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Mondo dei Sogni: Esaudimento di Desiderio

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Il sognare non è mai fine a se stesso: svolge diverse funzioni, influenzate da fattori interni ed esterni. Emozioni ed esperienze vissute durante la giornata, nel passato, ansie, aspettative, timori, vengono rielaborate dalla mente durante il sonno; si può dire che il sogno sia una sorta di guardiano, sia per preservare il sonno (di cui l’uomo ha assolutamente bisogno per il proprio benessere) dal risveglio, sia per supportare la psiche da eventi che l’hanno toccata nel profondo.
Ma dato che le funzioni sono diverse, vanno analizzate una per volta, a cominciare dal sogno come esaudimento di desiderio.
Il desiderio ha valenza sia positiva, sia negativa: può essere la realizzazione di impulsi, voglie che sono state viste come negative e pertanto represse, un tendere verso quelle parti più oscure della propria indole che vogliono essere celate. Insomma mancanze, come si è visto in un altro post.
La realizzazione attraverso il sogno è una sorta d’appagamento, di un mezzo per adempiere quanto si vorrebbe ma non si ha il coraggio d’attuare. Tali contenuti (negativi) nell’analisi sono definiti catagogici; mentre quelli che spingono l’uomo a elevarsi, a mirare a ideali, sono definiti anagogici.
E’ sorprendente come i desideri abbiano un raggio d’influenza così grande da toccare molteplici aspetti dell’esistenza, dall’esteriorità all’interiorità, come possano condizionare l’individuo e la sua vita. Non per niente poeti e filosofi di tutti i tempi hanno compreso come nel sogno il desiderio è il padre del pensiero e sia rivelatore di quello che si cela nell’anima; uno specchio capace di mostrare ciò che l’io cosciente non è in grado d’accettare. Mezzo rivelatore di speranze mai pronunciate (o a cui si è rinunciato), di frustrazioni e ossessioni.

Anche mentre stavano camminando, Ariarn non smise di pensare all’incontro avuto nel sogno.
Era nei pressi della piazza, camminando tra aiuole di fiori gialli, rossi e indaco, all’ombra delle fronde degli alberi; la gente attorno a lui discorreva tranquillamente, seduta nelle panche a bearsi della serenità del luogo.
Un riflesso dorato aveva attirato la sua attenzione. Avviandosi lungo lo spiazzo, non riusciva a smettere di seguire la fluente chioma castana che sgusciava tra la folla. Vedeva sempre di più della figura sfuggente mentre s’avvicinava: capelli morbidi che si riversavano sulla pelle scoperta delle spalle come una cascata di miele, accarezzandola dolcemente, sospinti all’indietro da una leggera brezza. Una tunica bianca, ornata da una cintura marrone ai fianchi, aderiva su un corpo aggraziato, seguendo i movimenti sinuosi.
Ariarn sentì un tuffo al cuore quando si voltò verso di lui e vide un viso delicato attraversato da una ciocca di capelli spostata dal vento. Con un gesto della mano, la donna se lo scostò dal viso e sorrise.
Un sorriso che non avrebbe scordato, capace di scaldarlo come mai era successo.
Con il fiato corto, la vide dirigersi verso di lui e prendergli la mano quando gli fu vicino, reclinando leggermente il capo e mostrando la morbida linea del collo.
«Vieni.» Gli disse con brio, ridendo divertita alla sua sorpresa. Lo tirò gentilmente presso di sé.
Ariarn non oppose resistenza, perso nel guardare il sorriso velato dai capelli che si spostavano sul volto e le rapide occhiate degli occhi grigio-verdi.
Presto gli edifici, la gente, il magnifico tempio furono alle spalle. Non s’inoltrarono nella foresta, come aveva raccontato Lerida, né francamente ricordava con precisione il paesaggio: aveva il sentore di colline e fiumi che scorrevano accanto, ma la sua attenzione era puntata sulla figura che lo stava guidando.
Il passo rallentò e si trovò a camminare al suo fianco, la mano sempre stretta in quella di lei. I capelli celavano sempre in parte il suo volto, il capo leggermente inclinato a guardare il terreno, ma che non le labbra abbozzanti al sorriso, come se fossero sempre pronte a farlo sbocciare.
Sentiva la fragranza della sua pelle, il profumo di fiori ed erba che emanavano i suoi capelli, come se per tutta la vita non avesse vissuto che all’aria aperta.
Non si ricordò per quanto avessero camminato: avrebbero potuto continuare all’infinito.
A un certo punto la luce cominciò ad avvolgerli, a sostituirsi al paesaggio, fino a essere immersi in un calore benevolo e confortante.
La donna gli si mise davanti prendendogli entrambe le mani, fissando gli occhi nei suoi.
«Riposa ora, combattente.» Gli disse con voce squillante e suadente in un dolce sussurro.
«Molte sono le battaglie che hai combattuto e altre ti stanno attendendo. Lascia le preoccupazioni e dai riposo al corpo e allo spirito. Persino i più resistenti e temprati possono spezzarsi se non si concedono una pausa.» Con una mano gli accarezzò la faccia incorniciata dalla barba. «Molte sono le ferite della tua anima e così pesante il fardello che porti senza condividerlo con nessuno, sacrificandoti per gli altri senza chiedere nulla in cambio.» Una vena di tristezza e malinconia comparve nel suo sguardo.
«Non esiste buona azione, generosità che non sia ricompensata. Devi solo aspettare ancora un poco: l’amore vero non cresce ovunque.»
Ariarn fece per parlare, ma non ci riuscì, la mano delicata di lei posatisi sulla sua bocca. «Abbi fiducia. Come dici tu, senti che questa è la verità e s’avvererà. E’ una promessa.»
La luce si fece più intensa, avvolgendola completamente e celandola alla vista. «Ricordati di me: mi rincontrerai e allora sarò con te.»
Si era risvegliato sereno, rigenerato, come se molti pesi gli fossero stati tolti. Il sogno gli aveva lasciato una piacevole sensazione di benessere, sicuro però che con il nuovo giorno sarebbe svanita.
La scoperta del sogno collettivo lo aveva però indotto a ricredersi, convinto che fosse molto di più di quel che gli era apparso al risveglio. Di qualsiasi cosa si trattasse, era sorpreso di come fosse riuscito a raggiungere un angolo così segreto della sua anima, mettendolo a nudo.
Dopo le esperienze avute con l’ingresso nei Guardiani, era arrivato alla conclusione che avere l’amore di una compagna gli fosse precluso; la possibilità di perdere la persona amata a causa della strada intrapresa l’aveva fatto riflettere a lungo, ma non era stato l’unico elemento ad averlo fatto giungere a quella convinzione. Era diverso dagli altri, era andato lontano in una maniera che non poteva essere raggiunta, compresa e condivisa da nessuno, costringendolo a un’esistenza destinata a non essere amata.
Il sogno gli aveva dato una visione di speranza e con l’immagine di un sorriso nel cuore avrebbe atteso, perché sentiva che un giorno le cose sarebbero cambiate.
Ma non ancora.
Non ancora.

