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Il coraggio di pensare

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Paolo Crepet. Il coraggio di pensarePensare. Una gran cosa. Un elemento che caratterizza e distingue l’essere umano.
Ma è qualcosa che si sta perdendo. Brutto da dire, ma è così: si sta perdendo la capacità di pensare.
Si pensano a cose sciocche, banali, ci si perde dietro il superfluo.
E questa cosa colpisce soprattutto i ragazzi condizionati da tutte le parti: social, media, genitori, scuola.
Sembra che nessuno voglia prendersi più la responsabilità di far ragionare i giovani, d’insegnarli dei valori, di mettere anche dei paletti, perché dare tutto e darla sempre vinta ai ragazzi è tra le scelte che fa più danni (vedere i metodi diseducativi di Benjamin Spock).
Eppure bisogna. Ma non è qualcosa di così complicato.
Il pensare è un’attività che si basa sullo stesso principio del saper risolvere problemi algebrici e dell’avere una muscolatura tonica: si sviluppa e si mantiene con un’attività costante. Non si tratta di un dono divino e neppure di qualcosa riservato a una casta di pochi eletti (laureati, nobili, ricchi), ma di un qualcosa che appartiene a tutti quanti. La differenza di livello che si può raggiungere nel pensare dipende solo dall’abitudine, dalla frequenza e dalla diversità dei modi con cui lo si usa: risolvere problemi pratici, leggere libri dagli argomenti più diversi, ma soprattutto osservare la realtà con occhio obiettivo e distaccato, senza esserne coinvolti (che è forse la parte più difficile da mettere in atto).
Ma se capire come sviluppare la capacità di pensare è importante, lo è ancora di più comprendere perché il pensare è qualcosa che occorre mantenere sempre attivo e ben allenato: se non si hanno buone capacità di ragionare, si finisce per essere manipolati e sfruttati, influenzati da ciò che accade attorno a noi. Eliminare del tutto tali manipolazioni, influenze e sfruttamento è qualcosa di davvero difficile da attuare, ma sicuramente si può limitare il loro raggio d’azione e d’influenza.
Il video di Paolo Crepet, Il coraggio di pensare, è lungo, ma merita di essere visto. Dà molti spunti su cui riflettere.

