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Archetipi - Il Guerriero

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Un mio libro è sempre opera del destino. Quando si scrive si va incontro a qualcosa d’imprevedibile (1). Le parole di Carl Gustav Jung sono perfettamente comprensibili per chi si è cimentato nella stesura di un libro: c’è un’idea da cui nasce tutto e poi dopo ci si costruisce attorno un progetto che cresce man mano che si avanza, spesso andando dove si vuole che vada, ma anche alle volte conducendo verso punti che all’inizio non sarebbero stati presi in considerazione.
Carl Gustav JungQuesto vale sia per la saggistica, sia per i romanzi, per questi ultimi ancora più con forza, dato che si ha una maggiore libertà nel creare una storia.
Ma che cosa spinge a scrivere una storia?
I motivi possono essere tanti, uno per ogni individuo esistito, ma l’uomo ha sempre sentito il bisogno di raccontare esperienze vissute, fatti cui ha assistito, pensieri che ha realizzato: un modo per condividere con i suoi simili, per sentirsi parte di qualcosa, per trasmettere conoscenza e consapevolezza. Così abbiamo avuto dipinte scene di caccia sulle pareti per raccontare le imprese di gruppi di cacciatori; papiri, libri che narravano imprese di re e regine, ma anche storie di dei ed eroi, che per i popoli passati era un cercare di spiegare quello che vedevano, ma di cui non capivano il significato o l’origine, come accaduto nell’incontro tra Thor e Utgardaloki, il re del Recinto Esterno, dove attraverso il racconto venivano mostrati la natura del pensiero, delle maree e della vecchiaia.
Di racconti del genere, l’umanità è ricca e se si osserva, si può notare che ricorrono sempre le stesse figure, anche se appaiono con sembianze e nomi diversi: sono simboli che l’uomo utilizza per imparare a conoscere se stesso, parti di sé che proietta all’esterno per poterle osservare e comprendere. Si tratta degli Archetipi, stadi dell’inconscio umano che ogni individuo incontra nella propria vita e che gli sono da specchi e compagni nel percorso personale di crescita.
Uno dei più famosi e immediati che viene in mente è il Guerriero, spesso associato all’uomo in armatura, dotato di scudo e spada, come i famosi spartani (considerati i migliori combattenti dell’antica Grecia), gli uomini dei Medioevo che andavano in battaglia equipaggiati di tutto punto, ma anche i Samurai.
Gatsu, il Guerriero Nero del manga Berserk di Kentaro MiuraCon il passare delle epoche è stato normale che tale figura cambiasse sembianze, ma lo spirito è sempre rimasto lo stesso, comparendo in varie forme in ogni forma di storia: fumetti, film, libri.
Così abbiamo Kenshiro di Tetsuo Hara e Buronson (un connubio tra Mad Max di Interceptor, che oltre al personaggio prende ispirazione anche per l’ambientazione, e Bruce Lee), maestro della Scuola di Okuto (semplificando, una sorta di arti marziali), e Gatsu di Kentaro Miura, mercenario nel mondo inventato delle Midlands che ricordano Medioevo e Rinascimeto, per fare un esempio prendendo spunto fra due tra i manga più famosi. Visto che è stato citato come fonte d’ispirazione, non si può non parlare di Mad Max, che grazie alla sua trilogia cinematografica ha fatto conoscere e lanciare Mel Gibson nel mondo dello spettacolo: nessuna tecnica di combattimento speciale o armi magiche e mostri, ma pura e semplice sopravvivenza con ogni mezzo in un mondo impazzito.
Artù nel film Excalibur del 1981Per quanto riguarda la letteratura, un ottimo esempio è il personaggio di Arthur Pendragon mostrato nella trilogia di Fionavar di Guy Gavriel Kay, conosciuto proprio come il Guerriero: è vero che Arthur incarna anche altri simboli (il Re, l’Eroe, il Cavaliere, anche se questo simbolo è rappresentato con molta più forza da Lancelot, altro personaggio attinto dai ciclo arturiani da Kay), ma in questa veste rappresenta in maniera molto chiara e forte l’archetipo che lo caratterizza.
Questi sono solo tre esempi di come può essere il Guerriero. Tre esempi uguali, ma allo stesso tempo con delle sfumature che li fanno essere differenti; una ripetizione si può pensare, ma una ripetizione importante e utile, perché usando la ripetizione, presentando lo stesso soggetto a varie riprese, ogni volta da un angolo visuale leggermente diverso dal precedente, fino a che il lettore, che non si è mai trovato di fronte a nessuna singola prova conclusiva, si accorge improvvisamente di avere abbracciato e accolto dentro di sé una verità più ampia. (2)
E’ questo che fanno gli archetipi nelle loro diverse manifestazioni: dare una maggiore consapevolezza di sé all’uomo per farlo crescere.
Ma esattamente, che cosa rappresenta il Guerriero?
Il coraggio, la risolutezza di raggiungere i propri obiettivi (quindi la conquista), la forza e i mezzi di difendere ciò che ha valore, la preparazione, la disciplina. E’ colui che combatte per le proprie idee e lo fa a tutti i costi, anche se questo può portare a sacrifici, perdite economiche e materiali, isolamento. Il Guerriero è una figura che bada al sodo, è pratica, razionale, concentra la sua attenzione e le sue energie nella realizzazione della sua ragion d’etre, eliminando ciò che ritiene superfluo; è uno stratega. Appare saldo, solido, ma anche duro e tagliente, con poco spazio per la tenerezza. Questo non significa che sia privo di sensibilità, gentilezza, ma i suoi modi senza fronzoli e abbellimenti che rimangono sempre legati al concreto non fanno scorgere i gesti di attenzione che rivolge agli altri. Spiccio e diretto, non ha tempo per perdersi in lunghi discorsi atti a comprendere gli altri ed essere di supporto come può fare il Saggio.
Il vero Guerriero combatte solo per quanto conta realmente, non combatte per il piacere di combattere; se questo avviene, se lotta per il piacere di distruggere, per dimostrare la sua forza e la sua superiorità, significa che si sta allontanando dal suo essere.
Anche lui, come tutti, possiede delle paure e quella che più lo spaventa è di essere sconfitto, di fallire, di non avere forza sufficiente per affrontare le sfide e i nemici e così non essere in grado di proteggere chi gli è caro, i suoi ideali.
Se riesce a superare le sue paure, le proprie zone d’ombra, se riesce davvero a essere se stesso, il Guerriero è una forza che lotta per il bene comune e non c’è nemico che lo possa piegare, ma combatterà fino all’ultima goccia di sangue, con tutte le sue forze.
Per chi fosse interessato ad approfondire la conoscenza di questo archetipo, in rete si possono trovare pezzi interessanti come L’archetipo del guerriero/eroe.