Mondo dei Sogni

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I sogni sono sempre stati fonte d’interesse dell’uomo. Fin dall’antichità vengono studiati, analizzati, per cercare di comprendere il messaggio che si nasconde dietro le immagini oniriche. Chi era in grado d’interpretarli era tenuto in gran considerazione, come è mostrato nella Bibbia con Giuseppe che, grazie alla sua capacità, dopo essere stato venduto dai fratelli, in Egitto diviene una delle persone più potenti e rispettate del regno.
Dai sommi sacerdoti e agli sciamani si è giunti agli psicologi, a Freud e Jung, per capire il meccanismo che li genera. Si sa che sono un modo per visualizzare stati interiori, blocchi, paure che coscientemente non si vogliono affrontare o di cui non si ha conoscenza: dubbi, ansie, che durante il periodo di veglia si controllano, ma che saltano fuori dall’inconscio quando le barriere della mente s’abbassano durante il riposo.
Se vogliamo possono essere un modo per conoscere se stessi, per analizzare quelli parti che si cerca d’eludere: un modo per mettersi di fronte a ciò che si cerca di sfuggire. Certo il linguaggio non è diretto, usa una simbologia particolare di cui occorre avere la giusta chiave di lettura; soprattutto occorre andare oltre a ciò che viene mostrato, soffermandosi sulle emozioni che stanno dietro quello che accade nel sogno.
Un ottimo mezzo di conoscenza di se stessi, ma non solo. Gli antichi sapevano che erano molto di più. Sogni premonitori, capaci di mostrare eventi futuri. Sogni capaci di far vedere quello che accade a persone lontane cui si è legati.
Non solo.
Attraverso i sogni si possono raggiungere profondità sconosciute, superare le barriere imposte dal vivere quotidiano, dalla materialità; un modo che mostra come si è collegati all’essenza che permea ogni cosa. Qualcuno lo chiama inconscio collettivo, qualcuno divinità; la realtà è che esiste qualcosa di più grande di quanto si vede e conosce, che ancora è da scoprire. Per questo la simbologia nei sogni, anche per popoli di razze e continenti diversi, è la stessa, mostra gli stessi significati, segno dell’universalità del creato e del giungere dalla stessa origine.
Un mondo di cui si è sfiorato solo la superficie, che ha tanti segreti da mostrare.

