di Amada Tomohiko, grande pittore giapponese nella cui casa il protagonista va a vivere da solo; i due s’incontreranno solo in un paio di occasioni, senza che però tra i due ci sia un dialogo vero e proprio, dato che Amada, colpito dall’alzheimer (come un altro personaggio di 1Q84), è ricoverato in una clinica ormai alla fine dei suoi giorni senza essere consapevole di quello che accade attorno a sé.
Non è una coincidenza che le vicende si mettano in moto quando il protagonista trova nel sottotetto della casa di Amada un quadro impacchettato; toltolo dall’involucro, si ritroverà davanti un’opera inedita di Tomohiko, L’assassinio del Commendatore. Il protagonista, pittore pure lui, attualmente impegnato come insegnate di disegno dopo aver lasciato il lavoro di ritrattista, capisce subito che è dinanzi all’opera migliore di Tomohiko: ne è colpito non solo dalla bellezza, ma anche dal fatto che l’opera ha un messaggio da trasmettere, come se fosse metafora di qualcosa che l’autore ha vissuto ma di cui non è mai riuscito a parlare. Forse, come riesce a scoprire, si tratta di quando Tomohiko viveva in Germania al tempo della Seconda Guerra Mondiale e partecipò a un attentato contro ufficiali nazisti; lui, grazie all’intervento del governo giapponese, riuscì a essere rimpatriato, ma quelli che erano con lui (anche la donna che amava) furono presi, brutalmente torturati e uccisi.
I misteri però non finiscono qui. Il protagonista ha a che fare con un personaggio dal forte magnetismo, il signor Menshiki, che gli chiede prima di fargli un ritratto, poi di aiutarlo a capire se una ragazzina, Marie Akikawa, possa essere sua figlia. Senza contare la buca nascosta che sta dietro la casa di Amada dove la notte, sempre alla stessa ora, risuona una campanella: dopo averla aperta, il protagonista comincerà a vedere il Commendatore del quadro di Tomohiko, vestito alla stessa maniera e avente la stessa statura di quella del quadro (una sessantina di centimetri). Anche se l’aspetto è lo stesso, questo personaggio è l’incarnazione di un’idea e fungerà, se così si può dire, da guida in un percorso strano e particolare.
L’assassinio del Commendatore è un romanzo lento e introspettivo, dove vengono raccontati i piccoli riti quotidiani che si perpetrano giorno dopo giorno. Le parti migliori sono il viaggio che fa il protagonista per il paese dopo che la moglie lo lascia e la sua permanenza nella casa del padre dell’amico Masahiko: la prima ha la forza di Norwegian Wood, con il personaggio che cerca di ritrovare se stesso, la seconda, con l’abitazione in montagna contornata da boschi, sa creare un’atmosfera di calma di cui necessita un’artista per realizzare i suoi lavori. L’aspetto più fantastico invece è quello che coinvolge di meno.
All’apparenza, i fatti che accadono in L’assassinio del Commendatore non sono molti, eppure con il suo stile tranquillo Murakami sa trascinare il lettore all’interno delle sue pagine. In definitiva, una buona lettura, in pieno stile Murakami, anche se gli manca qualcosa per raggiungere i lavori migliori dell’autore.