The first slam dunk

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The first slam dunkCosa dire di The first slam dunk, il film che mostra l’atto conclusivo del manga Slam Dunk di Takehiko Inoue? Che è un buon prodotto, ma che allo stesso tempo è e non è Slam Dunk.
Certo, la pellicola mostra abbastanza bene la partita tra lo Shohoku e il Sannoh, ma ha perso quella freschezza, quella dichiarazione d’amore per il basket che aveva fatto il mangaka attraverso le sue tavole verso tale sport. La bellezza di Slam Dunk era la leggerezza con la quale si narrava il sogno di ragazzi di partecipare al campionato nazionale e vincerlo; in The first slam dunk si ha in Takehiko Inoue ingrigito e incupito dai suoi lavori successivi (Vagabond su tutti). Per quanto si apprezzino certe tematiche mature, in questo caso ci stanno a dir poco con Slam Dunk, andando ad appensatire lo spirito che aveva pervaso il manga sportivo probabilmente più famoso al mondo. Dare a Miyaghi, nel film il protagonista attraverso il quale viene mostrata la partita, un passato simile, sinceramente stona, perché così non era nella storia originale, dove era un ragazzo come tanti con la passione per il basket, unitosi al club di pallacanestro della scuola anche perché innamorato della manager che segue la squadra. Un simile approccio avrebbe potuto andare bene per Real (altra opera sul basket di Inoue), ma non per Slam Dunk.
A questo va aggiunto che pure l’approccio alla partita così immediato, toglie attesa e trepidazione: non viene mostrato in alcun modo come il Sannoh sia la squadra più forte, quella che tutti vorrebbero battere. Il Sannoh è il best of del basket liceale giapponese, così forte da poter battere addirittura squadre unoversitarie. Per fare un buon lavoro Inoue si sarebbe dovuto limitare a quanto scritto nel manga: aveva già tutto pronto per fare un buon lavoro. The first slam dunk sarebbe dovuto partire subito dopo la prima vittoria nel campionato nazionale, mostrando i momenti della notte prima della sfida col Sannoh. L’ansia, la preoccupazione, la tensione di ogni membro dello Shohoku nel dover affrontare un avversario così forte: tutto avrebbe contribuito a creare l’aspettativa per affrontare LA partita. Perché questo è la sfida tra Shohuku e Sannoh: la partira delle partite, la gara più importante da giocare e da vincere.
Invece tutto questo pathos viene tolto. Inoue si è dimenticato che Slam Dunk è una storia che parla di sogni di adolescenti, non è una storia di adulti con dei rimpianti, con voglia di dimostrare qualcosa per qualcosa che si è perso. Non aiuta certo poi il fatto che della partita sono mostrati solo dei frammenti, mentre molto del tempo viene impiegato per mostrare il passato di Miyaghi, soprattutto il legame che ha avuto col fratello maggiore e dei contrasti nati in seguito con la madre per via di un evento che cambierà la loro vita e il modo di rapportarsi. Pure la scelta dei colori delle animazioni, così “smorti” rispetto a quelli della serie animata degli anni 7Nnovanta, non aiuta a entrare in sintonia con il film. E se ci si aggiunge che è stato cambiato il cast di doppiatori che aveva reso così caratteristico e carismatico l’anime, il giudizio non è dei più entusiasmanti.
Se con la recensione ci si fermasse qui, dopo aver visionato i primi venti minti, per The first slam dunk si andrebbe incontro alla bocciatura. Alla prima visione del film, proprio per un senso di delusione per come era stata approciata la parte finale di Slam Dunk, ho deciso di fermarmi e mettere per iscritto questa recensione. Poi ho ripreso la visione, perché non ritenevo possibile che Inoue potesse venire meno alla sua opera migliore, quella che a mio avviso aveva più amato, quella che aveva sentito più sua. E a ragione: i restanti minuti delle due ore della pellicola sono volati, coinvolgenti ed entusiasmanti. Alla fine The first slam dunk è un gran bel film. Un po’ diverso dall’originale (con un Inoue che ha scelto un approccio più maturo, perché le esperienze della vita cambiano tutti e da quando è finito il manga sono ormai passati trent’anni) ma un gran bel film. Dati i tempi di durata, nella pellicola sono state eliminate alcune scene (Haruko e Uozumy hanno veramente poco spazio), ma ciò non influisce sulla storia, rendendola veramente notevole.
Allora perché mantenere nella recensione la prima parte che sa di bocciatura se alla fine della visione The first slam dunk viene promosso a pieni voti? Perché se c’è chi ha amato il manga e all’inizio del film prova delusione per quanto si sta vedendo, si vuole dire che Inoue ha dato alla versione animata della sua storia la conclusione che merita e di non mollare. Perchè un film è fatto per far provare emozioni e non sempre sono quelle che ci si aspetta; soprattutto, alle volte non sono immediate. Spesso ci si ritrova a rinunciare per non aver avuto una prima impressione positiva: alle volte si ha ragione, alla volte no. Con The first slam dunk si sarebbe nel secondo caso e si perderebbe un’occasione.
Naturalmente la visione la consiglio a chi già conosce il manga o ha seguito l’anime, perché altrimenti sarebbe difficile capire certe scene e passaggi, ma se si è stati fan di Slam dunk, la visione è fortemente consigliata.

Per chi volesse saperne di più sulla comparazione tra film e manga, consiglio la visione di questo video di Sommobuta (attenzione: ci sono spoiler sulla storia).

