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Il magazzino dei mondi 2

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Come inizia una Storia

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C’era una volta…

Quante storie cominciano in questa maniera, ma non è questo di cui voglio parlare, non adesso perlomeno.

Che cosa spinge uno scrittore a scrivere una storia?
Di certo conta il piacere di scrivere e una forte vena creativa che deve trovare concretizzazione sulla carta.
Ma qual è la scintilla che fa arrivare a questo punto, che fa scoprire la volontà di usare le parole per dare vita a mondi e personaggi? Se non scocca, si può ignorare questo lato del proprio essere a lungo, accorgendosene di tanto in tanto per poi farlo riaddormentare; se invece avviene, scoprendo la propria motivazione, si arriva a raccontare degli altri mondi che vivono dentro di lui. Ognuno ha la sua per arrivare a questo punto.
Con me è cominciato per gioco.
Riflettendo con il senno di poi, non è stato un fattore tanto strano: il gioco ora viene inteso come semplice passatempo e divertimento, ma si dimentica che ha un ruolo propedeutico di primaria importanza nella crescita di una creatura. Perché il gioco serve a insegnare, attraverso di esso è più facile imparare valori e capacità che servono nella vita di ogni individuo. La natura è maestra: i cuccioli di qualsiasi razza imparano i modi di sopravvivere attraverso il gioco tra loro e con gli adulti. Certo, nel caso della scrittura non si tratta di sopravvivere, ma ciò che arricchisce la vita è qualcosa d’importante.

Conoscevo i giochi di ruolo attraverso la lettura di romanzi basati su questi sistemi di divertimento e ho avuto modo d’approfondirne la conoscenza con l’acquisto di manuali. Come a molti è successo, la loro lettura ha invogliato a realizzare ambientazioni e a crearne la storia e le fondamenta: i gdr sono un’ottima fonte d’inventiva da condividere con altre persone, passando momenti di divertimento in cui, per qualche istante, s’avverte la sospensione della realtà e si può quasi attraversare il velo e giungere in una dimensione diversa. Chi ha fatto questa esperienza sa di cosa sto parlando.
Alle volte però può succedere altro: dalla storia creata sorgono personaggi che reclamano una parte attiva, vogliono agire all’interno del mondo e delle vicende; cominciano ad avere vita propria. L’immagine di un’azione, l’ombra che passa in un vicolo, una frase percepita all’improvviso nella mente: non basta più creare spunti per i compagni d’avventura, si vuole dare spazio a queste figure che cominciano a muovere i passi nella creazione, dando seguito alle vicende che li stanno rendendo protagonisti e che suggeriscono d’essere raccontate. A quel punto da creatore di mondi ci si trova a essere spettatore e narratore delle azioni dei personaggi che stanno uscendo dall’ombra e salendo sul palcoscenico. (Se ci si sofferma a riflettere, non è così anche nei racconti della creazione da parte delle religioni? Una divinità, o essenza superiore, crea un mondo, lo popola e poi lascia le creature libere di agire e con le loro azioni creare e modificare il mondo che gli sta attorno. Qualcuno nel passato disse “Voi siete Dei”: e non è forse nell’atto del creare che riscopriamo, anche per solo un istante, un frammento della nostra divinità?)
Si dice che lo scrittore sappia già come far muovere i personaggi; quando scrive di certo sa già quello che succede. Ma è lui a decidere cosa far fare ai personaggi o sono loro che gli stanno dettando i pensieri e le azioni che vogliono mettere in atto? Chi ha in mano il potere e le redini della storia?
Razionalmente si può rispondere che è l’autore, che pensieri differenti sono solo fantasia; ma non è forse tutto una questione d’immaginazione? Il mondo che vediamo, quello reale, non è forse forma dei nostri pensieri, del nostro modo di desiderare, giusto o erroneo che sia? E questo modo, di cui spesso non capiamo l’agire, non giunge forse dall’inconscio, dalla parte di noi che non conosciamo? Chi ci dice che nell’ombra non ci siano forze, energie che stanno agendo per farci giungere in una certa direzione? Non mi riferisco a forze soprannaturali, ma a lati di noi che non conosciamo ancora, che si stanno svegliando e che stanno assumendo certe sembianze per far conoscere chi siamo.
Perciò reputo importante l’immaginazione e il ruolo che hanno mondi fantastici e personaggi all’apparenza inventati, che altro non sono che proiezioni per far crescere ed evolvere e, se vogliamo, possiamo chiamarli anche maestri di vita.
Così, senza avere questa consapevolezza, otto anni fa mi ritrovai su un percorso che prima non avevo considerato, reputando strano trovarmi di fronte a un foglio bianco.

