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The last dance

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The last danceThe last dance sono le parole usate da Phil Jackson per definire la sua ultima stagione sulla panchina dei Chicago Bulls e che danno il nome all’omonimo documentario sulla famosa squadra che negli anni 90 ha fatto la storia dell’NBA. La serie vorrebbe mostrare il culmine del successo di questa squadra di basket ma, anche se in parte lo fa, è più che altro concentrata sulla carriera di Michael Jordan. Certo, nelle prime puntate vengono mostrati due giocatori fondamentali al successo come Scottie Pippen e Dennis Rodman, ma più che altro, grazie ai tanti flash back, è la carriera di Jordan a essere al centro dell’attenzione (anche se viene dato un poco di spazio a elementi del team come Steve Kerr, Tony Kukoc, John Paxon e Horace Grant).
The last dance mostra come i Chicago Bulls e in primis Jordan abbiano avuto negli anni del loro successo una forte impronta non solo a livello sportivo, ma anche mediatico; occorre menzionare che Takehiko Inoue, mangaka e grande appassionato di basket, abbia preso esempio dai Chicago Bulls per disegnare la squadra dello Shohoku in Slam Dunk (vedere la divisa, ma anche la sua storia, dato che, come i Chicago prima dell’avvento di Jordan, questo team era mediocre, divenendo forte a un certo punto con l’arrivo di un paio di elementi fondamentali per la sua crescita), ispirandosi a Jordan e Rodman, sia caratterialmente sia tecnicamente e fisicamente, per creare i personaggi di Kaede Rukawa e Hanamichi Sakuragi. Innegabilmente, i Chicago Bulls e soprattutto Jordan sono stati un brand che ha fruttato milioni di dollari, cambiando radicalmente la NBA (e non solo): è grazie a loro se la più grande e famosa lega di basket ora è quella che è.
Bisogna chiarire però subito una cosa: chi cerca in questo documentario un clinic sulla pallacanestro, che mostri gli schemi, il modo di giocare dei Chicago Bulls, come affrontavano l’avversario, le contromisure che prendevano, può rimanerne deluso, dato che The last dance è più una telenovela o un reality, dove i protagonisti affrontano l’ostacolo di turno, il nemico da battere per raggiungere la meta, mostrandosi da soli contro tutti. Questo, da un certo punto di vista, è anche normale, dato che i Chicago erano divenuti la squadra da battere: è sempre così quando si vince tanto. Questo modo di fare in particolar modo era usato da Jordan, che per caricarsi doveva sempre trovare un nemico da sconfiggere, fossero gli avversari in campo, i media o il general manager Jerry Krause, mostrato in questa serie sotto una luce negativa. Se da un certo punto di vista il carisma di Jordan era capace di guidare la squadra e stimolare i compagni, da un altro punto di vista la grande sicurezza di questo campione sfociava in un ego spesso mostruoso, arrivando a toccare punte di arroganza e bullismo deleterie: avere a che fare con lui non era facile e questo non gli ha procurato grandi amicizie, come lui stesso ha ammesso. Ma era il prezzo da pagare per essere un vincente, questo almeno secondo la sua opinione; ci sono stati altri grandi giocatori nella storia NBA come Kareem Abdul-Jabbar, Kobe Bryant, LeBron James che hanno fatto ugualmente grandi cose senza rendersi così antipatici (senza contare il loro impegno sociale al di là del campo da basket).
Senza dimenticare che Jordan, volente o nolente, è stato preso come un esempio da seguire: l’uomo che ce la fa da solo, che raggiunge la fama e il successo, che non si ferma dinanzi a nessun ostacolo. Insomma, una sorta di superuomo o anche supereroe, idolatrato da una marea di persone. In fondo, chi, non solo tra quelli che giocavano a basket, non ha voluto essere Michael Jordan? Tra i giovani appassionati di pallacanestro, che magari andavano a fare quattro tiri al campetto vicino a casa, non c’è stato uno che non ha sognato di essere il giocatore che portava alla vittoria la propria squadra, il trascinatore, l’uomo della provvidenza che segnava il tiro decisivo all’ultimo secondo. E questo lo si sa per esperienza personale. Anche se può essere un modo antipatico, si comprende la voglia di vincere sempre, in qualsiasi ambito; si comprende questa fame di ottenere risultati, di raggiungere l’obiettivo prefissato, anche se gli altri non lo comprenderanno, anche se gli altri accuseranno che è impossibile stare vicino perché sembra sempre di essere in guerra. A un certo punto occorre fare delle scelte, capire fin dove si può e si vuole arrivare, capire che cosa si può sopportare e che cosa si può diventare: Michael Jordan ha scelto di essere il più grande e questo ha comportato un prezzo da pagare. In quanti avrebbero fatto la sua scelta, avrebbero saputo accettare le conseguenze da essa derivate? Per arrivare al successo spesso si deve sacrificare parte della propria umanità, o per lo meno metterla da parte, dimenticarsene per un periodo che può essere più o meno lungo.
In questo documentario quindi non viene mostrato solo il lato luminoso del grande campione, ma anche le ombre di un uomo che si è trovato a un certo punto a sostenere qualcosa di più grande di lui, che ha messo in piazza le sue debolezze, i suoi vizi, perché questo è il prezzo richiesto dalla notorietà. The last dance risulta perciò un prodotto coinvolgente e convincente, ma non oggettivo, dato che più che altro mostra il punto di vista di Jordan e tutto ruota attorno a lui, anche gli interventi delle altre persone, al punto da essere troppo Jordancentrico: MJ è stato sicuramente uno tra i più grandi campioni di questo sport, e la sua impronta ha condizionato e ha insegnato molto a quelli che sono venuti dopo di lui, ma un campione, per quanto grande, non può fare tutto da solo. Certo, i grandi giocatori possono fare vincere delle partite da soli, ma senza dei compagni all’altezza non si possono vincere i campionati: per questo serve una squadra, un collettivo capace di fare un gioco vincente.
The last dance ha il merito di far conoscere come un simile personaggio abbia condizionato un certo periodo storico e certi comportamenti, sia dentro il campo sia fuori dal campo (chi ha giocato a basket in quel periodo sa di cosa si sta parlando) e perciò merita di essere visto.