Il sole del mattino trovò i viaggiatori intenti a fare colazione, seduti alla base delle colonne dell’imponente costruzione.
«Sai, sei davvero un oratore straordinario.» Stava dicendo Lerida a Ghendor. «Il tuo modo di descrivere come doveva essere questa zona ha fatto sorgere la sua immagine nella mia mente, tanto da sognarla questa notte.» Prese a raccontare con enfasi. «Durante il sonno ho visto edifici bianchi come il lastricato, con ampi portici sorretti da colonne di lucido marmo, pieni di lavorazioni.
I piedistalli non erano più vuoti: ognuno aveva una statua. Rappresentazioni di saggi, sacerdoti, esseri alati, animali, ma anche scene di vita, capaci di comunicare emozioni pervase da una strana energia. Si trovavano sul sentiero dal quale siamo arrivati, intorno alla piazza, nei giardini: avessi visto com’erano curati e ordinati. Le siepi erano perfette e non c’erano erbacce nelle aiuole. Riuscivo a sentire il loro profumo ed è strano: di solito nei sogni non si percepiscono.» Si fermò a ricordare. «C’era gente dappertutto: nelle case, nelle strade, nella piazza. Gente d’origine diversa, vestita con gli abiti dei propri paesi. Camminavano e parlavano tra loro a proprio agio, non come spesso si vede nelle nostre città dove non ci si cura dell’altro e lo si guarda con sospetto. Anche se non conoscevo nessuno, mi sentivo parte della moltitudine. Non ricordo cosa le persone dicessero, ma erano tutti in armonia: sui loro volti c’era serenità e anch’io la provavo.» Le s’illuminarono gli occhi. «A un certo punto tra la folla mi è venuto incontro un uomo, uno di quei vecchi saggi dalla lunga veste e barba bianca, e senza dirmi niente mi ha fatto cenno di seguirlo. Era come se gli altri non ci vedessero, come se fossimo invisibili e senza forma. Siamo passati di fronte alle biblioteche fino ad arrivare al tempio; i bassorilievi del frontone erano integri e sopra di essi vi era un sole fatto d’oro che rifletteva la luce. C’era una marea di gente che entrava e usciva, ma non siamo entrati: siamo passati di fianco al recinto argentato e abbiamo superato il tempio. Ci siamo addentrati in una zona verde e abbiamo camminato a lungo; poi sono stata avvolta in una calda luce e mi sono sentita bene.» Sospirò felice. «Era solo un sogno, però sembrava così veritiero.» Si fermò guardando i compagni. «Che cosa c’è?»
Gli altri tre la stavano fissando straniti, scambiandosi occhiate stupite. Ariarn fu il primo a rispondere.
«Ho fatto lo stesso sogno, solo che nel mio c’era una giovane donna a guidarmi.»
«Cosa inconsueta, ma sembra che siamo stati collegati.» Disse Reinor. «La stessa cosa vale per me: ero guidato da una figura completamente ammantata.»
Ora fu Lerida a rimanere stupita. «Incredibile.» Mormorò. «E tu Ghendor cos’hai visto?»
«La figura che mi guidava era avvolta in un alone luminoso e potevo percepire solamente che era umana: altro non sono riuscito a scorgere.»
I quattro si guardarono a metà tra il divertito e lo stupito.
«Credete che sia stato veramente così questo posto? Abbiamo sognato il passato?» Chiese Lerida.
«E’ un azzardo affermarlo, ma è probabile che sia stato così.» Disse Reinor. «Secondo gli studi degli atenei, negli oggetti rimane traccia delle esperienze e delle emozioni della gente che vi è venuta a contatto. Più è forte l’emozione e più s’insinua nell’oggetto caricandolo di un certo tipo d’energia che arriva a farsi percepire anche dalle persone normali, influenzandole, facendo provare paura, tristezza, attaccamento, pace, serenità. Questo luogo n’è un esempio: la fede e l’armonia di chi è stato in questi luoghi devono essere stati tali da mantenersi a lungo.»
«Oppure c’è dell’altro.» Intervenne Ghendor. «Qui davvero un tempo c’era qualcosa di speciale, di superiore e la sua presenza persiste. Forse gli uomini di allora avevano trovato quello che la Rivelazione adesso ci sta mostrando a piccoli passi.»
«Forse sono vere tutte e due.» Disse Ariarn. «Ma non abbiamo modo di verificarlo. Sta di fatto che questa notte abbiamo avuto un riposo come non accadeva da tempo.»
Periin passò loro accanto; era la prima volta che lo vedevano da quando si erano svegliati.
«Tu cosa hai sognato?» Domandò Lerida.
Lo sguardo che gli videro era uno dei più duri avuti da quando lo conoscevano.
«Mi fa piacere che siate sereni e che le vostre preoccupazioni siano i sogni della notte.» Disse atono. «Ma vi ricordo che la realtà è ben diversa. Quando avrete finito e vorrete continuare il viaggio, fatemelo sapere.» Si girò, andando a riprendere lo zaino lasciato tra le colonne.
«Oggi è più di cattivo umore del solito.» Costatò la mezzelfa.
«Però è ora di riprendere il cammino.» Disse Reinor.