Inizia sempre in questo modo una storia: un’infinita possibilità di scelte da poter cogliere o scartare.
Guardandomi indietro vedo la strada percorsa da quel semplice passo: non so dove porterà, ma continuo ad andare avanti.
Perché si è liberi di fare una scelta solo all’inizio: tutto il resto è una conseguenza.

“Guardò davanti a sé.
Mai come allora la strada era apparsa oscura e incerta. Non sapeva dove l’avrebbe portato né dove sarebbe arrivato. Forse per la prima volta era arrivato il momento di mettersi davvero in cammino: era rimasto fermo per troppo tempo.
“E’ ora di partire.”
Cavallo e cavaliere s’avviarono sulla pianura.”

Fantascienza e realtà

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Anni fa lessi un racconto di fantascienza ambientato in una società dove ai bambini, raggiunta una certa età, veniva fatto un test attitudinale e nel caso desse un certo esito, venivano eliminati secondo la procedura stillata dal governo.
Che requisito occorreva per incorrere in un simile destino?
L’intelligenza.
Il bambino del racconto era curioso, faceva domande, aveva voglia d’apprendere e imparare cose sempre nuove, non s’accontentava delle semplici risposte limitate del padre (figlio esemplare della società: s’accontentava della vita fatta di lavoro e dei passatempi passati dal sistema, non chiedeva altro).
Un racconto che mi ha sempre colpito, lasciandomi un timore che con il tempo ho visto concretizzarsi. Mettere da parte l’intelligenza perché può far crollare il sistema, un castello di carte campato in aria.
Molti racconti del genere, specie di fantascienza scritti nel passato, lanciavano moniti che allora sembravano solo fantasie, dove nei sistemi immaginati si potevano avere storie d’amore in base a punti da spendere conferiti dalla società, permessi d’avere figli in base al reddito o alla mappatura genetica.
Solo storie, si diceva, ma in realtà mostravano un futuro a cui si stava andando incontro: un futuro asettico, rigido, basato solo sulla produttività e sul far proliferare la società, il tutto per dar fasto al sistema, per dare splendore alla società. Il tutto naturalmente a discapito dell’umanità, dei sentimenti e dei rapporti umani; un processo che porta all’estraniazione dell’individuo.
Rende bene l’idea di questo il film Blade Runner: un mondo cupo, sempre battuto dalla pioggia, dove i protagonisti sono abbandonati a se stessi e non c’è speranza.
Non occorre guardare alla fantascienza del passato: il presente ne è un esempio concreto.
Basta pensare ad Alitalia e a Fiat, che hanno fatto e voluto accordi dove conta solo il lavoro e non si tiene in considerazione il fatto che le persone debbano avere una propria vita. Un esempio è quello che fa riferimento alle donne che hanno figli e che dovevano essere tutelate, aventi diritti che le società hanno ignorato, perchè la produttività e il profitto viene su tutto.
Se si continuerà di questo passo, si tornerà al passato, dove la gente sarà costretta a lavorare più di dieci ore al giorno, sabato e domenica compresi, con stipendi bassi, nessun diritto, solo il dovere di produrre, com’era all’inizio della rivoluzione industriale. Si avrà un futuro dove l’istruzione sarà per pochi, dove la gente non potrà più scegliere di creare la vita che vuole, ma sarà imposta dall’alto, dove avere anche una relazione o un figlio sarà deciso da regole fissate da chi governa.
Un mondo incentrato solo sul lavoro.
Un mondo privo di rapporti sociali e umani.
Privo di sentimenti.
Privo di amore.
Schiavitù.
Detta così sembra un racconto d’umor nero; si diceva così anche dei racconti di fantascienza: ora ci ritroviamo che la realtà li sta superando.
Non ci si crede? Andate a ricercare i racconti di tanti anni fa e vedrete. Non ascoltate chi dice che le produzioni attuali sono il meglio che ci possa essere: tirano solo acqua al loro mulino. Storie che dicono poco o niente, ma dove tutti sono felici e contenti, utilizzando un linguaggio (e tematiche) scarso ed elementare (un altro sintomo dell’impoverimento della cultura di una popolazione). Fate il confronto con le storie scritte nel passato e si avrà svelata la natura della società e il modo per contrastarla.
Perché con le storie si possono toccare tanti argomenti attuali: chi scrive con passione conosce questa realtà.

