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L’Ultimo Potere – Primo Atto – XI Crolli (parte 1)

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Guerriero si lasciò cadere su una panchina del parco, gli occhi vigili sulla strada oltre la recinzione. Da più di una settimana stava setacciando la periferia e le zone limitrofe, ma come aveva temuto, le ricerche non avevano avuto gli esiti voluti. Giorni e giorni spesi a camminare per ore, girando a vuoto.
Stava sprecando tempo. Lo aveva saputo fin dal primo giorno dopo Natale che con quella linea d’azione non avrebbe cavato un ragno dal buco, essendo solamente un modo per evitare la spinosa questione. Sapeva dove bisognava andare; stava solamente procrastinando quello che prima o poi avrebbe dovuto affrontare, ma che al momento non si sentiva di fare.
Allontanò lo sguardo dalla strada, fissandolo sulla figura da spaventapasseri di Katrin. Sotto lo svolazzante impermeabile più grande di lei e i numerosi strati di vestiti, si nascondeva un fisico minuto ed esile, che poteva essere ridotto a brandelli con un unico colpo.
Non poteva riportarla là. Non poteva esporla a quel pericolo: sarebbe stata spezzata come un fuscello.
Contrasse le labbra. La scelta d’intromettersi nella sua vita e salvarla ora si stava rivelando un problema, un intralcio al suo cammino. La limitazione che aveva portato ai suoi spostamenti non era cosa da poco: non poteva più muoversi come prima. Motivo per cui non poteva tornare là: era già difficile farcela avventurandosi in un territorio ostile come quello se doveva badare solo a sé stesso, proteggere anche un’altra persona la faceva divenire un’azione quasi impossibile.
Naturalmente sarebbe bastato lasciarla nel rifugio per tornare a muoversi liberamente; ma questa soluzione non era attuabile: ormai Katrin lo seguiva ovunque andasse, era diventata la sua ombra; gli si era aggrappata come se fosse un’ancora. Non si sarebbe fatta lasciare indietro: sarebbe andata con lui, oltre ogni ragione. Con l’attaccamento che si era creato nei suoi riguardi, Katrin non voleva più rimanere sola: era terrorizzata dal semplice pensiero. Bastava che sparisse dal campo visivo per farla agitare e renderla irrequieta; se scompariva per più di qualche minuto, lo andava a cercare, non staccandosi più di dosso. Gli correva dietro come un cane impaurito e sperduto che cercava il suo padrone; avrebbe voluto riprenderla, farla smettere con quel comportamento, ma l’espressione scodinzolante che aveva quando tornava a vederlo gli faceva ingoiare le parole dure che gli salivano dalla gola.
Visto come stavano le cose, aveva cominciato a prendere in considerazione un’altra eventualità: lasciare la città. Le cose in quel luogo si stavano facendo pericolose.
Potevano allontanarsi e andare in cerca di un’altra. Oppure ritirarsi lontano dai centri della civiltà e vivere in un luogo tranquillo, vicino a un bosco o a un lago, dove Mutantropi, Chimere, Demoni e Posseduti non avevano alcun interesse ad arrivare. L’idea non gli dispiaceva e per una volta tanto non sentiva la pressante spinta a cercare Luna Azzurra.
Ma la verità, quella più profonda, quella più rivoltante, era che aveva paura. Stava scappando. Era terrorizzato al solo pensiero di riavvicinarsi al centro della città. Non ci voleva tornare.
Non dopo quell’incontro.
Controllò il tremore che sentì fremere nelle membra, mentre un’ombra s’affacciava nella mente. Un’ombra oscura che divampava come un incendio e si protendeva in avanti per afferrarlo.
Un movimento aleggiò al limite del suo campo visivo.
«Katrin, vieni qua.» Intimò a bassa voce.
La ragazza accorse subito al suo fianco. «Cosa c’è?»
«Visite.» Rispose coinciso tenendo lo sguardo oltre la recinzione. «Allontaniamoci.»
«Che cosa sono?» Chiese Katrin mentre attraversavano lo spazio delle altalene arrugginite.
Un mesto cigolio s’alzò quando i sedili spezzati furono mossi dal vento.