Come si evince da questo articolo (ma non solo, avendone già parlato altre volte sul sito), Guerriero (e di conseguenza il suo Archetipo) è il protagonista delle vicende di L’Ultimo Potere. Perché la scelta è ricaduta su un personaggio con tale caratteristiche?
Perché in un periodo come quello che stiamo vivendo, dove si lascia andare, dove si sacrifica tutto per i soldi e ci si adegua a un sistema che si sa che è sbagliato, ma dove non si fa nulla per cambiarlo (un po’ per pigrizia, un po’ perché fa comodo ai propri interessi, un po’ perché non si hanno più valori e un po’ perché non si hanno i mezzi e la volontà per vedere quello che non va), occorre avere l’esempio di una figura che lotta per qualcosa che va oltre la materialità, che cerca di migliorare la propria vita, uscendo da un’esistenza che non ha nulla da dare, che è solo capace di togliere e privare di tutto chiunque. Nel contesto attuale c’è bisogno di qualcuno che sia diverso, che si dia da fare, che combatta consapevole che ci saranno sì difficoltà nelle sue battaglie, ma che alla fine ne sarà valsa la pena, perché si otterrà molto, mentre invece c’è tutto da rimetterci a conformarsi o a lasciar fare a un sistema che ha mostrato tutti i suoi limiti e che ha solo da far perdere: la libertà in primis, ma soprattutto far perdere se stessi. I più sono convinti che la modernità abbia portato benefici, miglioramenti nella vita di ognuno; questo può essere in parte vero. Non voglio certo negare che siano risultati grandi vantaggi dall’evoluzione della società civilizzata, ma tali vantaggi sono stati ottenuti al prezzo di perdite enormi della cui entità abbiamo appena cominciato a renderci conto. (3) Ed è quello che viene fatto vedere in L’ultimo Potere: un modo per mostrare sì le caratteristiche dell’archetipo in questione, ma che da sole però non bastano a far comprendere e vivere tale simbolo. Perché essi sono contemporaneamente sia immagini che emozioni. Si può parlare di archetipi solo quando questi due aspetti si manifestino simultaneamente. Quando c’è solo l’immagine si tratta di una notazione di scarso rilievo, ma quando è implicata l’emozione, l’immagine acquista un carattere numinoso (o energia psichica)…Poiché tante persone hanno intrapreso a trattare gli archetipi come semplici parti di un meccanismo che può essere appreso a memoria, è necessario insistere che essi non sono né nome puri e semplici, né concetti filosofici. Essi appartengono alla vita stessa, sono immagini integralmente connesse con l’individuo vivente per il tramite di emozioni…Gli archetipi cominciano a vivere solo quando si cerca pazientemente di scoprire perché e in quali guise essi sono significativi per un determinato individuo vivente. (4)