Nota a margine. Finora ho voluto parlare di mondo del lavoro,di mobbing, morti bianche, diritti, disagi (hichikomori):realtà che spesso non si vogliono sentire, ma che attraverso un racconto possono giungere lontano. Su questo è incentrato Non Siete Intoccabili, una storia che ho voluto scrivere.
Continuerò a parlare di storie, anche se cambierà la loro natura: nei prossimi post ci sarà un ritorno alle origini.

Il Vecchio e il Mare

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Il Vecchio e il Mare, un romanzo di Ernest Hemingway. E’ la storia di un pescatore a cui la fortuna ha voltato le spalle: le pesche sono infruttuose da lungo tempo. La gente del villaggio, vedendolo in difficoltà, se ne sta alla larga, timorosa che la sfortuna le si attacchi; l’unico che ha simpatia di lui è un ragazzo, ancora incontaminato dalla mentalità dei grandi. Superstizione. Pregiudizi. O più semplicemente fastidio per chi versa in cattive condizioni, timorosi che l’altro possa chiedere un aiuto.
Sembra quasi che nei momenti di difficoltà le persone se ne stiano alla larga perché i guai del malcapitato non li seguano. Si è evitati, messi da parte, la sola presenza un fastidio. La storia è un modo per mostrare che nelle difficoltà si è isolati, anche avendo qualcuno vicino, perché le difficoltà debbono essere affrontate da soli, nessuno può superarle al posto nostro.
Questa è una delle realtà dell’esistenza, quanto il romanzo ha detto a me; faccio questa premessa per rispetto all’autore, che per sua natura non amava che si cercassero simbologie nei suoi libri. Ciò che voglio non è ricercare allegorie, ma semplicemente mostrare a ciò che il romanzo mi ha fatto pensare: un esempio da seguire.
Il pescatore è l’uomo, rappresenta ogni individuo, chiunque può raffigurarsi in lui perché chiunque ha incontrato difficoltà e periodi duri.
L’oceano è simbolo di vita, da esso si dice che si siano sviluppate le prime forme d’esistenza che hanno dato il via al mondo e alle creature che conosciamo. L’oceano con le sue profondità, gli abissi, i luoghi bui è anche il simbolo della nascita delle creazioni: divine, letterarie, scientifiche.
Il pescatore ogni giorno va nell’oceano a pesca: così è l’uomo che ogni giorno va incontro alla vita. Quella vita capace di fare doni (il pesce spada), ma anche di rovinarli e farli perdere (squali), come se alle volte voglia essere chiusa, precludere qualsiasi cosa all’individuo, come se si ostinasse contro di lui.
Il vecchio, oppresso dalle fatiche e dall’età, non si arrende, continua a lottare, convinto che le cose non possono andare male per sempre, che quello che serve è solo tenere duro un altro po’. Questa è la lotta con il pesce, rappresentazione del duro periodo in cui è, deciso a non lasciarsi sopraffare. Il vecchio è l’uomo che fa, che lotta. E alla fine ce la fa, ne esce vincitore: il pesce spada, la difficoltà, non l’ha avuta vinta.
Ma le vittorie sono effimere e ci sono sempre squali pronti ad accanirsi e a distruggere, a sfruttare il periodo di debolezza, rovinando impegno e volontà, lasciando con nulla in mano; lasciando sconfitti.
Così è alle volte la vita: ingiusta, crudele.
E allora sorge una domanda.
Vincere, perdere: che differenza fa?
Tutto passa, tutto è mutevole; niente è per sempre, tutto è cambiamento.
E allora perché darsi tanto da fare, se alla fine, in qualsiasi caso, non si ha nulla in mano?
Per non rinnegare se stessi; per non arrendersi. Perché la vita è anche lotta, una lotta che merita di essere affrontata. Non conta il risultato, non conta ottenere riconoscimenti: conta essere.
E il pescatore è stato l’uomo che non ha mollato.
Una storia triste, ma anche di speranza, un invito a non mollare perché il fato, il destino, la malasorte (chiamatelo come volete) può anche uccidere una persona, ma non avere la meglio su di lei.
Perché non mollare è ciò che conta: il non arrendersi è LA vittoria.