Presagi di Tempesta

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Su Fantasy Magazine è stata pubblicata la recensione che ho scritto insieme a Martina Frammartino di Presagi di Tempesta , il dodicesimo libro della monumentale opera La Ruota del Tempo, creata da Robert Jordan e, a seguito della sua scomparsa, ora portata a conclusione da Brandon Sanderson.
So già che per qualcuno le saghe, specie se lunghe, possono essere stancanti, dato l’arco di tempo che occorre attendere per giungere a conclusione, oltre che dispendiose in termini economici (non occorre però acquistare per forza i romanzi: c’è sempre la biblioteca 🙂 ), ma per certe vale la pena l’attesa; è il caso della serie della Torre Nera di Stephen King, del ciclo Malazan di Steven Erikson. E lo è per la Ruota del Tempo: una lettura piacevole, ma anche ricca e profonda.
Forse è una coincidenza, ma mi capita sempre più spesso di prendere tra le mani libri che mostrano uno stato che sto attraversando e mi è di supporto. Quale che sia la realtà, un libro può essere sempre di aiuto. E se non lo sarà, avrà fatto passare piacevolmente dei bei momenti. Che sia così per chiunque voglia leggere la Ruota del Tempo.

Disperazione. Stanchezza. Libertà.

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Sul sito di Lara Manni, in questo articolo , si parla di come Tolkien nel Signore degli Anelli non dia molto spazio alla speranza. Temi come la perdita e la morte sono profondi e radicati in quest’opera, così come lo sono l’orrore per la guerra, lo sfruttamento e la distruzione della natura, la brutalità e l’inumanità dell’industrializzazione: un’opera fantastica che mostra lati della realtà. Si prova tristezza e disperazione di fronte alle immagini nate da queste parole, così come s’avvertono anche nel finale quando si comprende che ogni ciclo dell’esistenza ha termine, che il passato non può più tornare e che quanto è stato è perduto.
Ma è davvero andato perduto per sempre? Certo, ogni attimo, ogni periodo è unico, non ce n’è uno uguale all’altro: è tutto un divenire e si può provare malinconia per qualcosa di bello che ha dato tanto.
Allora perché si prova disperazione?
Forse perché si rimane attaccati a esperienze che hanno segnato. Affetto, certo, ma anche attaccamento, un appoggiarsi agli altri. Se ci si riflette un attimo, qualsiasi individuo trova negli altri un appoggio, un sostegno. Un fattore normale, dato che l’uomo viene considerato un animale sociale, che cresce in mezzo ai suoi simili e che se costretto all’isolamento s’ammala e muore. Ma cosa succede se quanto è importante, ciò a cui si tiene viene a mancare, se ne viene privati?
Dolore, anche cocente, che solo il tempo attuirà riuscendo a far rivedere il calore perduto. Così è la vita: dolce e amara allo stesso tempo. L’esperienza, il vissuto faranno raggiungere questa comprensione, facendo andare oltre. Ma richiede impegno, fatica e sudore; può stancare, certo. E anche molto, specie quando intorno non si ha un quadro confortante.
Fa riflettere il post di G.L. D’Andrea. Una stanchezza che va oltre quella fisica e mentale: ci si stanca della gente, del suo modo di fare, di vivere. Così scialbo, misero, povero. Così svilente e di scarso valore.
Stanchezza, rassegnazione, senso d’impotenza di fronte a un vivere chiuso in se stesso, limitato dall’egoismo e dal narcisismo, dal prendere (e pretendere) e non dare nulla.
Sì, ci si stanca della gente, anche di quelle persone che si professano amiche, che si ricordano dell’altro solo se hanno bisogno, ma che se devono contraccambiare o essere di sostegno non vogliono trovare il tempo, impegnati a pensare solo a se stessi. Individui egocentrici e accentratori, che basano l’esistenza sul culto dell’ego e della propria persona, gente superficiale e vuota, priva di valore.