1- Ricordi, sogni, riflessioni. Carl Gustav Jung, pag.6. Bur 2008
2- L’uomo e i suoi simboli. Carl Gustav Jung, pag. X. Tea 2010
3- L’uomo e i suoi simboli. Carl Gustav Jung, pag. 32. Tea 2010
4- L’uomo e i suoi simboli. Carl Gustav Jung, pag. 79. Tea 2010

Archetipi -Simboli

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SimboliNel post precedente, attraverso il brano tratto dal libro di Carl Gustav Jung, L’uomo e i suoi simboli, si è visto che cosa sono gli Archetipi: dei simboli. Che non sono la stessa cosa dei segni, dato che questi ultimi non hanno un significato particolare, ma sono utilizzati nell’uso comune per comodità per indicare o segnalare determinate cose (a esempio, cartelli stradali.)
Un archetipo è un qualcosa di universale, arcaico, che sta alla base di tutto, il mezzo per comprendere la vera natura delle cose, la forma preesistente e primitiva di un pensiero per indicare le idee innate e predeterminate dell’inconscio umano. Una parola o un’immagine è perciò simbolica quando implica qualcosa che sta al di là del suo significato ovvio e immediato; essa possiede un aspetto più ampio (come a esempio la ruota e la croce), inconscio, che non è mai definito con precisione o compiutamente spiegato. (1) I simboli possono essere collettivi, riconosciuti da tutti (il Mago, Il Guerriero), ma possono anche essere diversi per ciascuno, dato che ogni singolo individuo crea i propri, con i suoi significati, i suoi valori, in base alle proprie esperienze, alla propria educazione; cosa che spesso avviene inconsciamente.
L’interpretazione dei sogni e dei simboli richiede intelligenza; essa non può essere ridotta a un sistema meccanico con cui imbottire cervelli privi di immaginazione. Essa richiede contemporaneamente una sempre più approfondita conoscenza dell’individualità del sognante e un corrispondente affinamento della personale consapevolezza dell’interprete…Quando tentiamo di interpretare i simboli ci troviamo di fronte non solo il simbolo in sé, ma l’intera totalità dell’individuo produttore del simbolo. Ciò implica lo studio della sua formazione culturale…Le risposte usuali possono rivelarsi pratiche e utili finché si studia la superficie, ma quando si affrontano i problemi di fondo è la vita stessa a imporsi in primo piano e…l’immaginazione e l’intuizione sono di importanza vitale per la nostra comprensione.(2)
Quello che l’uomo moderno ha dimenticato, reputandolo di nessuna importanza, è che tutto può essere simbolo, capace d’insegnare a crescere, a evolvere; ogni immagine che vede può essere rappresentazione di elementi che lo caratterizzano, negativi e positivi. Ma di questi tempi, crescita ed evoluzione paiono fattori inutili, come si fosse raggiunto il punto più alto, mentre invece si è finiti piantati in una palude.

1- L’uomo e i suoi simboli. Carl Gustav Jung, 5. Tea 2010
2- L’uomo e i suoi simboli. Carl Gustav Jung, 73. Tea 2010