Social network

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Non mi sono mai iscritto a nessun social. Vuoi perché non ne sentissi la necessità, vuoi perché li ritenevo dispersivi, un modo per far perdere tempo, per distogliere l’attenzione da qualcosa che volevo fare mentre ero al computer (scrivere). Non che non perda tempo, d’intoppi, interruzioni o distrazioni ce ne sono sempre, e se alcune m’innervosiscono (una su tutte: il ritenere che se uno sta scrivendo può essere tranquillamente interrotto perché si ritiene che non sta facendo nulla), altre non le reputo negative (interrompermi per leggere il brano di un libro non è una perdita di tempo, ma dà sempre qualcosa, a differenza di perdersi in chat sterili).
Il vero motivo però per cui non mi sono iscritto ai social è perché ho sempre trovato poco chiare le condizioni di chi le gestiva. E quando una cosa è poco chiara, diffido sempre. A ragione, visto che chi gestisce o è proprietario dei social agisce in maniera poco trasparente, sfruttando i dati per un proprio interesse, spesso violando i diritti degli utenti, a loro insaputa: è la legge della posizione dominante. Più si ha soldi e potere, più si ritiene di poter fare tutto quello che si vuole, manipolando in maniera indiscriminata. Il caso Cambridge Analytica ne è esempio. Ma non è certo l’unico: solamente è quello più conosciuto.
Se a questo si aggiunge che i social sono diventati un modo per scaricare gli stati repressi delle persone, una valvola di sfogo per odi, insoddisfazioni personali, rabbie e compagnia brutta, al punto da diventare qualcosa di altamente tossico, ecco il quadro completo del perché sono stato lontano dai social.
Non li evito completamente: in alcuni casi li utilizzo per avere notizie riguardanti comune, eventi oppure uscite di libri. I social non sono il male, questo va sottolineato: sono un mezzo come tanti. Ma sono usati male e questo dipende da chi li frequenta e chi li gestisce. In poche parole, la colpa è sempre dell’essere umano, che non sa gestire al meglio le proprie risorse.
Solo per fare due esempi sulla negatività dei social. Il caso di Bruno Bacelli, non proprio soddisfatto di come è stata gestita la sua campagna pubblicitaria tramite Facebook (poca chierazza del social), e quella di Andrea D’Angelo, uscito dai social per via di una censura contraddittoria e poco funzionale (il video chiarisce molto più delle mie parole).

Dinanzi a queste continue dimostrazioni di un modo di fare che non mi piace, le mie decisioni passate (anche criticate da certi, viste come asocialità, mancanza di modernità o perdita d’occasione per promuovere gli scritti che realizzo) non fanno che trovare conferme. E alla luce di quanto sta accadendo, ritengo improbabile che possano essere rivalutate.