Dance dance dance

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Dance dance dance di Haruki Murakami chiude il ciclo iniziato con Vento & Flipper. Il protagonista, uno scrittore su commissione di articoli di vario genere, si ritrova a sognare l’Albergo del Delfino, un luogo che è stato importante nella ricerca del suo amico Sorcio nel volume precedente, Nel segno della pecora. Un luogo che l’ha segnato e che pare essere entrato a far parte del suo destino: fu lì che quattro anni prima, Kiki, la ragazza che frequentava, sparì dalla sua vita senza lasciare traccia. Vista la ricorrenza del sogno, capisce che quello è il punto di partenza per fare ordine nella sua vita, una vita dove tanti sono i morti e dove lui fa fatica a ritrovarsi.
L’Albergo del Delfino non è più il vecchio, sgangherato edifico di quando c’era stato la prima volta, ma è diventato una struttura moderna, molto più grande; ha mantenuto solamente il vecchio nome, una richiesta del proprietario precedente per cederlo alla società che l’ha rilevato. Ma c’è qualcosa che non va in esso, come racconta la receptionist che il protagonista comincia a frequentare: alle volte si finisce in un luogo freddo e buio, dove si percepisce una strana presenza. Quando il protagonista ci finisce, capisce che non è un luogo pericoloso, anche se non è adatto a viverci, ed è lì che rincontra l’Uomo Pecora, che lo sta aspettando da tempo perché il protagonista è legato all’albergo, un luogo di contatto che gli permette di ritrovarsi e ritrovare quello che ha perduto. Aiutato dall’Uomo Pecora che cerca di metterlo in contatto con quello che sta cercando, il protagonista deve seguire il flusso della vita, o l’istinto, o danzare, come gli spiega l’Uomo Pecora: solo in questo modo potrà risolvere lo stato confusionale in cui si trova.
E così, andando a vedere un film dove recita un suo ex compagno di classe, il protagonista vede in una scena Kiki, la ragazza di cui non ha saputo più nulla. Si rimette in contatto con Gotanda, il vecchio amico che ora fa l’attore e dall’albergo di Sapporo torna a Tokyo, non prima di aver riaccompagnato a casa Yuki, una tredicenne lasciata nel suo stesso albergo dalla madre artista. Un incontro che risulterà essere determinante per dipanare l’intricato mistero che avvolge certi elementi della vita del protagonista.
Tra vacanze alle Hawaii, squillo di lusso, omicidi veri e presunti, suicidi e realtà oniriche che si mischiano con quella reale, il protagonista si trova immerso in un vortice di eventi che lo portano a conoscere i più disparati personaggi, fino al giungere alla fine della sua ricerca esistenziale.
Dance dance dance è una tipica opera di Murakami, contraddistinta dal solito intreccio tra sogno e realtà, tra suicidi e cose perdute che più non possono tornare, dove la malinconia è uno dei sentimenti dominanti. Il protagonista è un uomo tra i trenta e i quarant’anni (età molto cara a Murakami dato che diversi dei suoi protagonisti ce l’hanno), appassionato di musica, che cerca di venire a patti con un passato irrisolto, ormai un classico per un romanzo dell’autore; come un classico è la ragazzina con doti inusuali e che parla in maniera particolare e la donna che sparisce dalla vita del protagonista, svanita in strane circostanze. Tutti questi sono elementi che solo chi già conosce altre opere dell’autore può individuare ma che non pregiudicano la comprensione di Dance dance dance, un’opera scorrevole e piacevole.

Vento & Flipper

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Vento & FlipperVento & Flipper raccoglie le prime due opere scritte da Haruki Murakami, Ascolta la canzone del vento e Flipper, 1973 scritte nel 1979 e nel 1980. Spinto da un’ispirazione improvvisa assistendo a una partita di baseball, Murakami, di notte, seduto al suo tavolo di cucina al ritorno dal lavoro, scrisse i suoi primi lavori, non senza difficoltà, cercando di trovare un modo di scrivere che lo soddisfi. La ricerca giunge a buon fine quando decise per prova di scrivere il suo primo romanzo in inglese, dopo un tentativo non andato a buon fine. La poca conoscenza dell’inglese lo portò a scrivere frasi brevi, costringendolo a trasmettere i suoi pensieri con parole semplici, a essere sintetico. Il tentativo gli fece trovare un suo ritmo; comprese che per impressionare il lettore non era necessario usare parole difficili né servirsi di un linguaggio elegante (una lezione che dovrebbero imparare tutti quelli che vogliono scrivere). A quel punto a Murakami non rimase che trasportare il lavoro fatto in inglese nella sua lingua, facendo così emergere uno stile tutto suo. La sua prima opera, Ascolta la canzone del vento, vinse il premio per esordienti. Da lì cominciò la sua carriera di romanziere.
Che cosa dire di Vento & Flipper?
Si avverte che sono le opere di esordio di Murakami, uno scrittore non ancora maturo, ma in esse si trovano i semi delle sue opere future, con elementi che lo scrittore userà in altri romanzi come a esempio A sud del confine, a ovest del sole. Ascolta la canzone del vento e Flipper, 1973 narrano la crescita dei due protagonisti, che dai tempi della scuola passano all’età adulta. Viene mostrata la ricerca di trovare qualcosa di cui si sente il bisogno ma che non si riesce a definire, la perdita di qualcosa che più non torna quando si cresce. Tutto è pervaso da una malinconia alle volte dolce, alle volte feroce, dove i punti di partenza sono la fine delle esperienze che hanno portato fino a lì. Non si può non notare come i locali abbiano un ruolo importante nelle opere di Murakami (queste due non fanno certo eccezione), dato che per diversi anni lui ne ha posseduto e gestito uno. Come non si può non accorgersi che la musica fin dagli inizi per lo scrittore è un elemento essenziale per la narrazione delle vicende.
Vento & Flipper, non sarà il capolavoro di Murakami, ma per un esordio è qualcosa di davvero meritevole.

