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Suicide Squad

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Suicide SquadSuicide Squad non fa eccezione: rientra tra i film Dc Comics che non mi hanno preso e questo riguarda la maggior parte di tali pellicole, chi più chi meno (certo è molto meglio del seguito, che davvero è meglio lasciar perdere). Va premessa una cosa: ho una conoscenza limitata dei personaggi tratti dai fumetti presenti in Suicide Squad. Conoscevo il Joker (ci vuole davvero poco, è il nemico numero uno di Batman, ma qui non un ha ruolo da protagonista), Harley Quinn e Deadshot come uno dei tanti avversari di Batman, ma degli altri praticamente non sapevo nulla (anche se va detto che Katana fa la sua comparsa nella serie televisiva Arrow, ergo non mi era nuova), quindi non posso dire se sono stati fedeli allo spirito e all’idea che stava alla base della Suicide Squad. Quello che posso dire è che i personaggi (stando a pareri di chi li conosce meglio di me), rispetto alla versione cartacea, sono stati addolciti, resi più “buoni” (rimanendo pur sempre dei criminali) per il grande schermo: questo si vede per esempio in Deadshot, dove ci si è dimenticati che è un individuo privo di sentimenti, pronto a tradire i compagni pur di raggiungere il proprio scopo. La Suicide Squad sembra un gruppo di reietti cui viene data una sorta di possibilità di riscatto e redenzione.
La trama del film è abbastanza semplice: senza più Superman a difendere la Terra, Amanda Waller crea una squadra di criminali a cui vengono dati sconti di pena e altri benefit per fermare una minaccia soprannaturale. La verità salterà fuori col tempo, ci saranno attriti interni, ma alla fine il gruppo farà fronte comune contro il nemico, ci sarà un sacrificio come ci si aspetta in un film del genere e alla fine tutto andrà come deve andare.
Tutto sommato, Suicide Squad non è un film malvagio, si lascia guardare, ma manca di mordente e in più di un’occasione regna la noia; una delle note positive è Margot Robbie, che interpreta Harley Quinn, a mio avviso una delle poche ragioni per vedere questo film (la sua interpreteazione è migliore di quella di Will Smith, che tutto sommato però il suo lo fa discretamente).
In una cosa però Suicide Squad è riuscita, ovvero creare il peggior Joker visto finora su schermo: in questa pellicola davvero inconsistente.
Pellicola che raggiunge la sufficienza ma nulla di più (ma se si fa il confronto con il seguito, si è di fronte a un film davvero buono).