Belle & Sebastien

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Belle e Sébastien nel filmBelle & Sebastien (2013) è un film che nasce dalla serie televisiva creata dalla scrittrice/attrice Cécile Aubry negli anni ’60, ma anche dalla serie animata degli anni ’80 che ha fatto conoscere i due protagonisti in tutto il mondo. Sul telefilm non posso esprimermi, dato che ho trovato solo qualche scena postata su Youtube, pertanto il confronto avverrà con l’anime.
La premessa doverosa è che non era possibile, e nemmeno auspicabile, riproporre la sceneggiatura del cartone giapponese: in nemmeno due ore non era possibile mettere in scena quanto visto in 52 puntate. La scelta fatta dal regista Nicolas Vanier di non far partire Sebastien alla ricerca della madre attraverso la Francia e la Spagna è stata giusta, altrimenti sarebbe stato realizzato qualcosa di tirato via, concentrando invece l’azione nei luoghi dove è nato e cresciuto Sebastien: il paesino, i pascoli e le montagne. Il tutto ambientato durante la Seconda Guerra Mondiale, con la presenza dei nazisti che controllano i valichi e il villaggio per impedire la fuga di ebrei in Svizzera.
Belle e Sébastien nell'animeQuesta è la differenza più evidente che subito salta all’occhio, ma ce ne sono tante altre. Pucci (il piccolo cane che aveva Sebastien) non è presente. Cesar, il pastore che ha fatto da nonno a Sebastien, non incarna il vecchio saggio e comprensivo come nel cartone, ma è una persona un po’ burbera con il vizio del bere. La madre di Sebastien è sempre gitana, con il bambino che aspetta il suo ritorno e non la va a cercare; la differenza non sta solo in questo, ma starà allo spettatore scoprirlo vedendo il film. C’è Angelina (nipote di Cesar, che fa da mamma a Sebastien) e c’è Guillaume (il dottore del paese), ma il loro rapporto non è quello di due fidanzati che poi si sposeranno.
I pregiudizi verso Belle sono rimasti, ma messi sotto una luce diversa. Se nell’anime la caccia all’animale era nata dall’isteria della gente (emblematica la scena di una madre che comincia a strillare che Belle gli voleva mangiare il bambino solo perché si era avvicinato alla culla) per il semplice fatto che fosse grande, grosso e bianco (etichettato per questo il Diavolo Bianco), nel film trova una spiegazione più credibile (anche se c’è da dire che i pregiudizi e la superstizione mostrati nella serie giapponese non erano poi tanto campati in aria visto come si comporta alle volte la gente): gli abitanti del luogo, a seguito di alcune pecore uccise, trovano le tracce del cane (ben diverse da quelle del lupo) e lo ritengono responsabile dell’accaduto e pertanto da eliminare perché un pericolo, non solo per le bestie, ma anche per loro, dato che il cane si era incattivito per le botte che il proprietario sempre gli dava, al punto da farlo scappare.
Interessante il punto di vista che uno degli abitanti dà a Sebastien sul cane: nessuno nasce cattivo, uomo o bestia, ma lo diventa in base alle esperienze che fa nella vita, a quanto gli succede. Interessante, ma anche duro, dato che si ritiene che non ci sia speranza di cambiamento per chi ha intrapreso una certa strada; un modo di pensare che è tipico di chi possiede una mentalità adulta e non quella aperta e fiduciosa di un bambino.
Ed è grazie a questa che Sebastien riesce a guadagnare la fiducia di Belle e divenire suo amico. Il film è proprio questo: una bella storia di amicizia tra uomo e cane, il tutto immerso nella natura. Non pochi sono i messaggi di come l’uomo la dovrebbe rispettare, non ritenendosi padrone di tutto e fare come pare a lui.
Bellissima la fotografia, intelligente la storia senza divenire pesante o banale (come non banali sono i messaggi dati a riguardo del rispetto della natura, della solidarietà verso i perseguitati, del fare la propria parte contro le ingiustizie), capace di dare qualche sorpresa (la persona che informa Guillaume sugli spostamenti delle ronde dei nazisti per far fuggire gli ebrei non è quella che ci si può aspettare) e di non giocare sui soliti luoghi comuni (il vecchio saggio, i nazisti tutti carogne spietate).
Non è esente tuttavia da pecche. Belle colpita da una pallottola a una gamba se ne sta docile mentre viene medicata venendole versata dell’alcool sulla ferita, mentre si sa che avere a che fare con un animale ferito, per quanto addomesticato e tranquillo, non è cosa così semplice. Come è poco verosimile che un branco di lupi affamati venga messo in fuga dal semplice abbaiare del cane: nell’anime più volte Belle si è scontrata e azzuffata coi lupi per difendere Sebastien; forse il regista ha voluto evitare una scena ritenuta violenta. Altrettanto poco verosimile come Belle capisca che le tagliole sono pericolose perché glielo spiega il bambino.
Un film ben realizzato, senza essere un capolavoro, capace di lasciare qualcosa di buono, ma anche di far riflettere, soprattutto sul rapporto che l’uomo deve avere con la natura e i suoi animali. Un rapporto che per essere tale deve rispettare la libertà e l’identità dell’altro, dove non si può proiettare su un animale aspetti e un sentire che sono tipicamente umani, come spesso invece si vede fare nella società attuale. Soprattutto occorre saper distinguere la finzione dalla realtà: avere a che fare con un cane, specie di grosse dimensioni, non è cosa immediata come si vede nel film. Va bene che esistono cani intelligenti e sensibili e che alle volte è superiore a quella degli umani (ma qui c’è da riflettere su quanto è caduto in basso l’essere umano), ma ogni cane ha le sue caratteristiche e vanno conosciute e comprese, soprattutto vanno rispettate le sue esigenze e non piegarle ai propri egoismi. Soprattutto non occorre farsi prendere dall’euforia nata dal vedere un film e da eventuali facili entusiasmi che portano più che altro problemi a causa di un’ignoranza di fondo. Interessante al proposito la lettura di questo articolo: vivere con un animale è una bella esperienza, ma è anche una responsabilità che non va mai dimenticata.