A quiet place

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A quiet placeA quiet place è uno dei pochi film horror visti negli ultimi anni che mi ha convinto. Ormai rimanere sorpresi è qualcosa di difficile, quindi quello che è preso in considerazione è come viene sviluppata la vicenda. In un futuro prossimo (anzi, si può dire che la storia è ambientata al giorno d’oggi) le cittadine sono praticamente deserte, avvolte dal silenzio; tutto è abbandonato, ma si vede che è successo qualcosa; in un piccolo paese americano, una famiglia composta da genitori e tre figli, raggiunge un piccolo market per fare rifornimenti. Non fanno nessun rumore, camminano scalzi su un piccolo sentiero che hanno creato con la sabbia, non parlano, comunicando con la lingua dei segni che conoscono perché la figlia più grande, Regan, è sorda. Mentre sono nel negozio, il più piccolo dei bambini, Beau, vuole prendere un giocattolo, di quelli che vanno a batteria ed emettono suoni, ma il padre glielo toglie, sfilando via la batteria, spiegandogli che non possono prenderlo perché pericoloso. Beau è deluso e Regan, per rallegrarlo, gli ridà il giocattolo privo di batterie; il piccolo però, senza che nessuno se ne accorga, le prende. Sulla via del ritorno il bambino rimetterà le batterie nel giocattolo, attivandolo. Sul volto del padre, Lee, si dipinge l’orrore e corre per strappare il gioco al figlio, accorgendosi che dalla boscaglia sta giungendo qualcosa; poco prima che riesca a raggiungere il piccolo, Beau viene travolto e portato via. Questo fatto segnerà il rapporto tra Regan e Lee, dato che la figlia pensa che il padre la consideri responsabile della morte del fratello più piccolo.
Passa un anno e la famiglia continua a vivere facendo sempre attenzione a non fare nessun rumore, perché sanno d’essere tenuti sotto osservazione dalle cose che hanno ucciso Beau e anche gli altri abitanti della cittadina. Lee insegna a Marcus, il figlio di mezzo e ora il minore, come fare a sopravvivere nella foresta, facendogli capire che il rumore dell’acqua (fiumi, cascate) copre quegli altri e quindi li protegge. Regan assiste Evelyn, la madre, che è incinta e ormai prossima al parto, il che rende la loro situazione molto pericolosa; naturalmente le cose prendono una brutta piega e anche se il bimbo viene al mondo e messo al sicuro nella cantina insonorizzata, la situazione a un certo punto volge al peggio: per salvare la famiglia, uno dei membri si sacrificherà, ma questo non basterà a metterla al sicuro, visto che le cose presenti nella zona, ormai sicure della loro presenza, attaccano la fattoria. Quando però non sembra essercu più speranza, Regan riesce a capire che il punto di forza delle cose è anche la loro maggiore debolezza, permettendo così di affrontarle.
A quiet place è un film che mantiene sempre alta l’attenzione, tenendo vigile lo spettatore perché fa capire che ogni più piccolo errore può far precipitare la situazione: la famiglia deve essere sempre vigile e aver paura anche dei gesti più banali e quotidiani che aveva fatto per tanto tempo. Il film funziona perché per lunghi tratti non mostra qual è la minaccia, non fa vedere il mostro, un po’ come succede con Lo squalo; allo spettatore non sono date spiegazioni, viene messo davanti ai fatti compiuti, senza sapere da dove vengono le cose che hanno decimato la popolazione umana. Logicamente questa scelta può funzionare solo la prima volta, perché una volta rivelato con cosa si ha a che fare la tensione si allenta, avendo la risoluzione del climax (infatti il secondo film di A quiet place non ha la stessa potenza). Per chi vuole un film horror fatto bene, con questa pellicola si va sul sicuro.