«Per il momento solo chimere.»
«Perché per il momento?»
Guerriero si guardò attorno. «La loro presenza avverte le altre creature che ci possono essere delle prede. E le attira nei paraggi.»
«Le chimere sono dei segugi?»
«Non sempre. In generale, possono essere considerati il termometro di un’area: un buon numero di queste creature rappresenta un’alta densità d’esseri viventi di bassa pericolosità, come gli esseri umani. E questo per mutantropi o Posseduti significa un buon territorio di caccia.» Evitò di pronunciare l’altro nome. «Non ne conosco bene le ragioni, ma le chimere sono attratte dagli uomini, come se rispondessero a un qualche richiamo; forse dipende dal fatto che gli esseri umani sono i loro creatori e questo è rimasto impresso nel loro codice genetico o nel loro inconscio.»
«Come l’uomo ricerca Dio?»
«Sì, credo possa essere così.» Riuscì a dire Guerriero, evitando di dare la risposta che subito gli era venuta in mente.
Come poteva dirle che non poteva esistere un Dio in quel mondo infernale? Come poteva riferirle che le sembrava assurdo che un Creatore abbandonasse la sua opera in quello scempio?
Nessun Dio sano di mente poteva fare una cosa del genere, ma l’uomo con la sua follia sì: come un padre che aveva cresciuto la figlia fino a farla diventare una donna e una volta raggiunto il suo compito, l’aveva martoriata e stuprata. Se l’uomo aveva ricercato Dio, l’aveva fatto in tempi dimenticati; ora tutto era andato perso e Dio era un nome vuoto, l’inciso su una lapide persa nei cieli.
Ma Katrin credeva che quelle cose esistessero ancora, gli davano la speranza di andare avanti.
«Sono pericolose?» Chiese nervosamente la ragazza.
«Tutto è pericoloso, se non si fa attenzione.» Guerriero osservò i movimenti furtivi nei vicoli laterali. «Ma a meno di incorrere in specie particolarmente aggressive o affamate, le chimere sono solitamente esseri schivi che seguono il loro particolare istinto; nulla di più.»
«Ma se dovessero attaccare? Potresti batterle?» Insistette Katrin.
Guerriero si voltò a guardarla, cercando di capire dove voleva arrivare. «Se fossi costretto a combatterle, avrei la meglio, certo; sempre che il numero non sia soverchiante.»
Katrin lanciò un’occhiata al di là del parco. «Saresti in grado di affrontare quelle che sono qua intorno?»
Guerriero continuò a scrutarla. «Sì, non sono molte.»
«Perché eviti di combattere quegli esseri, se sai di poterli battere?» Mormorò la ragazza distogliendo lo sguardo da lui.
«Perché è inutile ricercare lo scontro, anche se si ha la certezza di vincere. Si combatte solo quando necessario. Fare diversamente è da stupidi e la stupidità in questo mondo si paga.»
«Ma se li elimini, non possono più tornare.»
Da così vicino poté distinguere il tremito delle sue labbra: paura. Paura che stava montando in un crescendo pericoloso.
«Non c’è motivo di attaccare se non si è attaccati; farlo significherebbe solamente attirare attenzione e risentimento. E non sono cose con cui uno vuole avere a che fare all’interno di una città. Passare inosservati e senza lasciare tracce è il comportamento migliore da seguire.» Guerriero parlò con calma. «Non si possono eliminare tutte le creature che s’incontrano: equivarrebbe a far guerra al mondo intero.»
«Ma loro mi fanno sentire così…»
«Lo so.» La bloccò delicatamente Guerriero prima che il dar voce ai suoi pensieri la portassero ad avere un crollo.
«Vorrei che fossero spazzati via tutti. Li vorrei vedere tutti morti.» Esclamò in un tono acido e rabbioso che non le aveva mai sentito prima. Per un attimo Katrin era mutata, diventando irriconoscibile dalla ragazza che aveva conosciuto; i lineamenti si erano contratti in una smorfia tesa e arcigna, di puro odio. E per un attimo gli era sembrata una sconosciuta, qualcosa di completamente estraneo, con cui non avere a che fare.