Archetipi – L’uomo e i suoi simboli

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L'uomo e i suoi simboli di Carl Gustav JungSi sente spesso parlare di Archetipi, ritenendoli simboli che rappresentano lati dell’animo umano, modi per conoscere se stessi. Ma esattamente cosa sono?
La spiegazione migliore viene data da Carl Gustav Jung nel libro L’uomo e i suoi simboli:
La mia teoria sui « resti arcaici », da me definiti « archetipi » o « immagini primordiali », è stata sempre criticata da coloro che non hanno una conoscenza appropriata dei sogni e della mitologia. Il termine « archetipo » è spesso frainteso in quanto viene identificato con certe immagini definite o precisi motivi mitologici. Questi, in realtà, non sono altro che rappresentazioni consce; sarebbe assurdo pensare che tali rappresentazioni variabili fossero ereditarie.
L’archetipo è invece la tendenza a formare singole rappresentazioni di uno stesso motivo che, pur nelle loro variazioni individuali anche sensibili, continuano a derivare dal medesimo modello fondamentale. Esistono, per esempio, molte rappresentazioni del motivo dei fratelli nemici, ma il motivo rimane sempre lo stesso. I miei critici hanno sempre erroneamente sostenuto che io presupponga l’esistenza di « rappresentazioni ereditarie » e su questa base hanno liquidato l’idea di archetipo come mera superstizione. Essi non hanno preso in considerazione il fatto che se gli archetipi fossero veramente rappresentazioni create (o acquisite) dalla nostra coscienza, noi dovremmo essere sicuramente in grado di comprenderle senza trovarci stupefatti e perplessi quando essi si presentano alla coscienza. Essi, in realtà, sono tendenze istintive altrettanto marcate quanto lo è l’impulso degli uccelli a costruire il nido, o quello delle formiche a dar vita a colonie organizzate.
A questo punto è necessario chiarire la relazione fra istinti e archetipi. Quelli che noi chiamiamo propriamente istinti, sono costituiti da stimoli fisiologici e risultano percepibili dai sensi. Essi però si manifestano contemporaneamente anche in veste di fantasie e spesso rivelano la loro presenza solo per mezzo di immagini simboliche. Queste manifestazioni sono ciò che io chiamo archetipi. La loro origine è ignota e si riproducono in ogni tempo e in qualunque parte del mondo, anche laddove bisogna escludere qualsiasi fattore di trasmissione ereditaria diretta o per « incrocio ».
(1)