Sì, ci si stanca di gente del genere, capace solo di ferire e distruggere, di basarsi sull’apparenza e sul giudizio degli altri.
Questa è la realtà. Una realtà che molto smentirebbero, dicendo che non è vero, profondendosi in dichiarazioni d’amicizia, di buoni sentimenti, di valori elevati.
Sono solo parole.
Parole vuote, che non hanno valore, che servono alla gente a far tacere la coscienza, a sentirsi a posto, a sentirsi delle “brave” persone, cercando di mantenere quelle apparenze, quella bella immagine che vogliono il mondo abbia di sé. Semplici maschere. O come le definiscono alcuni, ipocrisie.
E’ l’atteggiamento, quello che si fa, che conta e rivela ciò che si è veramente. Se una persona si dichiara amica, afferma di sentirsi legata a un altro da un bellissimo legame e poi nel momento del bisogno trova qualsiasi scusa per non esserci, perché impegnata a divertirsi, a dover andare in ferie, ha tempo per tutto fuorché per chi ha bisogno (e che invece c’è sempre stato quando lei si è trovata nella necessità), si può parlare d’amicizia?
No, solo d’approfittarsi, d’usare l’altro, che viene considerato solo un oggetto, uno strumento da usare nel momento del bisogno e poi si mette da parte.
Un individuo di fronte a questa realtà si sente ai margini, sente di non poter far parte di un mondo del genere, di non potersi adattare. Magari può avvertire un moto d’essere come gli altri, di essere parte di qualcosa e non sentire quella diversità che lo fa essere così distante dal mondo. Ma alla volte adattarsi è impossibile, troppo grande il divario tra il proprio essere e il modo di vivere comune.
Una realtà ben mostrata dal film A trenta secondi dalla fine, la cui sceneggiatura originale è stata realizzata dal grande regista Akira Kurosawa, una persona capace di cogliere con grande perizia le sfumature dell’animo umano. La trama è semplice, di quelle ben conosciute. Due carcerati evadono dal penitenziario di massima sicurezza di Stone Heaven in Alaska, raggiungendo una stazione e salendo su un treno da usare come mezzo di fuga per allontanarsi il più possibile dalla prigione e far perdere le proprie tracce. Un incidente al macchinista fa sì che il treno merci viaggi senza controllo (simbolo di come l’uomo nonostante la tecnologia a disposizione non possa controllare ogni cosa). Il direttore del carcere, Ranken, deciso a riacciuffare gli evasi (soprattutto Oscar Mannheimer detto Manny, con il quale ha un conto in sospeso), si getta in un inseguimento che lo condurrà all’epilogo della vicenda.
La forza di questo film è la caratterizzazione di Manny, il personaggio principale, individuo carismatico, fuori dalle righe: l’uomo che non si piega alle regole, colui che è consapevole che potrà essere sempre e soltanto fuori dal sistema, che non potrà mai integrarsi insieme agli altri, il suo essere troppo eccessivo per poter cambiare e adattarsi. Uno spirito libero che non può essere trattenuto nè da sbarre reali (quelle della prigione) nè da sbarre invisibili (quelle del modo di vivere della società).
Sbarre invisibili. Il vivere della società, i rapporti tra le persone, fatte di condizionamenti, possessività, egoismi, l’accontenstarsi di un vivere mediocre sono prigioni. E’ così: i modelli proposti dallo stile di vita della società sono una prigionia, tengono legati e incatenati: una vita passata dietro le sbarre facendo trascorrere gli anni senza vivere veramente, facendo affievolire un giorno dietro l’altro la luce presente nello sguardo, un’esistenza di quieta disperazione.
In un sistema che sopravanza, che coltiva la supremazia di un individuo sull’altro, vincere, perdere…che differenza fa?
“Sono Libero, Ranken! Sono Libero!” E’ una delle frasi di Manny dell’intenso finale.
Sì: libero di essere se stesso. A qualsiasi prezzo, contro qualsiasi logica. Oltre ogni comprensione.