Kafka sulla spiaggia

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Kafka sulla spiaggiaKafka sulla spiaggia è un’opera di Haruki Murakami realizzata nel 2002. Un romanzo particolare e non solo per la storia che racconta, ma anche per la struttura usata: i capitoli si alternano narrando le vicende dei due protagonisti, Kafka e Nakata. Non è questa però la vera particolarità, ma l’uso di due punti di vista differenti: per il giovane Kafka, Murakami usa la prima persona, per il vecchio Nakata, la terza.
Il romanzo inizia con la fuga di casa di Kafka per sfuggire non solo da un ambiente che non sente suo, dove non è amato, ma anche per evitare la profezia fatta da suo padre, che ricalca il mito di Edipo (l’eroe greco uccide il padre e giace con la madre). Ma la storia inizia prima della sua nascita, quando qualcuno ha aperto la pietra dell’entrata, cambiando così il corso degli eventi. Toccherà all’anziano Nakata rimediare a questo. Anche se abitano vicino, i due non s’incontreranno mai di persona, non sapranno nulla l’uno dell’altro, ma i loro destini sono correlati e le azioni di uno avranno influenza sulla vita dell’altro.
Più di altre opere di Murakami, Kafka sulla spiaggia gioca sul mistero e sulle cose non dette e non chiarite. Rimane un mistero quello che è successo a Nakata da bambino, con quell’incidente particolare dove lui e tutti i suoi compagni sono svenuti per alcune ore, ma con lui che è l’unico rimasto incosciente per diverse settimane e al risveglio aveva perso la capacità di leggere e di scrivere e metà della sua ombra, ma aveva acquisito la capacità di parlare con i gatti. È un mistero il ragazzo chiamato Corvo che ogni tanto appare a consigliare Kafka: non si tratta di un personaggio creato dalla mente del ragazzo, ma non è neppure un essere della realtà materiale; forse si tratta di uno spirito o di qualcosa del genere.
Kafka sulla spiaggia è un romanzo pieno di personaggi particolari. Il signor Oshima, la signora Saeki, gatti che parlano, Johnnie Walker, il colonnello Sanders. Come in altre opere di Murakami ci sono dei temi ricorrenti: la casa isolata sulle montagne dove per un certo periodo un personaggio vi si rifugia, la musica che accompagna e ha un ruolo importante per i protagonisti, un luogo dove il tempo non scorre; anche Kafka sulla spiaggia prende il titolo da una canzone che il protagonista ascolta (ma il titolo questa volta è riferito anche a un dipinto che ha un ruolo importante nelle vicende del ragazzo).
Come già detto, un’opera particolare, capace di lasciare un segno, facendo riflettere sul restare ancorati al passato e non riuscire ad andare avanti: per quanto difficile e amara, la vita va vissuta, rifugiarsi in luoghi immaginari o nel ricordo non fa ritornare quanto è trascorso.

Il mestiere dello scrittore

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Il mestiere dello scrittoreDi Il mestiere dello scrittore di Haruki Murakami ho già parlato in due precedenti articoli (Sull’importanza dell’educazione e Il fallimento del boom del fantasy). Occorre chiarire subito una cosa: non si tratta di un manuale di scrittura. Non vengono dati insegnamenti su come scrivere un romanzo, non c’è la ricetta magica per divenire scrittori di successo che tanti aspiranti autori ricercano: questa è un’illusione che occorrerebbe togliersi subito dalla mente se si vuole intraprendere questa strada.
Tuttavia, c’è tanto da imparare da Haruki Murakami, dal racconto che fa delle sua esperienza. Il rapporto che ha con la scrittura, con i premi letterari, il suo modo di lavorare: lo spirito di Il mestiere dello scrittore è far riflettere, rendere consapevoli di tante cose: dell’impegno che ci vuole per migliorarsi, dell’importanza del leggere tanto, su che cos’è l’originalità, sulle cose che non vanno nella società.
Haruki Murakami ha tanto da dire al lettore, ma la cosa principale che chi vuole essere scrittore deve comprendere è che ognuno deve trovare la propria strada da solo, non può ripercorrere quella percorsa da un altro perché per lui potrebbe non essere valida: questo è un errore che in tanti commettono cercando di andare per imitazione e che va assolutamente vietato. Certo, possono esserci dei punti in comune, ma deve avvenire naturalmente, non essere qualcosa di voluto.
Come fatto per On Writing di Stephen King, è una lettura che consiglio caldamente.