Malattia

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Anche oggi la notizia di una persona che si è suicidata perché non riusciva a trovare lavoro: il numero dei morti spinti dalla disperazione di essere disoccupati è in aumento. E mentre queste tragedie si consumano finendo presto nel dimenticatoio, la classe imprenditoriale si preoccupa solamente di poter pagare meno tasse e i lavoratori, pensa solamente a sé senza comprendere che creando ricchezza anche per gli altri avrebbe anche lei da guadagnarci di più.

E’ triste costatare che senza un lavoro, quindi senza soldi, si è preclusi alla vita: questo è il messaggio e la regola che vige in questo sistema. Se non si hanno i soldi non si può creare una famiglia, non si può vivere insieme a qualcuno e avere figli, perché non si sa come mantenerli, non ci sono i mezzi per portare avanti il progetto di vita insieme: è amaro costatare come amore, sentimenti e rapporti dipendano dal denaro. Non è così per tutti, c’è chi si ribella a questo sistema e anche se a fatica e con tanti sacrifici porta avanti questo progetto; ma ci sono tanti rapporti che di fronte alle difficoltà economiche lasciano andare perché non si riesce ad avere una vita spensierata: questo è il frutto della cultura di questo sistema.
Ma la mancanza di denaro non va ad intaccare solo i rapporti di coppia, ma anche quelli sociali: i punti di aggregazione sono pochi e se si vuole avere a che fare con altre persone occorre pagare: palestre, pub, scuole, università (le ultime due non sono solo luoghi d’istruzione e apprendimento, ma anche di socializzazione: i prezzi elevati di tasse d’iscrizione e il costo dei libri limitano l’accesso a chi è in difficoltà).
Anche il lavoro, per quanto ora sia un inferno, è un luogo dove avere contatti sociali (ci si passa la maggior parte delle ore della giornata).
Senza soldi si è privati del rapporto con gli altri, si è isolati. E la natura insegna che una creatura isolata, solitaria, ha meno possibilità di sopravvivere rispetto a chi è in gruppo. Un ramo se staccato da un albero si secca e muore. Così è anche per l’uomo: l’isolamento può portarlo ad ammalarsi e da qui alle volte anche a morire. Sì, perché ci sono tanti modi di morire, non c’è solo la morte del corpo, ma anche quella interiore.
Stessa cosa è per le malattie: sono sia fisiche sia psichiche. E quando una persona è malata si ha a che fare con reazioni poco piacevoli.
Nel vedere una persona che non sta bene, fisicamente, ma anche psicologicamente, s’avverte un muro, un freno verso di lei. Ci si trova a disagio perché non si sa come comportarsi, come muoversi, temendo d’urtare l’altro con una frase o un atteggiamento poco appropriato: si teme d’indisporlo, mancando di rispetto alla sua condizione. Un eccesso di sensibilità e preoccupazione. Ma spesso ci si attacca a simili ragionamenti per celare l’ipocrisia, per nascondere la voglia di non avere a che fare con i lati meno belli della vita.
Chiunque potendo scegliere preferirebbe aver a che fare solo con i lati piacevoli dell’esistenza, è normale; non è normale invece il rifiuto, sintomo d’egoismo, di durezza d’animo, superficialità. Non si vuole avere a che fare con la persona malata per timore che la malattia che l’ha colpita possa a sua volta afferrarla; ciò che si teme davvero è un giorno di trovarsi in una condizione simile ed essere isolato dagli altri, abbandonato.
Il problema non è la malattia fisica o psichica che colpisce l’individuo: il problema è che è la società la malattia. E’ lei con la sua mentalità traviata ed estraniante a creare patologie e scompensi nelle persone.
Gli individui malati, in numero sempre crescente, sono spia d’allarme di qualcosa di sbagliato nella società. Ossessioni, depressioni, schizofrenie, atteggiamenti di chiusura che portano a pensare che queste persone sono dei disadattati perché non riescono a vivere all’interno della società. Si è davvero sicuri che la società sia sana e normale? Un segnale molto forte arriva dalle persone affette da Hikikomori: un ritirarsi all’interno di se stessi (stanza interiore) chiudendo le porte a ciò che è all’esterno, ritenuto minaccia e pericolo.
Uno dei tanti segnali che va ascoltato.