Un brivido e un moto di ribrezzo lo raggelarono. La situazione non stava prendendo una buona piega. Era meglio tornare a muoversi.
«Andiamocene da qui. Torniamo a casa.» La esortò riprendendo il cammino sul vialetto invaso dalle erbacce.
Katrin voltò il capo di scatto dalle ombre delle chimere, affrettando il passo per raggiungerlo.
«Il mio angelo.» Sussurrò.
«Che cosa?» Guerriero la guardò, pensando di non aver capito bene.
Katrin sollevò lo sguardo piantato a terra, fissandolo con occhi grandi. L’espressione del volto era tornata quella di sempre.
«Tu sei il mio angelo custode. Un angelo del cielo venuto a proteggermi.» Disse sorridendo.
Un angelo del cielo non è nulla se al suo fianco non ha una stella.
La frase sovvenne alla sua mente prima ancora che la potesse razionalizzare. Ma che cosa significava?
Un angelo del cielo non è nulla se al suo fianco non ha una stella.
Da dove veniva?
Un angelo del cielo non è nulla se al suo fianco non ha una stella.
La frase continuò a martellarlo, lampeggiando come un’insegna luminosa. Colpito più di quanto volesse ammettere, scosse il capo.
«Lascia perdere questi discorsi e affrettiamoci.»
In quel momento ricordò. Aveva letto quella frase di sfuggita mentre effettuava le ricerche, prima di incontrare la ragazza: il libro che gli era capitato in mano non c’entrava nulla con quello che stava cercando, ma mentre lo metteva da parte, le pagine si erano aperte, facendo soffermare il suo sguardo su quelle semplici parole. Chissà perché gli erano rimaste così impresse.
“Lei è la stella?” Pensò stupito.
Che strana coincidenza. Ma più ci pensava e meno credeva che fosse tale.
Troppe cose strane stavano accadendo. Cose che non riusciva a capire.

Figure dai contorni bianchi, disegnate su una lavagna nera. Una lavagna che si apriva come un album, creando pagine nuove quando una veniva riempita dai disegni. Pupazzi, peluche dalle linee tonde e avvolgenti; disegni che correvano all’impazzata in mezzo ad alberi spogli, sbattuti dal vento.
Gli occhi sbarrati dalla paura, in ogni foglio ce n’era qualcuno voltato a guardare indietro, la bocca aperta in un urlo che restava muto e non usciva mai dalle gole.
I disegni non posseggono voce, a meno che non venga donata. E ne sono consapevoli.
Per questo la loro disperazione era tanto marcata: era questo che voleva il loro creatore. Dargli la consapevolezza di quello che non avevano e non potevano avere; nessuno si sarebbe accorto di loro, nessuno avrebbe udito le loro suppliche, accorrendo in aiuto.
Come un burattinaio, l’artista con il tratto della penna creava colline, montagne attraverso le quali far scappare i piccoli pupazzi, continuamente inseguiti da qualcosa che si teneva sempre nascosto oltre la linea del paesaggio. Ma che stava arrivando, facendosi a ogni pagina più vicino.
Gli indifesi peluche correvano come una mandria impazzita, ruzzolando in un’ammucchiata che sembrava sbattere contro la superficie del foglio, premendo, scalciando. I volti paffuti si sgranavano uno sull’altro, implorando che quella tortura terminasse.
Spietata, la mano continuava a disegnare. Imperterrita, creava un mondo d’orrore senza dare ai suoi piccoli abitanti una via di fuga, facendoli correre come topi in trappola. Correvano, correvano senza posa: trottole impazzite in un modo impazzito. Schiacciati contro il foglio, premevano per uscire, una calca di morbide forme che riempiva tutta la superficie.
Il disegnatore se ne stava con la schiena ritta e il capo chino, i gomiti appoggiati al tavolo, continuando insensibile l’opera. Instancabile, riempiva il foglio di denti aguzzi e fauci aperte; bocche gigantesche che si aprivano dietro il cielo e la terra per fagocitare tutto quanto. Una pagina dopo l’altra riempiva l’album, facendo andare avanti la storia senza tregua.