Il fallimento del boom del fantasy

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Qualche anno fa c’è stato il boom del fantasy in Italia.
Fu un periodo, per il settore, di grande esaltazione: in tanti ci si sono buttati, in tanti hanno scritto romanzi appartenenti a questa categoria. Le case editrici sfornavano fantasy a tutto spiano. In tanti inneggiavano a una ribalta del genere. A chi faceva notare che le cose non sarebbero durate se non si fosse cercata maggiore qualità, veniva detto di stare zitto, di non fare il menagramo, di smettere di voler male all’editoria vedendola come un male.
Un estratto di Il mestiere dello scrittore che spiega il fallimento del boom del fantasyL’editoria non era il male, ma la mentalità che l’aveva pervasa sì, perché si mancava di conoscenza, di preparazione, s’improvvisava e si agiva senza pensare; si è seguita la moda, si è cavalcata l’onda del momento, poi tutto è finito e il mercato del fantasy è stato bruciato, tornando qualcosa di nicchia. Le cause sono state tante, ma uno degli errori più grossi è stato il voler seguire la moda, scrivendo seguendo indagini di mercato.
Il fantasy vende? Allora bisogna scrivere fantasy, non importa come.
Naturalmente questa è stata la scelta sbagliata. Il motivo lo spiega chiaramente Haruki Murakami in Il mestiere dello scrittore.

Un romanzo è qualcosa che scaturisce spontaneamente dall’animo dell’autore, non si può cambiare strategia con tanta disinvoltura. Non lo si può scrivere con un obiettivo in mente, dopo aver fatto delle ricerche di mercato. Ammettendo che qualcuno ci riesca, un’opera nata in modo così superficiale non riuscirà a conquistare un gran numero di lettori. E anche se avesse successo per un certo periodo, né l’opera né l’autore resisterebbero a lungo, verrebbero presto dimenticati. Abraham Lincoln ha lasciato queste parole: «Si possono ingannare molte persone per breve tempo. Si possono anche ingannare poche persone a lungo. Ma non è possibile ingannare molte persone per molto tempo». Credo che la stessa cosa si possa dire del romanzo. Ci sono tante cose a questo mondo che trovano conferma col tempo, soltanto col tempo. (1)

1. Il mestiere dello scrittore. Haruki Murakami. Einaudi Super Et, pag. 174-175.

Sull'importanza dell'educazione

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In un precedente articolo, affrontando l’argomento del calo di lettori in Italia, ho parlato di quanto questo dipenda dall’educazione e sull’importanza che essa abbia.
In un contesto differente (si parla del Giappone), Haruki Murakami fa un discorso analogo improntato proprio su quanto è rilevante la questione educazione. Una riflessione lucida e profonda tratta dal capitolo “A proposito della scuola” presente nel libro Il mestiere dello scrittore, che suggerisco caldamente di leggere.

Sull'importanza dell'educazione. Una riflessione basata su un brano tratto da Il mestiere dello scrittore di Haruki Murakami…all’epoca (ai tempi della scuola) per me leggere era più importante di qualsiasi cosa. Al mondo, inutile dirlo, ci sono un sacco di libri dal contenuto profondo, ben più emozionanti dei libri di testo. Libri che, pagina dopo pagina, ti entrano dentro. Ed è il motivo per cui non avevo mai voglia d’impegnarmi a studiare per gli esami…. La conoscenza acquisita macchinalmente in maniera non sistematica, col passare del tempo si dilegua da sé, svanisce, aspirata da qualche parte… sì, un luogo in penombra che è come il cimitero della conoscenza. Perché non è necessario conservarla indefinitamente nella memoria.
Invece ciò che resta nel cuore, senza svanire col passare degli anni, è molto più prezioso.… Ma non è un genere di conoscenza che abbia effetto immediato. Per rivelare in pieno il suo valore, ha bisogno di tempo. E disgraziatamente non ha alcun nesso con il risultato degli esami.

Negli ultimi anni di liceo ero in grado di leggere i romanzi inglesi in lingua originale…. Non per questo però i miei risultati in inglese sono migliorati.
…Tanti miei compagni avevano risultati ben migliori dei miei in inglese, eppure nessuno di loro era in grado di leggere un romanzo intero in lingua originale. Mentre io lo facevo senza difficoltà e con gran piacere. Ma allora perché i miei voti non miglioravano? Dopo aver fatto mille congetture, ho capito che lo scopo delle lezioni di inglese al liceo non era di insegnare agli allievi la lingua viva, pratica.
Allora qual era? Prima e innanzi tutto, ottenere un punteggio alto ai test d’ingresso all’università.