Weathering with you - Il film

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Weathering with youDel romanzo di Weathering with you avevo già scritto in un precedente articolo e la trama, com’è logico che sia, non varia: Hodaka, un ragazzo di sedici anni, scappa di casa e va a Tokyo, dove viene aiutato Keisuke Suga, che gli offre un posto dove dormire e un lavoro per avere un piccolo compenso e potersi mantenere. Si metterà però anche nei guai aiutando una ragazza, Hina, che gli aveva offerto un panino non appena arrivato nella grande città, usando una pistola trovata nella spazzatura; frequentandola, Hodaka scoprirà che lei, pregando, è capace di far venire il bel tempo e assieme metteranno su una piccola impresa che frutta abbastanza bene, visto che a Tokyo non fa che piovere sempre e la gente, in determinate occasioni, desidera avere il sereno. Le richieste sono così tante che decidono però di chiudere l’attività, ma c’è un’ombra che incombe su Hina: Hodaka, lavorando per Keisuke Suga, che collabora con riviste che trattano argomenti un po’ particolari, viene a sapere che Hina potrebbe essere una donna del sole, una specie di sacerdotessa che in passato era diffusa nei villaggi, e che a causa del suo potere non va incontro a un bel destino.
Infatti, dopo che lui, Hina e il fratellino della ragazza sono scappati dalla polizia che lo sta ricercando, sia per l’uso della pistola, sia perché i genitori hanno denunciato la sua scomparsa, la ragazza comincia a divenire trasparente, fino a quando non scompare del tutto. Dopo essere stato arrestato ed essere fuggito dalla polizia, Hodaka, aiutato da Keisuge e da sua nipote, raggiunge il tempio sopra un edificio abbandonato dove la ragazza aveva ricevuto i poteri e lì arriva nel luogo dove Hina è finita, aiutandola a tornare indietro.
Dopo un certo periodo in cui vivono separati (il tempo di prendere il diploma), i due potranno di nuovo tornare a vedersi.
Il film di Weathering with you, rispetto al romanzo, offre meno punti di vista, limitandosi a quello di Hodaka e Hina, ma rimane comunque comprensibile e godibile. Ciò che lo rende interessante è il ribaltare il modo di pensare tipico giapponese, ovvero il sacrificio del singolo per il bene della comunità: Hodaka si troverà a scegliere se lasciare che Hina se ne vada seguendo il suo destino di donna del sole, permettendo così al bel tempo di tornare su Tokyo, oppure se salvarla e fare sì che il maltempo continui, lasciando che il mare si riprenda quello che era suo un tempo e sommergendo parte della città. Makoto Shinkai farà sì che ci sia l’happy ending per i suoi protagonisti, a differenza di altre sue opere, molto belle, ma anche molto malinconiche.
Graficamente spettacolare, Weathering with you è una godibile visione, ben diretta e caratterizzata.