Defiant

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DefiantDefiant conferma le impressioni che avevo avuto con Cytonic: la saga sci-fi di Brandon Sanderson è andata in calare. Con Skyward e Starsight, i primi due volumi della serie, la storia si era mantenuta su un buon livello, risultando coinvolgente e convincente, mentre con il terzo, il già citato Cytonic, si era cominciato ad avvertire una certa mancanza di mordente. Forse era stato l’immettere una sorta di giocare ai pirati di Spensa, forse era stata la specie di ricerca alla Indiana Jones (qualcuno potrà dissentire su quanto scrivo, ma tale è l’impressione che ho avuto leggendo Cytonic), ma ho trovato il tutto un poco fuori posto con l’ambientazione fantascientifica letta fino a quel punto. Sia chiaro: la fantascienza realizzata da Sanderson non è niente di complesso (nulla a che vedere con il mondo e la storia di Dune di Herbert), ma è godibile, almeno fino al terzo romanzo. Continua a esserlo anche con esso e dopo di esso, ma non è più la stessa cosa dell’inizio, non sorprende e non prende più allo stesso modo; è possibile che ciò dipenda dal fatto che la serie è indirizzata a un pubblico young adult e visto che ormai non ho più quell’età da un pezzo (gli anni si sono accumulati e così pure le letture fatte), la percezione e l’impressione sull’opera possono essere diverse (potrei dissentire su tale ipotesi, dato che i primi due romanzi mi erano piaciuti e mi avevano convinto e non è che ero adolescente quando li ho letti).
Una cosa però va detta: uno dei punti deboli più forti di Defiant è che si fa sentire con forza lo young adult, soprattuttto nella parte romance, quando Spensa comincia a partire per la tangente pensando a quanto è bello, quant’è figo il suo amato Jorgen. Niente in contrario con le storie d’amore: quella di Vin ed Elend nella saga di Mistborn era fatta bene. Quello che non va bene è lo scadere negli aspetti più negativi dello young adult, cosa che da Sanderson non si accetta, perché lo scrittore ha dimostrato cosa sa fare. Forse dipende dalle direttive editoriali, forse si è voluto realizzare qualcosa più per i giovani, dando insegnamenti come il non poter fare tutto da soli,  contare sull’aiuto degli altri, fare parte di un gruppo così da non essere soli perché se si è soli si fa una brutta fine (questa è la lezione che si apprende mettendo a confronto Spensa e Brade) ma da un autore come Sanderson ci si aspetta altro.
Altro aspetto penalizzante del romanzo è il che vada tutto bene, non ci siano vittime. Se da un lato è comprensibile che si cerchi un modo differente di battere la Superiorità evitando di causare un gran numero di vittime, è però anche vero che è poco verosimile che questo accada realmente. Se fosse stato così fin da subito, forse la cosa si sarebbe accettata di più, ma è stato il cambiamento fatto durante il corso dell’opera che invece lascia un po’ perplessi; in Skyward, tanti piloti umani vengono uccisi, la stessa Spensa vede morire dei suoi compagni di squadriglia, mentre in Defiant solo uno dei suoi amici rimane ferito (perdita di un braccio, rimpiazzato da uno arteficiale che non fa risentire dell’accaduto). Sì, verso la fine c’è un sacrificio nella battaglia decisiva (come spesso accade in una certa tipologia di storie), ma nulla di più. Sembra che alla fine tutto vada per il meglio, con tutti che si ritrovano a tarallucci e vino.
Quello che però più penalizza la storia, almeno per quanto pubblicato in Italia, rendendola meno comprensibile, è il fatto di avere a che fare con eventi di cui non si è letto nulla; ci si ritrova all’improvviso a sapere di Jorgen che ha salvato Nonnina e Cobb dopo che erano rimasti bloccati in una trappola citonica a seguito di un iperbalzo. Ci si trova davanti all’alleanza creatasi tra umani, kitsen e UrDail pronta opporsi e ribaltare la Superiorità. Ci si ritrova a sapere che i citonici kitsen sono stati liberati dalla loro prigionia e ora sono ben lieti di combattere contro la Superiorità. Tutti eventi probabilmente narrati in Skyward Flight (libro integratico di Cytonic), come si può intuire dalle parole di Sanderson nei ringraziamenti finali in Defiant (sarà tradotto in italiano?)
Come in altre opere di Sanderson ci saranno sorprese, non tutto apparirà come si credeva, ci saranno battaglie, uno scontro risolutivo epico, Spensa avrà la resa dei conti con Brade, si scoprirà che ci sono tante razze di lumache con diversi poteri, la natura degli Eradicatori verrà approfondita (era già stato rivelata in Cytonic), ma ci sono anche elementi inutili per la storia di cui si poteva fare a meno (che senso ha ricostruire il caccia che un tempo ospitava M-Bot se poi non lo si utilizza e viene accantonato come si fa con l’involucro di un cioccolatino?).
Per quanto godibile, Defiant è un po’ troppo semplice, lineare e anche prevedibile, ma soprattutto è troppo young adult. Forse ci si aspetta sempre troppo da Sanderson visto quello che ha saputo dimostrare e questa è la ragione per cui si è così critichi con questo romanzo, ma con Defiant si poteva fare di meglio.