Ho l’impressione che fondamentalmente il sistema scolastico, e l’idea su cui si basa, in mezzo secolo non si sia evoluto… In qualsiasi materia, c’è da credere che il sistema educativo di questo paese non favorisca lo sviluppo armonioso delle qualità individuali. Ancora oggi inculca la conoscenza seguendo pedestremente i libri di testo e vuole solo far acquisire la tecnica per passare i concorsi di ingresso al livello di insegnamento seguente. E il fatto che alcuni allievi siano ammessi o meno in questa o quella università è motivo di gioia o dolore per insegnanti e genitori. È deplorevole.
…ho l’impressione che 1’obiettivo del sistema scolastico giapponese, quale lo conosco io, sia di formare individui con un carattere «da cane», utili a un sistema cooperativo; anzi, che a volte vada ben oltre, che tenda a formare gente con un carattere «da pecora», gente che si lasci condurre in massa in un luogo designato.
Questa tendenza non appartiene soltanto al sistema educativo, ma credo che si estenda anche al sistema sociale giapponese, basato sulla struttura delle imprese e della burocrazia. E tutto questo – la grande importanza attribuita ai valori espressi in numeri e all’efficacia immediata, la propensione utilitaristica alla «memorizzazione meccanica» – genera danni profondi in diversi campi. Per un certo periodo questo sistema utilitaristico ha funzionato molto bene….tuttavia, quando lo sviluppo economico era ormai alle spalle, quando la bolla è scoppiata sgonfiandosi di colpo, il sistema sociale che spingeva ad «avanzare tutti insieme verso la meta, come una sola flotta» ha terminato di svolgere il suo ruolo…. In qualunque società, naturalmente è necessario che ci sia consenso. Altrimenti le cose non funzionano. Al tempo stesso, bisogna anche rispettare l’eccezione, cioè l’esistenza di un gruppo relativamente limitato che si pone a una certa distanza dal consenso. Inserirlo nel proprio campo visivo. In una società evoluta questo equilibrio è essenziale. Perché dal modo di gestirlo nascono ampiezza di vedute, profondità e capacità introspettiva. Nel Giappone attuale però non mi sembra che la barra del timone sia rivolta in questa direzione, non abbastanza.
Ad esempio, riguardo all’incidente nucleare avvenuto a Fukushima nel marzo del 2011…A causa di quell’incidente nucleare, decine di migliaia di persone hanno dovuto lasciare le loro case e si trovano ora in una condizione senza via d’uscita, senza speranza di poter mai tornare alla loro terra. È una cosa che fa male al cuore. Ciò che ha portato a questo stato di cose, a prima vista è una disgrazia naturale al di là di ogni previsione, e alcune coincidenze gravi e sfortunate. Tuttavia, ciò che ha innalzato l’incidente al livello di una tragedia, a mio avviso è un difetto strutturale del sistema sociale presente e lo squilibrio che ne deriva. L’assenza di responsabilità all’interno del sistema, la totale incapacità di discernimento. L’efficacia perseguita senza ipotizzare la sofferenza di altre persone è un’efficacia nociva per mancanza di immaginazione.
La produzione di energia nucleare è stata promossa come politica nazionale sulla base di un solo argomento, «è utile all’economia», senza che ci venisse data la possibilità di esprimersi a favore o contro, e i rischi impliciti sono stati tenuti nascosti intenzionalmente (rischi che si sono però avverati in varie forme). Il conto questa volta abbiamo dovuto pagarlo noi. Se non facciamo luce sull’aggressività che si trova al cuore di questo sistema sociale, se non mettiamo in chiaro i fattori problematici e non li risolviamo alla radice, causeremo di nuovo lo stesso genere di tragedia.
L’idea che il Giappone, privo di materie prime, abbia bisogno dell’energia nucleare ha forse una sua ragion d’essere. Io per principio sono contrario, ma se venisse attentamente amministrata da qualcuno degno di fiducia, se la gestione venisse severamente sorvegliata da una terza parte all’altezza del compito, se il pubblico fosse informato con precisione, ci sarebbe forse spazio, in una certa misura, per una discussione. Ma un dispositivo che può provocare danni fatali come quelli causati dall’energia nucleare, un sistema potenzialmente tanto pericoloso da distruggere un paese intero (l’incidente di Cernobyl è di fatto una delle cause che hanno portato alla disgregazione dell’Unione Sovietica), quando è controllato da un’impresa commerciale basata sulla «priorità dell’efficacia» e sull’«importanza dei valori espressi in numeri», quando viene indirizzato o guidato da un’organizzazione burocratica che ha perso l’empatia con la natura umana e si regge sulla memorizzazione macchinale e la trasmissione dall’alto verso il basso, allora il pericolo è tale da far rizzare i capelli. Il risultato cui porterà sarà di distorcere la natura, causare danni fisici alla popolazione, far perdere la fiducia nello Stato e privare tanta gente dell’ambiente in cui ha sempre vissuto. Ed è quello che è successo a Fukushima.
Il discorso si è allargato, ma quello che voglio dire è che le contraddizioni del sistema educativo sono direttamente legate alle contraddizioni del sistema sociale. E viceversa. In ogni caso, siamo arrivati a un punto in cui non è più possibile trascurare queste contraddizioni.