L'importanza dell'Educazione Consapevole

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In questi giorni mi è capitato di rivedere il film Watchmen. Non posso far paragoni con l’opera cartacea di Alan Moore, dato che non ho avuto modo di leggerla, tuttavia mi ha dato modo di fare una riflessione sulla società e sulla violenza.
Una realizzazione cinematografica per nulla banale, che dà una rilettura sotto forma fantastica della piega che certi avvenimenti politici avrebbero potuto prendere se la storia avesse preso un’altra piega. Una riflessione se il fine giustifica davvero i mezzi, se per la pace e il bene superiore è possibile accettare un ingente prezzo da pagare.
Una realizzazione intelligente, ma fino a che punto è stata compresa? Molti criticano film del genere ritenendo il genere supereroistico come qualcosa d’adolescenziale, di mero intrattenimento (salvo poi incontrare pellicole come Batman-Il cavaliere oscuro); altri criticano questi lavori dicendo che la violenza presente al loro interno è fautrice e condiziona certi comportamenti delle persone, specie dei giovani (insomma, sono un cattivo esempio).
Critiche che possono essere definite superficiali perché date senza avere conoscenza di quanto si ha davanti. Tuttavia un fatto non può essere non notato: quanto del messaggio di film del genere viene percepito e quanto invece ci si sofferma solo sull’appariscenza degli effetti speciali e sulle scene di violenza?
Inutile dire che molti, specie i più giovani, si facciano suggestionare da queste ultime, la loro emotività e suscettibilità stimolata e portata a scimmiottare le gesta dei personaggi visti sul grande schermo; un volersi immedesimare in qualcosa che ha colpito la psiche ma che non si riesce bene a comprendere. Ci si ferma sempre alla superficie, all’apparenza: non si raggiunge il nucleo, l’essenza delle cose. Film (per restare in tema) come Matrix, V per Vendetta, Watchmen, Batman Begins (per citare alcuni tra i più recenti) perdono di significato, diventando fonti d’esaltazione, eventi di una stagione presi di moda.
Ma non sono solo i giovani ad avere simili comportamenti: sono posseduti anche da gente che dovrebbe aver acquisito una certa maturità.
Certo, conta molto la volonà dell’individuo di andare oltre la superficie, di scendere in profondità nelle comprensione per superare le apparenza; la libera scelta di evolvere è importante. Ma ha una uguale importante anche l’educazione ricevuta. E non s’intende solo dare regole, valori, credo da seguire: questo è un passaggio di consegne, un dare ciò che si è visto fare nel proprio ambito famigliare, quasi un meccanismo automatico. Qui si parla d’educazione consapevole, quel tipo d’insegnamento che aiuta a pensare con la propria testa; un’educazione costante, sempre presente e disponibile,ma che lascia spazio, che aiuta a sviluppare l’osservazione e il giudizio, capace di ricominciare di fronte a errori e fallimenti senza mai mollare, darsi per vinto.
Un tipo d’educazione che è stata accantonata, ritenuta superflua, sacrificata in nome di una finta e ipocrita libertà che rende deboli e prigionieri, condizionabili e strumentalizzabili da chiunque.

Condizione d'Artista

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L’Artista viene visto come un creatore, un individuo connesso con una parte dell’esistenza che pochi riescono a scorgere, come se appartenesse a un’altra realtà o mondo. Quando sue opere sono riconosciute di valore, tutti lo acclamano, lo reputanto un Grande, un individo che ha arricchito la storia dell’umanità.
Gloria, acclamazione.
Una condizione invidiabile, che molti desidererebbero avere.
Ma la realtà è che l’Artista non conosce queste cose, spesso arrivano dopo la sua morte, mentre in vita non ha avuto che incompresione, beffe e prese in giro, guardato, anzi compatito come se fosse una cosa fuori dal mondo.
Perché questo accade?
Perché l’uomo è incapace di percepire la bellezza. Bellezza come delicatezza, non come appariscenza. E’ capace di comprendere solo quello che torna utile, che dà profitto, che è materiale; come un auto comoda e grossa, rivelatrice dello status simbol indice del successo personale nella società. Utile perché fa aumentare l’Ego e la rinomanza che può avere sulle altre persone.
Un basarsi sull’apparire, sulla superficialità. Un dictat cui bisogna conformarsi per non essere tagliati fuori. Da sempre gli individui si sono adattati alla massa per timore dell’isolamento e del giudizio.
Ma per l’Artista vivere in una maniera così grezza e limitata è inconcepibile, tradisce la sua visione dell’esistenza; non più rinnegare se stesso, anche se tale scelta lo fa mettere da parte, disprezzare.
Incomprensione da chiunque, quando si è gli unici a comprendere la magia di un sogno che nessuno vede a parte se stessi.
Una realtà ben mostrata da Terry Brooks nel personaggio Gesso di L’Esercito dei Demoni.