The Tunnel to Summer, the Exit of Goodbyes

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The Tunnel to Summer, the Exit of GoodbyesThe Tunnel to Summer, the Exit of Goodbyes è la storia di due adolescenti, Tono Kaoru e Hanashiro Anzu, che s’incontrano in un giorno di pioggia alla fermata del treno; non avendo l’ombrello, il ragazzo dà alla ragazza l’ombrello perché vede che lei è senza e tiene ben stretta una borsa per non farla bagnare, segno che per lei è importante.
Come scopriranno poco dopo, sono nella stessa classe a scuola; Hanashiro praticamente non lega con gli altri compagni (anzi, ci litiga e viene pure alle mani), tranne con Tono, con cui sembra essere entrata subito in sintonia, forse perché hanno entrambi problemi con i genitori: lei vive da sola perché i suoi l’hanno mandata lontano da casa perché vuole seguire le orme del nonno mangaka (che hanno sempre considerato un peso e un fallito), lui vive con un padre alcolizzato dopo che la madre se n’è andata causa la scomparsa della sorella minore. La morte della sorellina ha segnato profondamente Tono, cambiandone il carattere e lasciando in lui una profonda ferita; è convinto che se la sorella non se ne fosse andata, la famiglia non si sarebbe sfasciata.
Le cose sembra che possano cambiare quando una sera, scappando di casa dopo che il padre ubriaco l’ha aggredito, Tono finisce per caso per trovare il Tunnel di Urashima capace, secondo una leggenda metropolitana, d’esaudire qualsiasi desiderio. Mentre lo esplora, trova uno dei sandali di Karen, la sorella, e subito dopo il pappagallino che avevano da piccoli, vivo e vegeto, quando ormai invece nella realtàè morto da tempo. Altra cosa che scopre una volta uscito dal tunnel è che è trascorso una settimana di tempo, mentre per lui sono passati pochi minuti.
Deciso ad approfondire la cosa, decide di ritornarci e a sua insaputa, viene seguito da Hanashiro. I due decidono di collaborare per venire a capo del segreto del tunnel e scoprire se per davvero può esaudire i loro desideri. La ragazza, durante le loro prove, ritroverà le tavole di un manga che aveva disegnato, e vuole esprimere il desiderio di diventare una mangaka affermata, dato che le possibilità per farcela sono poco e ci vuole un talento particolare per avere successo, cosa che lei non ritiene di avere.
Tono, dopo aver letto il suo lavoro, la incoraggia e lei decide d’inviare la sua opera a una casa editrice; con sua sorpresa, viene accettata, ma lei ritiene di non avere ancora successo e per questo decide di andare assieme al ragazzo fino in fondo al tunnel, come si erano promessi di fare.
Tono però non mantiene la promessa perché ha capito due cose: uno, che Hanashiro non ha biosgno del tunnel perché possiede già talento per avere successo; due, che il tunnel non esaudisce tutti i desideri, ma fa rriavere ciò che si è perso. Da solo entra nel tunnel, deciso ad arrivare in fondo al tunnell per riavere la sorella, anche se per farlo nel mondo reale passeranno degli anni.
Hanashiro, anche se sconvolta e staziata dal dolore di non poter rivedere Tono di cui si è innamorata, segue le ultime parole dell’ultima mail inviata dal ragazzo, e diventata una mangaka apprezzata. Tono, dal canto suo, riesce a ritrovare la sorella e mentre è assieme a lei nella loro vecchia casa, ritrova il cellulare che aveva gettato e legge le mail che Hanashiro gli ha inviato aspettandolo per anni. Tono capisce che entrando nel tunnel ha perso qualcos’altro e, incoraggiato dalla sorella, torna indietro.
Hanshiro ormai è una donna, ma quando rivede Tono, è come se il tempo non fosse mai passato e i due si baciano.
Cosa dire di The Tunnel to Summer, the Exit of Goodbyes? Un buon film, che come atmosfere ricorda quelle di Makoto Shinkai (vedere Your name): sognanti, un po’ tristi, che parlano di cose perdute, persone che si allontanano e a volte si ritrovano. Tomohisa Taguchi segue un po’ le tracce di Shinkai, discostandosi dalle atmosfere del manga (almeno questo è quello che si capisce leggendo altre recensioni) e prendendo un’altra direzione dalla versione cartcea (la storia si focalizza solo sui due ragazzi, che appaiono più chiusi e “cupi”). Lo sviluppo del tema amoroso e del capire cosa è importante e di come alle volte si perda di vista ciò che conta inseguendo sogni impossibili, non sarà dei più originali (si è visto tante volte in tante forme diverse), ma svolge il suo compito di creare una storia che prenda lo spettatore e lo porti fino alla fine; il finale può sembrare un po’ affrettato e scontato, ma serve per discostarsi da certe atmosfere tristi(certo, sarebbe stato più interessante mostrare una Hanshiro più adulta che si domanda se Tono sta ancora camminando nel tunnnel, mostarndo lui che ancora insegue il suo sogno e far finire così il film, ma queste sono solo disquisizioni inutili). The Tunnel to Summer, the Exit of Goodbyes è un buon film, ma non sarà annoverato tra quelli memorabili.