I sintomi patologici (credo li si possa chiamare così) di un luogo educativo del genere sono soltanto il riflesso dei sintomi patologici del sistema sociale. La società nel suo insieme ha un suo vigore, e se gli obiettivi sono fissati saldamente, i problemi che si verificano nel sistema scolastico si possono superare con la forza inerente al sistema stesso. Ma se la società perde il suo vigore e qua e là si manifesta un senso di soffocamento, è nei luoghi educativi che questo avviene nella maniera più appariscente e svolge l’azione più forte. La scuola, le aule scolastiche. Perché i bambini, come i canarini che una volta venivano portati nelle miniere, sono le creature che riescono a percepire per prime, con molta sensibilità, la tossicità dell’atmosfera.

Riguardo ai profondi problemi educativi che ingenera una società di questo tipo, priva di sufficienti «vie di fuga», dobbiamo trovare soluzioni nuove. Cioè, andando con ordine, creare luoghi in cui cercarle, queste soluzioni.
Quali?
Luoghi dove l’individuo e il sistema possano muoversi in reciproca libertà e trovare, portando avanti negoziazioni fluide, utili punti di contatto. Spazi dove ciascuno possa stendere liberamente braccia e gambe e respirare a fondo. Dove allontanarsi dal sistema, dalla gerarchia, dall’efficienza, dal bullismo. In parole povere, un rifugio provvisorio, semplice e accogliente. Dove chiunque sia libero di entrare e uscire quando vuole. Una serena zona intermedia tra l’individuo e il gruppo, dove la scelta della posizione da prendere venga lasciata alla discrezione del singolo. Li chiamerei «luoghi per la rinascita dell’individuo»…. sarebbe bello che questi luoghi sorgessero qua e là spontaneamente.
L’ipotesi peggiore è che un organismo tipo un ministero delle Scienze li imponga dall’alto come un sistema. Noi qui stiamo parlando di «rinascita dell’individuo», quindi se il governo cercasse di trovare una soluzione sistematica, si arriverebbe a un vero e proprio capovolgimento del problema, a una specie di farsa.

Tornando a me, ricordo che quando andavo a scuola l’aiuto più valido mi veniva dai quei pochi buoni amici che mi ero fatto, e dai tanti libri che leggevo.
Libri di tutti i generi… penso che il fatto di leggere libri di generi diversi abbia relativizzato il mio campo visivo, cosa che per me adolescente ha avuto un’importanza immensa. Mi immedesimavo nei personaggi, andavo e venivo liberamente con la fantasia attraverso il tempo e lo spazio, vedevo paesaggi straordinari, lasciavo scorrere nella mia mente fiumi di parole, e così il mio punto di vista si è più o meno diversificato. E ho anche acquisito la capacità di considerare me stesso, che osservavo il mondo da varie posizioni, con una certa obiettività…. Se non ci fossero stati i libri, se non ne avessi letti tanti, probabilmente avrei condotto un’esistenza più arida e indifferente alle cose. Insomma per me l’atto in sé di leggere ha costituito una grande scuola. Una scuola costruita a mia misura, organizzata a mio solo beneficio, dove ho imparato di mia volontà tante cose importanti. Senza regole fastidiose, valutazioni espresse in cifre, competizione per classificarsi in graduatoria. E naturalmente senza alcun bullismo. Ho potuto, pur facendo parte di un grande «sistema», preservare quello mio personale e diverso.
L’immagine che ho di uno « spazio di rinascita individuale», è qualcosa che ci va molto vicino. Non si limita alla lettura. Un bambino che non si adatti alla scuola attuale, che non abbia alcun interesse per quello che studia in classe, se avesse a disposizione uno «spazio di rinascita individuale» fatto su misura per lui e vi trovasse qualcosa che gli piaccia, consono alla sua personalità, e se riuscisse a far durare quest’opportunità seguendo il proprio ritmo, credo che sarebbe capace di espugnare «le mura del sistema». Perché questo avvenga, tuttavia, è necessario che il bambino faccia parte di un gruppo in grado di comprendere e valutare il suo spirito (il suo modo di vivere in quanto individuo), cioè che abbia l’appoggio della famiglia.