1- L’uomo e i suoi simboli. Carl Gustav Jung, pag. 52. Tea 2010

Daini

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Daini

Creare precedenti

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martello della giustiziaè sempre pericoloso, perché genera esempi da seguire.
Una lezione che in Italia non si è appresa. O non si vuole apprendere. Perché a un certo punto non si può sempre ricadere sulla buona fede: fare così significa non voler vedere le cose, rendersi volontariamente ciechi. O semplicemente cercare di far credere alle persone le cose in modo diverso da quello che non sono.
Come tutti ormai sapranno, dato che tutti i mezzi d’informazione ne hanno parlato, Berlusconi è stato assolto in secondo grado per le accuse inerenti il processo Ruby. Come si legge in questo articolo “Assolto “perché il fatto non sussiste” dalla concussione e “perché il fatto non costituisce reato” dalla prostituzione minorile. La seconda Corte d’Appello di Milano ha ribaltato, a sorpresa, la sentenza con cui il Tribunale, poco più di un anno fa, aveva condannato Silvio Berlusconi a sette anni di carcere per il caso Ruby.”
C’è ancora la Cassazione, ma quanto successo è qualcosa di grave. Il fatto che l’indagato avesse avuto ruoli di governo e un forte patrimonio economico (alla luce del suo modo di fare atto a comprare gli altri per avere appoggio) non fa pensare a una coincidenza.
E’ un brutto messaggio quello che viene lanciato con questa sentenza, perché fa passare che anche se si commettono reati se ne può uscire indenni, senza subire nessuna condanna. La giustizia ormai in Italia viene vista come qualcosa che non tutela, dove tutto è permesso e si lascia correre come se niente fosse successo. Si rifletta sul fatto perché ci sono tanti casi (e tanti non sono stati ancora portati alla luce) di corruzione, di truffe, ma anche un’esplosione di violenza dove si uccidono ex, mariti, mogli, figli con la stessa facilità con cui si uccidono le mosche. La gente è ormai entrata nell’ottica d’idee che qualsiasi crimine commetterà, se la caverà con poco o niente.
A questo punto, non ci si scandalizzi o meravigli di quello che accade ogni giorno avendo davanti precedenti simili, perché si è fatto in modo di costruire un sistema del genere.

Alzheimer - Un'infinita tristezza.

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Lino, protagonista malato di Alzheimer in Una sconfinata giovinezzaL’Alzheimer è una delle peggiori malattie perché porta via tutto a una persona: la dignità, la memoria, gli affetti. Soprattutto, non fa sapere nemmeno più sapere chi si è, lasciando completamente indifesi e alla mercé di chiunque, facendosi sfruttare perché ci si fida di chiunque, bastando un sorriso o una parola gentile per affidarsi al primo che passa.
Già era stato preso a esempio, ma perfetto nel mostrare questa realtà è il film Una sconfinata giovinezza di Pupi Avati, ma non solo questo: riesce perfettamente a mostrare il regredire delle persone, il loro perdere contatto con la realtà, vivendo in un mondo tutto loro. Un mondo che non esiste e non può esistere più, perché è il passato che loro hanno vissuto, ma che è assolutamente inconciliabile con il presente, che si scontra con esso. Ed è proprio questo scontro che rende spaesati, impauriti le persone colpite di Alzheimer, proprio come dei bambini che scoprono il mondo. Bambini in corpi di adulti che rivivono il proprio passato in quella che può sembrare, come dice il titolo del film, una sconfinata giovinezza, ma che è invece una profonda e infinita tristezza; perché non si può fare assolutamente nulla per loro.
Non esistono medicine che li possono guarire o far stare meglio.
Non ci sono parole che li possono consolare o far comprendere quello che stanno vivendo, chiusi come sono nel loro guscio che si fa sempre più piccolo.
Si può solo stare a guardare, consapevoli che tutti gli sforzi cadranno nel vuoto, che si è impotenti di fronte a qualcosa di più grande delle proprie capacità, vivendo una tristezza senza fine perché in tutto ciò non c’è speranza. Ed è emblematica di ciò una delle ultime scene del film dove Lino, il protagonista del film, parte per un sentiero in mezzo a un campo alla ricerca del suo cane.