Non fa mai nulla di buono per la propria famiglia, spiega al suo migliore amico poco dopo averlo incontrato. Da quanto può ricordare, è stato un estraneo praticamente dall’inizio, e probabilmente lo sarà per sempre. Non che tutti vogliano che sia così. È solo che così sono andate le cose. Lui non è come loro. Lui non è un lavoratore, uno che si affanna, uno che sa cavarsela. Quasi non gli importa del monda che lo circonda. La sua mente è sempre da qualche altra parte, mai su quello che sta facendo. Lui è un sognatore.
Sa che gli altri non lo approvano, ma lui non può farci nulla.
La sua famiglia è grande, quindi la cura e la protezione di tutti prevalgono su quelle del singolo. Sua madre passa del tempo con lui quando è piccolo colmandolo di attenzioni proprio come fanno le mamme con i bambini piccoli. Quelli sono i suoi ricordi più cari. Lei incoraggia le sue aspirazioni artistiche, loda il suo talento, la sua creatività. Non c’è nulla di male a lasciarlo essere un bambino per un po’ di tempo. Pensa che passerà tutto quando sarà più grande, che si interesserà ad altre cose, quando sarà più maturo.
Ma lui non lo fa. Lui non è così. Non il tipo di ragazzo che abbandona le sue passioni con l’andare degli anni. Si è formato molto presto, mosso dalle sue scoperte artistiche, dal suo bisogno di esplorare cose che solo lui sa vedere. È un talento inutile in un mondo dove tutto è pragmatico, tutto è sopravvivere e proteggersi. Liti non si preoccupa di queste cose; a lui importa solo di realizzare i suoi disegni come li vede nella mente. Lui fa il suo lavoro e adempie ai suoi doveri familiari. La maggior parte delle volte, almeno. Ma non fa nulla più di questo. Non fa gli straordinari, come i suoi fratelli maggiori gli dicono che dovrebbe fare. Non si prepara ad affrontare l’imprevedibile. Non vive per prepararsi a ciò che potrebbe accadere. Vive il momento.
Quando sua madre e il maggiore dei suoi fratelli muoiono di una delle infinite pestilenze che vessano la loro già devastata comunità, la loro fortezza di cartone, prende piede una nuova sindrome d’assedio. La famiglia deve lavorare ancora più duramente, essere più prudente e stare più in guardia. Lui non crede che ciò servirà; a dire il vero, pensa che niente servirà. Sono vittime dei tempi in cui vivono e sopraffatti dagli eventi. Sono prigionieri nelle proprie vite come ratti in una gabbia. Sono morti che camminano.
Liti non si lascia dominare da questi pensieri come i suoi fratelli. Si rifiuta. È tutto preso dalla magia della sua arte, e nell’arte trova la via di fuga dalla realtà. Là c’è pace e bellezza e un senso di soddisfazione. Lui non può cambiare il mondo che lo circonda, ma può cambiarlo nei propri disegni.
Diventa sempre più una stranezza per la sua famiglia. Sono arrabbiati e delusi da lui e non si preoccupano più di nasconderglielo. Cominciano a vedere il sito comportamento come un peso, come qualcosa di veramente inutile. Se vuole far parte della famiglia, deve cambiare. Deve diventare come loro, temprarsi per il futuro, mettere da parte le sue aspirazioni infantili per prendere impegni più maturi.
Ha undici anni.
Prova a soddisfare le loro aspettative, ma per lui è impossibile. Può portare avanti i compiti che gli danno, adempiere alle mansioni che gli vengono assegnate, ma non può diventare come loro. Padre, fratelli, zii e cugini sono un tutt’uno e lui non riesce a inserirsi.
Alcuni fra i cugini più piccoli si interessano ai suoi disegni e alla stia visione delle cose. Ma i più vecchi s’affrettano a scoraggiarli e i bambini dirigono altrove la propria attenzione. Viene detto loro di non sprecare tempo con lui e vengono incaricati di sempre nuovi compiti per essere certi che obbediscano. Tutto viene fatto in modo elusivo e clandestino, ma lui vede cosa sta succedendo. Il suo isolamento cresce. Il suo senso di non appartenenza anche.
Un giorno, gli viene chiesto di accompagnare il padre e due suoi fratelli in una spedizione di approvvigionamento, che li porterà dai piedi della collina dove vivono in una vicina città fantasma. È una spedizione che richiede diverse notti lontano da casa. Sente che c’è qualcosa di strano nel modo in cui sito padre glielo chiede, ma accetta di fare ciò che gli viene ordinato.
Quando torna, i suoi disegni e gli attrezzi per dipingere sono scomparsi. Molti suoi fratelli gli dicono che non li ha messi al loro posto. Sito padre gli dice di dimenticarsene e di concentrarsi su cose più importanti.
Lati è distrutto. La sua arte è l’unica cosa di cui gli importi, e ora gli è stata tolta.
Una settimana più tardi se ne va di casa nel bel mezzo della notte.