In qualsiasi epoca, in qualsiasi società, l’immaginazione ha un ruolo essenziale.
Una delle cose che si trovano all’estremità opposta dell’immaginazione è l’efficienza. Ciò che ha scacciato dalla loro terra decine di migliaia di persone a Fukushima, se andiamo a cercare all’origine, è il valore attribuito all’efficienza: l’energia nucleare è efficiente, quindi è buona. Quest’idea, e la falsità del mito della sicurezza che ne è risultato, hanno messo il paese in queste condizioni tragiche, hanno prodotto questo disastro da cui non è possibile risollevarsi. Credo si possa dire che è stata una mancanza di immaginazione da parte nostra. Ma non è troppo tardi. Possiamo fare resistenza a questa mentalità pericolosa e di corte vedute, ma dobbiamo impiantare dentro di noi il perno di un pensiero libero. Poi protenderlo verso la comunità.
Intendiamoci, ciò che io chiedo alla scuola non è di sviluppare l’immaginazione dei bambini. Non oso sperare tanto. Si dica quel che si vuole, ma questa è una cosa che possono fare solo i bambini stessi. Non gli insegnanti né gli strumenti scolastici. Tanto meno il governo e le politiche educative. Non tutti i bambini possono avere una grande immaginazione. Così come alcuni sono bravi nella corsa e altri no, ci sono bambini dotati di fantasia e altri no – probabilmente manifesteranno talento per qualche altra cosa. È ovvio. Questo è il mondo. Se noi adottiamo uno slogan fisso – «sviluppiamo la fantasia dei bambini» -, di nuovo otterremo risultati distorti.
Ciò che chiedo alla scuola, è di « non soffocare la fantasia nei bambini che ne hanno», nient’altro. Sarebbe sufficiente. Lasciare ad ogni personalità abbastanza spazio per sopravvivere. In questo modo la scuola diventerebbe un luogo più libero e completo. Al tempo stesso lo diventerebbe, di pari passo, anche la società.
(1)

1. Il mestiere dello scrittore. Haruki Murakami. Einaudi Super Et 2018, pag. 116-131.

Norwegian Wood

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Norwegian WoodNorwegian Wood di Haruki Murakami, è un romanzo intenso e delicato, un romanzo di crescita che affronta temi come la malattia (fisica e mentale) e la morte (specie il suicidio), ma lo fa in maniera non pesante, seppur dandogli il dovuto rispetto che si meritano. Scritto nel sud dell’Europa, è stato iniziato il 21 dicembre 1986 in una villa di Mykonos in Grecia ed è stato terminato il 27 marzo 1987 in un appartamento alla periferia di Roma (1); tra le varie note dell’autore, c’è la dedica a tutti i suoi amici che sono morti e leggendo il romanzo non si può non notare, come già accennato all’inizio, che la morte sia una delle protagoniste della storia. La cosa può sembrare cupa, ma se ci si pensa, non si può parlare di vita senza parlare della morte, perché fa parte di essa, è un elemento che prima o poi tocca a tutti, e che tutti in un modo o nell’altro incontrano; pensare diversamente sarebbe qualcosa di sciocco, un voler chiudere gli occhi e cacciare la testa sotto lo sabbia. Per quanto la si possa ignorare, prima o poi farà la sua comparsa, e lo farà all’improvviso, oppure si farà annunciare da lontano, permettendo così di prepararsi al suo incontro, anche se in verità, per quanto ci si prepari, non si sarà mai pronti.
Questa è una delle realtà che Watanabe incontra nel passaggio da adolescenza a età adulta, in un periodo in cui cerca un senso alla sua vita, una direzione da seguire; il suo è un cammino instabile, come lo era il periodo in cui viveva, quello della fine degli anni ’60. Un periodo di cambiamenti, dove tutto pareva possibile, dove le cose potevano essere modificate e andare per il meglio se lo si voleva; un periodo che era pervaso dal sogno, ma che poi ha portato a un brusco risveglio, mostrando la cruda faccia della realtà. In un lungo flashback fatto all’età di trentasette anni, Watanabe ripercorre quel periodo della sua vita cercando di fare ordine nei suoi pensieri, fare chiarezza con quello che è accaduto. Tutto inizia con lui e Naoko, la fidanzata del suo migliore amico, che prendono a frequentarsi dopo la morte di quest’ultimo; entrambi sono appena entrati all’università (lui vive in un collegio maschile, lei in un appartamento) e iniziano una relazione non facile, dovuto alle difficoltà che la ragazza incontra sempre di più nel comunicare e nel pensare. A un certo punto lei sparisce e Watanabe per diverso tempo non ha sue notizie, fino a quando non gli giunge una sua lettera nella quale gli spiega che è ricoverata in una clinica tra le montagne per ritrovare il proprio equilibrio; la va a trovare e, grazie anche all’appoggio di Reiko, una donna che lavora nella clinica, comincia a prendere coscienza dello stato di Naoko. Nel mentre cerca di portare avanti gli studi universitari, anche se lo fa per inerzia, frequentando saltuariamente altre ragazze che incontra grazie al compagno di collegio Nagasawa; fino a quando nella sua vita non entra Midori, una ragazza che frequenta un suo stesso corso. E lui trova i suoi pensieri divisi tra queste due ragazze, che sono all’opposto. Una fragile e una forte, una introversa e una estroversa. Watanabe prova forti sentimenti per entrambe, ma non sa quale scegliere tra le due. Sarà la vita a farlo per lui.
Norwegian Wood (che prende il nome da una canzone dei Beatles e si riferisce alle atmosfera malinconiche che la musica crea) è uno dei romanzi più intensi di Murakami, quello che ha lasciato una traccia profonda nel modo di scrivere dell’autore giapponese e che verrà ritrovata nelle sue opere successive (basti pensare a A sud del confine, a ovest del sole e L’incolore Tazaki Tsukuru e i suoi anni di pellegrinaggio). Un romanzo da leggere.