Dall’alto, Katrin guardava spassionatamente i pupazzi: era lei il disegnatore. Fredda e distaccata continuava a lavorare, come se una forza invisibile e più grande guidasse i suoi pensieri e le sue azioni; come se anche lei non fosse che una marionetta, un mezzo usato per la creazione di quel mondo piccolo che aveva sotto i suoi occhi.
Un sorriso si allargava sulle sue labbra. Per un attimo la finzione le era piaciuta: sentirsi un’estranea, inconsapevole e incolpevole delle proprie azioni. La verità era che le piaceva quello che stava facendo. Lo voleva. Si compiaceva di quanto stava vedendo; lo desiderava. Le piaceva il senso di potere e manipolazione che aveva sui disegni; osservava concupiscente le emozioni che scaturivano dall’inseguimento tra prede e predatori. Un brivido di piacere le solleticava il corpo e l’animo, facendole desiderare che la caccia non si fermasse, continuando a sfamare il delizioso desiderio.
Lasciò andare la matita, rimirando l’attimo che era riuscita a cogliere: l’istante sospeso tra il riuscire a scappare e l’essere presi. Il momento sublime che mescolava ansia, eccitazione, terrore e quel piccolo sussurro che era la vita che stava per essere strappata via.
Alzò lo sguardo e si vide riflessa allo specchio.
Si era sollevata dal letto di colpo, il cuore in tumulto, angosciata e sudata; nella sua mente tutto turbinava con estrema chiarezza, rammentando nei dettagli il sogno che aveva fatto. Tutto tranne quanto aveva visto nello specchio quando si era rispecchiata: doveva essersi svegliata prima di vedere il proprio riflesso oppure la sua mente si rifiutava con tutte le forze di ricordare. E forse aveva ragione di farlo; forse era un bene che non ricordasse: dato le sensazioni che aveva provato, doveva essere stato qualcosa di molto brutto.
Aveva provato a scuotersele di dosso, ma per tutto il giorno l’avevano perseguitata. Nelle strade, nei palazzi, nelle gallerie: il ricordo non l’aveva lasciata. Vedeva sempre le dolci figure dai contorni bianchi annaspare in un nero mondo bidimensionale. La loro tenerezza era straziata dal loro essere indifesi. Vedeva la loro sofferenza, ma non poteva aiutarli. Non lo voleva. Vedeva la supplica nei loro occhi…
Ma quegli sguardi non erano lo sguardo di chi terrorizzato chiedeva aiuto: era lo sguardo di chi era terrorizzato da chi aveva davanti.
Era lei il mostro di cui avevano paura. Il mostro che aveva creato quel mondo d’inferno e che poteva far accadere tutto quello che voleva; che li inseguiva e li torturava senza mostrare un minimo di pietà. Un dio malvagio che aveva dato vita a esistenze che non gli avevano chiesto nulla e che ricompensava in quella maniera: forse perché non gli piacevano, forse per capriccio.
Forse perché poteva semplicemente farlo.
O forse perché stava facendo loro quello che veniva fatto a lei.
Il sogno non era altro che lo specchio della sua vita e lei si era vista dalla parte della follia che governava il mondo. Si era vista e vi si era anche riconosciuta, immedesimata; aveva assaporato il gusto della distruzione e della rovina. Affascinata aveva guardato dritto negli occhi la disperazione e vi si era persa; mentre guardava, aveva percepito l’incrinarsi di qualcosa, come il rumore secco di crepe che si diramano sulla superficie ghiacciata, ma era qualcosa di sfuggente, che si portava sempre al di là della soglia della comprensione.
Per tutto il giorno si era sentita strana, a disagio. Una volta, sentendo un rivolo di detriti scendere da un tendaggio, si era voltata di scatto ritrovandosi a guardare in una vetrina un volto spiritato sotto una massa di capelli scarmigliati, come quello di un pazzo; non si era resa subito conto che stava vedendo il suo riflesso. Quando l’aveva fatto, era scappata di corsa, come se fosse stata rincorsa da qualche mutantropo o chimera.
Da allora non si era più staccata da Guerriero. Ma il volto non aveva smesso di perseguitarla.

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