Novità sul mondo di Shannara di Terry Brooks

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In un precedente post avevo parlato di un nuovo volume dedicato alla lunga saga di Shannara. Ora, dopo anni di voci in cui se ne parlava, l’attesa pare essere finita: la serie più famosa di Terry Brooks andrà sullo schermo e sarà MTV a realizzarla, adattando il secondo volume del primo ciclo, Le Pietre Magiche di Shannara, come più volte era stato preventivato. La scelta è mirata, perché punta sul miglior lavoro di Brooks (anche se La Spada di Shannara è il primo romanzo della serie grazie al quale lo scrittore è stato conosciuto, non è stata certo l’opera più riuscita, ricordando molto Il Signore degli Anelli di J.R.R.Tolkien); con un soggetto di base così solido e ben strutturato, si dovrebbe andare sul sicuro nella realizzazione di un buon prodotto.
Purtroppo, da quello che si sta leggendo in rete, pare che non sarà così. E non perché MTV non è l’HBO, ma perché si sta liberamente adattando la storia. Chi ha letto la saga di Shannara, sa che le Quattro Terre sono il frutto delle Grandi Guerre, dove non c’è tecnologia (o suoi residui) e si ha a che fare con un mondo con connotazioni che ricordano molto il Medio Evo. Le poche notizie che circolano sulla serie televisiva parlano che si narrerà la storia di una famiglia in un mondo post apocalittico: detto così, significa tutto e niente, ma qualche sospetto può nascere sulla direzione che può essere presa.
Soprattutto quando si legge che si avrà una forte protagonista femminile dotata di poteri magici. Se il soggetto si fosse basato su La Canzone di Shannara, nulla da dire: una dei protagonisti, Brin Ohmsford, ha un grande potere magico innato (eredità lasciata dall’uso delle Pietre Magiche nel padre Wil durante la lotta contro i Demoni in Le Pietre Magiche di Shannara), così grande da superare quello di Allanon, l’unico potere capace di distruggere una volte per tutte l’Ildatch, la fonte del male che ha generato il Signore degli Inganni e le Mortombre. Ma nelle Pietre non c’è nessuna protagonista dotata di poteri magici, nessuna appartenente alla famiglia degli Ohmsford (e quindi legata al sangue dei Shannara). Le due figure femminili protagoniste presenti, Eretria (una nomade) e Amberle (una degli Eletti), non hanno nulla di magico.
Si dovranno attendere ulteriori informazioni sulla serie, ma i rumors attuali non fanno sperare per il meglio. E si ha il timore che si verifichi quanto accaduto a La Spada della Verità, che a parte il nome aveva poco o nulla a che spartire con i libri. Per chi vuole conoscere davvero il mondo di Shannara e non l’ha ancora fatto, c’è la lettura dei libri: non ci si faccia prendere da una certa pigrizia, aspettando il prodotto televisivo perché più immediato e meno impegnativo in fatto di tempo da spendere.

Mondiali in Brasile (parte terza)

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La Germania è campione del mondo di calcio.
Per quello che si è visto, un risultato che premia i più meritevoli. Perché la Germania è stata più squadra delle altre: coesa, dove si è vinto grazie al collettivo e non ai singoli, anche se c’erano tanti buoni e ottimi giocatori. Soprattutto ha vinto perché si è saputo pianificare, organizzare, investire, saper guardare avanti; cosa che è stato fatto in tutti i settori, non solo in quello sportivo.
Serietà, professionalità, capacità, impegno: ecco gli elementi che hanno permesso di conseguire l’obiettivo. Ecco come si spiega il perché in questi ultimi anni la Germania è una delle nazioni più forti economicamente e con un certo tipo di sviluppo. L’esatto opposto dell’Italia, che è in caduta libera praticamente su tutti i fronti, impreparata e disorganizzata ai massimi livelli, quando non totalmente confusa.
A parte la vittoria finale che ha premiato il merito, sono stati brutti Mondiali, nonostante le parole di Blatter per abbellire il quadro (il Mondiale dei Mondiali, i Mondiali migliori) e per le quali poi tutti si sono accodati nel trovarsi concordi con lui. Lo spettacolo ha latitato, di partite veramente avvincenti e divertenti ce ne saranno state un paio, tutte le squadre partecipanti allo stesso livello e non certo con valore al rialzo: il livello era medio, tendente al basso, niente a che vedere con squadre del passato. Si sono viste partite spesso noiose, che si sono risolte ai supplementari o ai rigori, con molti falli che hanno portato a infortuni anche gravi (vertebra rotta per Neymar e tibia e perone fratturati per Onazi).
E’ stato un Mondiale con tante polemiche, partito e sviluppato male, dove si è sacrificato troppo per lo spettacolo e il guadagno a tutti i costi, dove i ricavi saranno per pochi e le spese ricadute sui ceti più bassi.
Questi Mondiali sono stati un fallimento non solo per i brasiliani che si aspettavano, essendo la nazione ospitante, d’essere i vincitori, ma anche per lo sport, perché lo sport è stato messo in secondo piano per il ricavo economico; senza contare le solite prese in giro di chi è al potere e tira acqua al proprio mulino per elogiare il proprio operato e far vedere le cose per quello che non sono.
Ormai non ci si meraviglia o scandalizza più: ormai si conosce il gioco ed è cosa che è venuta a stancare, andando a cercare altrove qualcosa di meglio da vedere e da fare.