1. Norwegian Wood. Haruki Murakami. Einaudi Super ET 2013, pag. 376

A sud del confine, a ovest del sole

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A sud del confine, a ovest del soleA sud del confine, a ovest del sole è un romanzo di Haruki Murakami del 1992. Un libro sulla solitudine, su tutto quello che è nascosto in una persona e che non può essere conosciuto se non viene condiviso volontariamente. E anche se condiviso, è difficile da capire. Un libro sulla distanza che c’è tra gli individui, spesso incolmabile, soprattutto dopo certe esperienze, dalle quali non si può tornare indietro.
Il romanzo racconta la storia di Hajime, dalla sua nascita (avvenuta il 4 gennaio 1951) fino all’età di trentasei anni. Figlio unico in un periodo in cui essere figlio unico era una rarità, si sente diverso, avvertendo un senso d’inferiorità nei confronti degli altri; almeno fino a quando, dodicenne, non conosce Shimamoto, una ragazza figlia unica come lui con una leggera zoppia alla gamba sinistra a causa di una poliomielite avuta da piccola. Fin da subito s’intendono reciprocamente e tra loro nasce un bel rapporto; rapporto che s’interrompe quando Hajime si trasferisce in un’altra città. Si perdono di vista; Hajime va al liceo, all’università, si sposa e gestisce due jazz bar nel quartiere di Aoyama. In un’occasione gli sembra di rivedere Shimamoto: la segue, ma l’insicurezza che sia proprio lei lo blocca. Quando decide di avvicinarsi, un misterioso signore interviene a fermarlo e impedirgli di continuare a seguirla.
Poi un giorno, grazie a un articolo sui suoi locali comparso su una rivista, Shimamoto ricompare ed è lei ad avvicinarlo. Il rapporto riprende come se non si fosse mai interrotto, i sentimenti mai dimenticati riaffiorano e s’intensificano. Hajime, nonostante non sappia nulla di Shimamoto, che rimane sempre un mistero, è disposto a lasciar perdere la moglie, i figli, il lavoro, pur di stare con lei; anche Shimamoto vuole restare con lui, vuole prendere tutto di lui. Tutto. Un legame intenso, totale, che prenderà a un certo punto una piega inaspettata. O forse no, se si è riusciti a comprendere il fatto che Shimamoto non accetta compromessi, la piega non è poi così sorprendente.
A sud del confine, a ovest del sole è un romanzo malinconico, che mostra il senso d’inadeguatezza che si prova verso un mondo dove comunicare con gli altri appare così difficile, dove si è soli e la solitudine pare essere l’unica compagna che mai abbandonerà l’individuo. Come in altre opere di Murakami,  anche in A sud del confine, a ovest del sole la musica ha un ruolo fondamentale nella vita dei personaggi e nel dare nome (o almeno a una parte) al titolo del romanzo (ma questo spetta al lettore scoprirlo da solo, dato che è una cosa che si rivela verso il finale, a differenza di L’incolore Tazuki Tzukuru e i suoi anni di pellegrinaggio dove lo si rivelava all’inizio e non c’è timore di fare spoiler nel parlarne), così come in esso emergono esperienze personali dell’autore e la morte. Sì, la morte, perché è anch’essa parte della vita, ne è parte integrante e nessuno non può che fare esperienza con essa, venendone toccato, ferito, stravolto. Chi ha letto altre opere di Murakami si sarà accorto che il modo di sviluppare la storia si ripete come in altri volumi (ma se si sa osservare, è così per quasi tutti gli scrittori, ognuno ha il suo marchio di fabbrica che lo contraddistingue), questo però non toglie che l’autore riesca a coinvolgere il lettore nelle vicende di Hajime: non importa se si sono capiti i meccanismi di scrittura di Murakami, si vuole scoprire come andrà a finire  la storia del protagonista,  in che direzione lo condurrà la sua scelta. Murakami in questo non delude e tocca nel profondo l’animo di chi legge, soprattutto con quello che non scrive, ma che si fa intuire, dando a A sud del confine, a ovest del sole un velo di mistero e dubbio che dona ulteriore spessore all’opera.