Josée, la tigre e i pesci

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Josée, la tigre e i pesciJosée, la tigre e i pesci è un bel film d’animazione di Kotaro Tamura, magari non proprio il massimo dell’originalità, che in qualche modo può ricordare La forma della voce (si parla di disabilità), ma è una pellicola interessante, impegnata, con una buona regia, una bella fotografia, una trama ben sviluppata e personaggi approfonditi, specie in quello di Josée (si fa chiamare così per via della protagonista del suo libro preferito, ma in realtà il suo vero nome è Kumiko Yamamura).
Josée è giovane donna disabile (è su una carrozzina a rotelle) e vive con la nonna iperprotettiva (i genitori sono morti da tempo); sa ben poco del mondo esterno e crede che tutto fuori di casa sia pericoloso e pieno di bestie spaventose (una delle frasi che dice è “ci sono tigri ovunque” e si capisce così in parte la ragione del titolo). Un giorno viene involontariamente salvata da uno studente universitario,Tsuneo Suzukawa, appassionato d’immersioni, il cui sogno è andare a studiare in Messico per osservare un pesce raro. La nonna, per ringraziarlo, gli offre un lavoro: occuparsi delle esigenze della nipote.
All’inizio il rapporto tra i due è difficile: Josée gli assegna da fare le mansioni più strane e inutili, lo tiranneggia, al punto che Tsuneo pensa di rinunciare al lavoro. Ma lentamente i due cominciano a comprendersi; Tsuneo le fa conoscere il mondo esterno, nonostante il divieto della nonna di uscire di casa (un divieto che però è solo di facciata, perché la nonna è felice che la nipote cominci ad aprirsi e a crescere). E mentre Tsuneo le fa rivedere il mare così da rispondere alla domanda fattale dal padre su quale sapore avesse il mare e le fa conoscere altre persone, rimane colpito dalla bravura della ragazza nel disegnare e nella passione che mette in quello che fa. Josée, dal canto suo, grazie anche all’amicizia di Kana, la bibliotecaria che ha conosciuto con le uscite di Tsuneo, si apre agli altri e scopre di voler pubblicare un libro illustrato per bambini.
Tutto sembra procedere per il meglio, ma la morte della nonna cambia le cose: Josée, essendo disabile, subisce pressioni dai servizi sociali e si scontra con una realtà diversa dai sogni che ha. C’è una sorta di frattura con Tsuneo e i due si allontanano, almeno fino a quando lui ha un incidente e rischia di non riuscire più ad andare in Messico; scoraggiato, Tsuneo pensa di rinunciare, ma la forza d’animo di Josée gli fa ritrovare il coraggio di non mollare. Ognuno dei due alla fine riesce a trovare la propria strada e a dichiarare i sentimenti che prova per l’altro.
Certo, Josée, la tigre e i pesci non è un film perfetto, ci sono delle forzature e delle coincidenze che fanno alzare gli occhi al cielo, come se tutto fosse guidato per arrivare a un determinato punto, ma nel complesso è un film godibile, che mostra come affrontare e superare le difficoltà, come comprendere e conoscere meglio l’altro. Forse il finale è la parte debole del film, spinto verso l’happy end, ma la critica non è tanto per la scelta che viene fatta, ma per come viene realizzata; ciò non toglie validità a Josée, la tigre e i pesci, uno di quei film che ogni tanto occorre vedere per capire che nonostante le brutture che ci sono nel mondo, c’è qualcosa per cui vale la pena andare avanti.