Cultura Woke

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New York, città dove è stata contestata la cultura Woke da parte di un'italiana«Ho 42 anni, arrivai dal Veneto a New York nel 2009 e me ne innamorai subito. Dovevo rimanere per uno stage di pochi mesi, sono ancora qui. Oggi però stento a riconoscerla. In Italia mi considero una progressista, perfino radicale. A New York ora devo scusarmi in continuazione per essere bianca, quindi privilegiata e incapace di capire le minoranze etniche. Sono catalogata dalla parte degli oppressori. Passo il mio tempo a camminare sulle uova, a dribblare le regole della cultura woke, qualsiasi cosa dica o faccia può essere condannata come una micro-offesa rivolta contro afroamericani o latinos»
Queste sono le dichiarazioni di un’italiana che vive a New York. Secondo tale dichiarazione, nella cultura Woke e all’interno dell’università new yorkese, il vero razzismo è quello dei bianchi contro i neri, se si è bianchi bisogna scusarsi per il razzismo di cui si è portatori, bisogna partecipare frequentemente a riunioni di White Accountability (“responsabilità bianca”) per riconoscere le micro-aggressioni verso i neri e chiedere pentimento.
Un discorso che è similare alle affermazioni della sorella di Giulia Cecchettin, la ragazza uccisa dall’ex fidanzato: “Io ripeterò sempre che la differenza non deve essere sulle spalle delle donne, anzi gli uomini devono fare un mea culpa, anche chi non ha mai torto un capello perché il catcalling o l’ironia da spogliatoio non vanno bene. Fatevi un esame di coscienza e iniziate a richiamare anche i vostri amici perché da voi deve partire questo. Noi donne possiamo imparare a difenderci ma finché gli uomini non si fanno un esame di coscienza e non si rendono conto dei privilegi che hanno in questa società non andremo da nessuna parte.”
Sebbene sia la cultura Woke sia la sorella della vittima affrontino due cose serie come il razzismo e la violenza sulle donne, presentano una mentalità distorta: non perché uno è bianco o uomo è colpevole di ciò che fanno altre persone che sono bianche o uomini verso donne o persone di colore. La responsabilità è individuale: se uno non ha commesso nulla di male, non solo non è colpevole, ma non deve nemmeno sentirsi colpevole per quanto fatto da altri. La responsabilità è individuale, non dipende all’appartenere a un certo gruppo.
Sia la cultura Woke sia i movimenti che vedono gli uomini come gli unici portatori di violenza, sbagliano e stanno portando avanti un messaggio che non solo non aiuta, ma rischia di fare più danni che altro, perché non è così che si risolvono certe problematiche: rispondere con durezza (e anche vendetta se si vuole) per gli errori di una parte di persone non è una scelta saggia, come dimostra la storia con un evento importante come la Seconsa Guerra Mondiale. La Germania, scoffita nella Prima Guerra Mondiale e ritenuta responsabile dello scoppio del conflitto, subì durissime sanzioni, che possono essere definite anche esagerate; tali sanzioni portarono nella popolazione tedesca un forte senso di rivalsa che fu cavalcato poi da Hitlher con l’ideologia nazista, portando in questo modo allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale (certo questa non fu l’unica causa dello scoppio di tale conflitto, fu dovuta anche all’influenza che il fascismo di Mussolini ebbe su Hitler e anche a una certa connivenza dei paesi europei che videro il nazismo come un mezzo per contrastare il comunismo russo, ritenuto allora molto più pericoloso). Quindi bisognerebbe stare attenti con un certo modo di agire e non esasperare con mentalità di rivalsa che non porteranno a nulla di buono.
(Piccola nota a margine: si tratterà di una semplice coincidenza, ma fa pensare che praticamente nello stesso periodo esca un articolo di un’italiana che mostra una stortura americana e si critichi un sistema all’interno di un’università e intanto ci siano due italiani che elogiano Putin e la Russia, come fatto da Irene Cecchini e Jorit. Una cosa che fa pensare, dato che non è una novità che la Russia cerchi di farsi pubblicità e di mostrarsi per quella che non è per avere consensi e appoggi).