Il quadro che ci circonda non è confortante. Quando le cose vanno male, da sempre l’uomo alza gli occhi al cielo e desidera avere le ali per volare in alto.
Un desiderio di fuga?
Forse.
Ma anche la volontà di ricercare qualcosa di più elevato nella vita: i valori che rendono importante l’esistenza.

Ali per volare

Attualità attraverso il fantastico

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Sono convinto che scrivere opere di ambientazione fantastica non sia solo un modo per rilassarsi e distrarsi, ma anche per parlare dei problemi della realtà. Lo fa Steven Erikson nella saga del Libro dei Caduti di Malazan, lo fa Stephen King in The Dome (questa recensione rende bene l’idea), lo fa Francesco Falconi in Gothica.

Un buon libro, il soggetto interessante e ben strutturato. La lettura è fluida, anche se si avverte che lo spazio per la scrittura è limitato; un peccato perché avrebbe permesso di approfondire tematiche d’attualità. Tematiche che tuttavia non sono state trascurate, ma che lasciano spunti di rflessione.
Il lettore si sarebbe aspettato una caratterizzazione maggiore dell’ambientazione, ma il libro non vuole soffermarsi sull’esteriorità, quanto sull’interiorità. E’ proprio la caratterizzazione dei personaggi a rendere questo elemento: il confronto religione/scienza interpretato da padre Faust ed Helena rappresenta in modo realistico il rapporto che c’è stato e che esiste tuttora tra queste entità; una riflessione che alberga in ogni individuo. Ben reso il punto di vista di padre Faust, lo sforzo di un uomo di religione e le sue difficoltà a superare le barriere che il credere comporta e la chiusura che allontana dalla comprensione e limita l’esistenza; fattore ben mostrato nel modo in cui contrasta l’amore per Julia e dello strazio che c’è nella sua anima dovuto a legacci e condizionamenti per l’appartenere a un’istituzione.
Proprio Padre Faust è il punto di forza del libro e attraverso di lui passa il messaggio su fin dove la scienza può spingersi ed essere un aiuto e non uno sfruttamento: un individuo lacerato dalla verità che porta dentro di sé e che lentamente comincia a scoprire, che mano a mano che si svela lo fa richiudere in se stesso e a confrontarsi con dubbi e paure, escludendo il mondo esterno, cercando di trovare una ragione in quello che accade.
Riconoscersi in Padre Faust, coi suoi dubbi, il sentirsi spaesato in un sistema annichilente, il contrato dei sentimenti, è un modo per comprendere come tutti gli individui sono uguali e attraversano le stesse esperienze di vita. Se si comprendesse questo, molte divisioni tra persone, e quindi popoli, svanirebbero come neve al sole.

Sicurezza sul lavoro. Appello dal basso contro spot Ministero

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L’ANSA ha dato notizia dell’iniziativa per raccogliere firme contro lo spot del ministero del lavoro sulla sicurezza sul lavoro. Può essere letta a questo indirizzo.