Arcanum Unbounded

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Arcanum UnboundedArcanum Unbounded è una raccolta di racconti scritti da Brandon Sanderson e ambientati nel Cosmoverso, l’universo dove sono ambientati la maggior parte dei suoi romanzi. Anche se le storie sono a sé stanti e si svolgono su mondi diversi, si può intuire come esse fanno parte di un qualcosa di più grande e hanno un legame. Molto interessante di questa antologia la descrizione dei sistemi in cui si svolgono le varie vicende; come è interessante (e si può dire anche affascinante) la postfazione dopo ogni racconto che mostra come è nato, da che idea ha l’autore ha preso spunto: una scelta che personalmente ho apprezzato molto.
In totale i brani della raccolta sono nove e di alcuni di essi avevo già parlato in precedenza: L’anima dell’imperatore, L’undicesimo metallo, L’allomante Jack e le fosse di Eltania, Ombre per Silence nelle foreste dell’Inferno, Sesto del Vespro. Dopo averli riletti, le impressioni avute la prima volta sono state confermate quasi per tutti (L’alloamnte Jack continua a essere il brano che meno è stato apprezzato), tranne che per L’anima dell’Imperatore, che devo dire mi ha preso molto di più in questa occasione, a dimostrazione che alle volte il giudizio è condizionato dal momento in cui si legge un determinato testo.
Rimane allora da parlare di La speranza di Elantris, Mistborn: storia segreta, Sabbia bianca ed Edgedancer.
Il primo racconto è legato strettamente al primo lavoro pubblicato da Sanderson, Elantris, e per poterlo comprendere è necessario aver letto prima il romanzo. Il testo è un arricchimento della storia principale e cronologicamente è collocato nei momenti finali della vicenda. La speranza di Elantris è carino, anche se non mi ha preso particolarmente, forse perché anche il romanzo non mi aveva colpito come altri lavori dell’autore.
Cosa differente invece per Mistborn: storia segreta, dato che come protagonista si ha Kelsier, uno dei personaggi creati da Sanderson che personalmente ho più apprezzato. Il racconto parte dallo scontro tra il protagonista e il Lord Tiranno narrato nel primo romanzo di Mistborn, L’Ultimo Impero (per chi non avesse letto la saga e non voglia avere SPOILER, si fermi qui): Kelsier brucia l’undicesimo metallo convinto che possa essergli d’aiuto nello scontro, ma le cose non andranno così e lui perderà la vita. Da questo punto in poi il racconto seguirà tutte le sue avventure nel cosidetto aldilà fino ad arrivare alla conclusione della trilogia. Oltre che bello, il racconto serve per comprendere meglio eventi che si sono svolti durante tutti i primi tre romanzi della serie Mistborn (fine SPOILER).
Sabbia bianca porta lo stesso nome dell’omonima graphic novel, com’è logico che sia,dato che descrive una scena presente in essa. Senza la conoscenza della graphic novel il brano in sé non riesce a esprimere tutto il potenziale insito in questo storia.
E infine si giunge a Edgedancer, il racconto più atteso, legato a Scadrial, il mondo delle Cronache della Folgoluce, cronologicamente collocato tra Parole di Luce e Giuramento. Protagonista delle vicende è Lift, una Danzafilo, uno degli ordini dei Radiosi. Fuggita dal luogo dove era diventata una figura importante, perché sentiva che troppi avevano aspettative su di lei, si mette sulle tracce di Buio per impedire che continui la sua opera di eliminare coloro che stanno per diventare Radiosi e fermare così, secondo lui, l’arrivo di una desolazione. Con il suo carattere spensierato e in apparenza alla Peter Pan (che però nasconde una profondità non da poco), Lift si ritroverà  in un mare di guai, oltre che di avventure.
A costo di ripetersi come succede con Sanderson, ancora una volta l’autore statunitense non delude: Arcanum Unbounded è una lettura davvero piacevole e interessante per i vari mondi che propone.