Sono convinto che scrivere opere di ambientazione fantastica non sia solo un modo per rilassarsi e distrarsi, ma anche per parlare dei problemi della realtà. Lo fa Steven Erikson nella saga del Libro dei Caduti di Malazan, lo fa Stephen King in The Dome (questa recensione rende bene l’idea), lo fa Francesco Falconi in Gothica.
Un buon libro, il soggetto interessante e ben strutturato. La lettura è fluida, anche se si avverte che lo spazio per la scrittura è limitato; un peccato perché avrebbe permesso di approfondire tematiche d’attualità. Tematiche che tuttavia non sono state trascurate, ma che lasciano spunti di rflessione.
Il lettore si sarebbe aspettato una caratterizzazione maggiore dell’ambientazione, ma il libro non vuole soffermarsi sull’esteriorità, quanto sull’interiorità. E’ proprio la caratterizzazione dei personaggi a rendere questo elemento: il confronto religione/scienza interpretato da padre Faust ed Helena rappresenta in modo realistico il rapporto che c’è stato e che esiste tuttora tra queste entità; una riflessione che alberga in ogni individuo. Ben reso il punto di vista di padre Faust, lo sforzo di un uomo di religione e le sue difficoltà a superare le barriere che il credere comporta e la chiusura che allontana dalla comprensione e limita l’esistenza; fattore ben mostrato nel modo in cui contrasta l’amore per Julia e dello strazio che c’è nella sua anima dovuto a legacci e condizionamenti per l’appartenere a un’istituzione.
Proprio Padre Faust è il punto di forza del libro e attraverso di lui passa il messaggio su fin dove la scienza può spingersi ed essere un aiuto e non uno sfruttamento: un individuo lacerato dalla verità che porta dentro di sé e che lentamente comincia a scoprire, che mano a mano che si svela lo fa richiudere in se stesso e a confrontarsi con dubbi e paure, escludendo il mondo esterno, cercando di trovare una ragione in quello che accade.
Riconoscersi in Padre Faust, coi suoi dubbi, il sentirsi spaesato in un sistema annichilente, il contrato dei sentimenti, è un modo per comprendere come tutti gli individui sono uguali e attraversano le stesse esperienze di vita. Se si comprendesse questo, molte divisioni tra persone, e quindi popoli, svanirebbero come neve al sole.
Per qaunto mi riguarda, il miglior fantasy è quello che ha a che vedere con la realtà (in tutti i modi possibili, anche diametralmente opposti quali quelli di Dimitri e D’Andrea)
Per me non esiste un tipo migliore di fantasy, ma tutti i tipi di fantasy possono dare qualcosa: da Pan e Alice di Dimitri a L’Acchiapparatti di Barbi, dalla saga epica di Malazan di Erikson a quella di Mistborn di Sanderson. Ci sono tanti modi per trasmettere insegnamenti (Sanderson attraverso i suoi libri fa riflettere sui danni che gli assolutismi e i culti dell’ego incentrati un’unica persona possono fare); ciò che trovo limitante è il pensiero che considera il fantasy come semplice intrattenimento, banali storie, favole per bambini (ma fiabe e favole hanno da insegnare più di quanto si creda: messaggi semplici che vanno ad attecchire in profondità, lasciando segni indelebili). Ci sono dimostrazioni che così non è e vanno mostrate.
Totalmente d’accordo col tuo ultimo commento, M.T.
E aggiungo che sul versante “fiabe e favole” si può calare il carico “Silvana De Mari”, che di messaggi e insegnamenti ne trasmette a bizzeffe 😀
Per il resto, ovviamente ci sono libri che non hanno quasi nulla da dire. Ma quelli sono i libri più brutti, sono sterili e piatti e non riescono a emozionare e ad accendere quella lampadina nel lettore…
Un libro può anche non piacere, ma trasmettere lo stesso qualcosa (mi viene in mente un libro letto anni fa di Patricia Highsmith, Quella dolce follia: il soggetto e la trama non mi piacquero, nel senso che non era un genere che apprezzavo, ma comunque ha lasciato un segno che mi ha fatto riflettere a lungo); è preoccupante quando un libro è vuoto e lascia indifferenti.