INIZIATIVA: Appello per ritiro spot del Ministero del Lavoro dal titolo: Sicurezza sul lavoro.La pretende chi si vuole bene.

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Nel post precedente ho parlato del modo in cui il Ministero del Lavoro sta facendo spot per sensibilizzare le persone sulla sicurezza sul posto di lavoro; modo che non è quello adatto e consono per cambiare lo stato delle cose su infortuni e morti bianche.
Dall’alto non c’è da aspettarsi molto, i fatti quotidiani su ogni fronte lo dimostrano. Se si vuole che le cose cambino si deve partire dal basso, come viene fatto in questo caso.
Vi segnalo queste iniziativa:

Appello per il ritiro dello spot del Ministero del Lavoro: “Sicurezza sul lavoro. La pretende chi si vuole bene”
La Campagna per la sicurezza sul lavoro, promossa dal Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali
recita “Sicurezza sul lavoro. La pretende chi si vuole bene”. Un messaggio e due spot:

http://www.lavoro.gov.it/Lavoro/AreaComunicazione/CampagneComunicazione/2010/20100727_Campagna_Comunicazione_salute_sicurezza.htm

rivolti solo al lavoratore e non a tutti gli “attori” coinvolti.
Dopo aver frantumato il Dlgs 81 del 2008 del Governo Prodi, hanno ben pensato di correggerlo con il decreto correttivo Dlgs 106/09 (sanzioni dimezzate ai datori di lavoro, dirigenti, preposti, arresto in alcuni casi sostituito con l’ammenda, salvamanager, ecc).
Ora il governo cerca di rifarsi la “verginità” con spot inutili che costano alle nostre tasche ben 9 milioni di euro. Spot non solo inutili, ma anche dannosi per l’immagine di chi ogni giorno rischia la vita, e non perché gli piaccia esercitarsi in sport estremi. Spot che colpevolizzano sottilmente il lavoratore stesso, nascondendo una realtà drammatica: l’attuale organizzazione del lavoro offre ben poche possibilità al lavoratore di ribellarsi a condizioni di lavoro sempre più precarie in tema di sicurezza.
E’ una campagna vergognosa perché oggi il lavoratore ha ben poche possibilità di rispettare lo slogan “Sicurezza sul lavoro. La pretende chi si vuole bene”, quasi che la mancanza di sicurezza fosse imputabile al fatto che il lavoratore non vuole bene a se stesso ed ai suoi familiari. Non dice nulla di chi deve garantire la sicurezza per legge, ovvero i datori di lavoro. Sottovaluta i rapporti di forza nei luoghi di lavoro. Non accenna minimamente al fatto che i lavoratori, specialmente di questi tempi, sono sempre più ricattabili e non hanno possibilità di scegliere di fronte ad un lavoro
in nero, un lavoro precario e un lavoro a tempo determinato, mentre devono viceversa sottostare a ritmi da Medio Evo.
La campagna dovrebbe invece avviare un processo di comunicazione diffusa, in modo da rendere nota a tutti la necessità di un impegno costante da parte di tutti gli “attori” coinvolti, soprattutto di chi deve garantire la sicurezza.
Questi spot devono essere sostituiti da una campagna di comunicazione che dovrà puntare sulle
responsabilità civili, penali e non ultime anche etico-morali che l’imprenditore deve assumersi
per tutelare l’integrità delle persone che lavorano per lui.
Via questi spot vergognosi. Pretendiamo viceversa più ispettori ASL e più risorse, affinché la mattanza quotidiana dei lavoratori abbia fine. Non si raggiunga il profitto a tutti i costi e soprattutto non lo si faccia attraverso il sacrificio di vite umane innocenti.

FIRMATARI:
Marco Buzzoni – Operaio metalmeccanico e Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza-Firenze.
Andrea Bagaglio – Medico del Lavoro-Varese.
Leopoldo Pileggi – Rappresentante dei lavoratori per La Sicurezza-Correggio.
Daniela Cortese- RSU/RLS Telecom Italia Sparkle-Roma

Chi vuole aderire all’appello, invii il proprio nominativo, azienda, qualifica e città al seguente indirizzo email: bazzoni_m@tin.it