Maboroshi

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MaboroshiMaboroshi è un film del 2023 di Mari Okada incentrato sulle vicende di Masamune Kikuiri, Mutsumi Sagami e alcuni dei loro compagni di classe. Studente del terzo anno delle superiori, Masamune sta studiando con gli amici per gli esami di ammissione; sembra una giornata come le altre, quando un’esplosione all’acciaieria, attorno alla quale ruota l’esistenza della cittadina di Mifune, seguito da un crollo nella montagna a fianco, sconvolge tutto quanto. L’incidente appare subito grave, ma un’improvvisa luce verde squarcia la città.
Da quel momento in poi Mifune è isolata dal mondo, ma questo non è il fatto più strano: nel cielo compaiono delle crepe dello stesso colore della luce, che vengono tappate dal fumo che sale dalla acciaieria. Non è il solo cambiamento, anche le persone mutano atteggiamento: sono più apatiche, prive di stimoli. Le stagioni sono tutte uguali e gli adolescenti, come Masamune, guidano l’auto.
Un giorno, Masamune, viene invitato da Mutsumi a recarsi all’acciaieria perché vuole mostrargli una cosa di cui la maggior parte delle persone è all’oscuro: una ragazza più o meno della loro età che assomiglia molto a Mutsumi ma che si comporta come una bambina. Mutsumi chiede a Masamune di recarsi alcune volte a settimana all’acciaieria per aiutarla ad accudire la ragazzina, che Masamune chiamaerà Itsumi.
Col passare del tempo, Itsumi s’affeziona sempre più a Masamune, al punto da scatenare una reazione molto forte in Mutsumi; il ragazzo ne rimane sorpreso, e reagisce cercando di liberare Itsumi dalle mani di Mamoru Sagami, lavoratore dell’acciaieria e sacerdote del Santuario Mifushi della città, che non vuole farla uscire dall’impianto e vuole consacrarla, in modo che gli dei un giorno possano perdonarli: fuggiti da dove la ragazza è reclusa, raggiungono un treno abbandonato e mentre sono lì si formano nuovamente delle crepe, permettendo a Masamune di vedere cosa c’è attraverso.
La realtà lo sconvolge: vede la città in uno stato di degrado e rovina. Da lì comincia a capire perché il tempo sembra essersi bloccato, perché non cambiano mai fisicamente. E che non è stata raccontata tutta la verità sull’incidente.
Mamoru Sagami, scoperto, è costretto a raccontare in parte la verità. Così come Tokimune, zio di Masamune e fratello del padre di lui scomparso, rivela che Itsumi non appartiene a quel mondo: viene da fuori Mifune. A differenza di loro che fisicamente non cambiano ma maturano mentalmente, la ragazza cresce fisicamente ma non evolve a livello mentale.
Col passare dei giorni il fumo, che assume la forma di lupo, comincia a far sparire le persone della città che cominciano a creparsi come il cielo. Sempre più spesso si formano crepre nella realtà e in una di esse Masamune vede una persona che assomiglia a suo padre che sta assieme a una donna di nome Mutsumi Kikuiri; in quell’attimo capisce che la persona che ha visto è il se stesso adulto sposato con Mutsumi (Sagami non è il suo vero padre, ma solo quello adottivo) e che Saki, la bambina che hanno, altri non è che Itsumi.
Dopo questo fatto, dichiara i propri sentimenti a Mutsumi, che però è restia ad accettarli, dato che lui si è dichiarato solo dopo aver visto il futuro. I due tuttavia finiscono per baciarsi; Itsumi li vede e comincia a piangere, facendo aprire sempre più crepe nel loro mondo. Nello stesso momento il fumo dell’acciaieria cessa di esistere.
Il mondo in cui vivono sta per finire, ma si cerca ancora di salvarlo. Mentre Tokimune cerca di far ripartire l’altoforno, Masamune e i suoi amici vogliono far ritornare Itsumi al mondo reale, perché il loro mondo altro non è che una stasi, un mondo illusorio creato dagli dei della montagna per far continuare a vivere l’ultimo momento felice della città, data la sua inevitabile fine dopo l’incidente.
Inevitabilmente Masamune e gli altri scompariranno, ma cercheranno di vivere il più possibile quel momento, mentre Itsumi deve tornare a vivere la vita che ha interrotto.
Anni dopo, una Saki cresciuta e matura, torna a visitare la Mifune reale, abbandonata e in degrado, ricordando i momenti felici che vi ha trascorso, ma anche la prima ferita al cuore che ha avuto.
Cosa dire di Maboroshi? Si tratta di una love story con elemento fantastico annesso, ma è anche qualcosa di più: è il cercare di bloccare il tempo, di far rivivere momenti felici prima che il tempo vada oltre e se li porti via. Il non vedere finire mai certi attimi può sembrare un desiderio bellissimo da vedere esaudito, ma il ripetersi sempre delle stesse cose alla fine fa perdere sapore all’esistenza, ai sentimenti, alle emozioni. Per quanto alle volte poco piacevole, bisogna andare avanti.
Maboroshi è un buon film, ma non è proprio immediato; in alcune parti fa fatica a ingranare, rendendo difficoltosa la comprensione, specie quando si tratta di spiegare le meccaniche del mondo illusorio che fa continuare a vivere Mifune. Comunque, la sua visione è consigliata.