Realtà, anche se in maniera diversa, ugualmente mostrata dall’opera di Franz Kafka, La Metamorfosi, dove il protagonista Gregor Samsa, un semplice impiegato, si ritrova mutato da un giorno all’altro, da essere umano a scarafaggio. La mutazione (simbolo di come la vita possa far cambiare la condizione di una persona da un giorno all’altro) porta l’uomo alla perdita del lavoro e all’isolamento; non più utile alla società e alla famiglia, viene abbandonato e dimenticato da tutti, la sola presenza un fastidio e un orrore. Non più fonte di reddito, diviene un peso di cui disfarsi.
Una storia dolorosa, metafora della dipendenza dalla famiglia, dell’emarginazione del diverso, di chi è in difficoltà, dove i legami familiari nella difficoltà dimostrano il vero valore, la loro reale essenza: egoismo oppressivo e opportunismo bestiale. Immagini di durezza d’animo, superficialità, timore che la malattia che ha colpito l’altro (o la diversità) possa afferrare chi gli sta vicino, paura di incappare in una condizione simile ed essere a sua volta isolati, abbandonati.
Segni di una società chiusa in sé stessa, che tiene lontane le persone tra loro, che sopprime i contatti.

Origini perdute

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Che siamo esseri immortali
caduti nelle tenebre,
destinati a errare;
nei secoli dei secoli,
fino a completa guarigione

Che siamo angeli caduti
in terra dall’eterno
senza più memoria
per secoli, per secoli,
fino a completa guarigione
(Le Sacre Sinfonie Del Tempo, Franco Battiato)

Un giorno, forse, ritroveremo le nostre origini.
Ma non ancora.
Non ancora.

Hanno rovinato anche le favole

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Immagini di Sergio Staino, pubblicate su Liberetà di Febbraio 2011.

E si meravigliava della loro incredulità

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“E (Gesù) si meravigliava della loro incredulità” (Marco 6,6)
E’ l’espressione che si prova di fronte al non voler vedere della gente, al restare ciechi di fronte all’evidenza.
Eppure in certe situazioni i segnali sono ben chiari.
Si erano lanciati moniti, si era avvisata la gente di stare attenta, di non lasciar correre, perché è resistendo, difendendo i propri diritti che le cose possono migliorare; a inginocchiarsi si finisce sempre più in basso, finché non si viene calpestati. Ora non si ha nessun diritto di lamentarsi, perché la possibilità di cambiare le cose è stata volutamente buttata via.
Marchionne sta prendendo sempre di più, sta prendendo tutto, perpetrando umiliazioni e prese in giro.
Si credeva che le cose andassero diversamente?
Si è vissuta una grande illusione, il modo di fare indicava palesemente che sarebbe finita così. Ma non importa, tanto sono sempre i più deboli a rimetterci; sono le persone che lavorano, quelle che rendono ricchi gli industriali, quelli che portano avanti il mondo, quelli che perdono sempre.
Imprenditori. Vampiri. Cose morte.
Ma sono stati aiutati dai lavoratori, dai sindacati (una parte perlomeno: Cisl e UIL; la FIOM ha sempre lottato), da un governo che magari non avesse fatto nulla, ha anche aiutato a peggiorare la situazione; facile parlare quando la pelle è quella degli altri.
Tutto perduto allora?
No, basterebbe togliere i poteri a Marchionne; forse poco ortodosso per la mentalità cui si è abituati (la tanto declamata democrazia che poi tale non è), ma se un imprenditore danneggia gli interessi della nazione, in certi paesi sudamericani espropriano l’industriale dei possedimenti e la gestione passa allo stato.
Un atto di forza, un’ingiustizia?
Certamente.
Ma non è forse la stessa cosa fatta ai danni dei lavoratori?

Altra notizia, ma sempre rivelatrice di segnali palesi. Sempre di grave entità. Sempre una vergogna .
In una scuola, per poter far mangiare una bambina nata in Italia da genitori extracomunitari, la cui famiglia non poteva pagare la retta della mensa, le maestre a turno cedevano il proprio pasto perché la piccola potesse sfamarsi. Per questo gesto sono state riprese dal sindaco con la minaccia di gravi provvedimenti disciplinari, dato che causavano un danno erariale per il comune.
Viene punito un gesto d’umanità e generosità per pura cattiveria e ottusità. Questa è discriminazione, la stessa che c’è stata nel periodo fasci-nazista.
Quel periodo sta forse tornando?
No: in certe aree è già tornato.
Un incendio comincia sempre da una scintilla.

E dopo due notizie che fanno riflettere su come è caduto in basso l’uomo, la terza è una di quelle positive che mostrano la volontà di ricerca e comprensione: R.U.