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Jonathan Livingston e il Vangelo

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Il magazzino dei mondi 2

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Il magazzino dei mondi 2
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Sfruttamento

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Per governare un impero, per governare un centinaio di imperi, era necessaria una certa obiettività. Tutto doveva essere usato, doveva essere rifatto in qualunque modo lui gradisse. Aveva avviato importanti progetti edilizi per glorificare il suo governo, ma pochi capivano che l’importante non era il completamento, ma il lavoro stesso e ciò che implicava: il suo controllo sulla loro esistenza, la loro lealtà, il loro lavoro. Poteva farli sgobbare per decenni, vedere generazioni di quegli idioti passare uno a uno, tutti obbligati a lavorare ogni singolo giorno della loro vita, e ancora continuare a non capire che cosa significasse per loro dare a lui, a Kallor, così tanti anni della loro esistenza mortale, così tanta parte che, in verità, qualsiasi anima razionale avrebbe ululato per la crudele ingiustizia di una vita simile.
Per quanto lo riguardava, quello era il vero mistero della civiltà, e per quanto la sfruttasse, alla fine non era più vicino a comprenderla. Quella disponibilità di persone per altri versi intelligenti (be’, ragionevolmente intelligenti) a impacchettare e poi svendere raccapriccianti percentuali delle loro limitatissime esistenze, totalmente al servizio di qualcun altro. E la ricompensa? Ah, un po’ di certezza, forse. Il cemento che era la stabilità. Un tetto sulla sesta, qualcosa nel piatto, l’amata prole, ognuno di loro destinato a ripetere l’intero ciclo. Ed era uno scambio equo?
Per lui non lo sarebbe stato. Lo sapeva, lo aveva sempre saputo. Lui non avrebbe mai svenduto la sua vita. Non avrebbe servito nessuno, non avrebbe piegato il suo lavoro alla costruzione della ricchezza sempre crescente di qualche idiota che riteneva che la sua parte dell’accordo fosse profonda nella sua generosità e fosse, senza alcun dubbio, il più prezioso dei doni. Che riteneva -che lavorare per lui o lei fosse un privilegio. Per tutti gli dei! Che presunzione!
Ma quante norme del comportamento civile erano studiate per perpetuare tali notevoli schemi di potere e controllo dei pochi sui molti? Norme difese fino alla morte (solitamente dei molti, raramente dei pochi) con leggi e guerre, minacce e repressioni brutali. Ah, quelli erano giorni, no? Ah, come si era gloriato in quell’oltraggio!
Non sarebbe mai stato uno tra i tanti. E lo aveva provato, più e più volte. E avrebbe continuato a provarlo.

I Segugi dell’Ombra. Prima Parte – Steven Erikson pag. 244-245

Questo è lo sfruttamento di cui sempre l’umanità è soggetta.

Il vero artista

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Non esiste né è mai esistito un artista più vero di un bambino libero di fantasticare. Quella confusione di legnetti nella polvere, che un adulto prenderebbe a calci senza nemmeno badarci, sono in realtà le ossa di un vasto mondo, vestito e animato, di una fortezza, di una foresta, di una grande muraglia contro la quale si abbattono orde terribili e vengono respinte da un pugno di coraggiosi eroi. Un nido di draghi, e quei lucidi ciottoli levigati sono le loro uova, ognuna di esse la dimora di un futuro feroce, glorioso. Nessuna creazione è mai stata così gioiosamente trionfante e tutte le macchinazioni e manipolazioni degli adulti sono ricordi fantasma dell’infanzia e delle sue meraviglie, il maldestro accoppiamento con argomentazioni convincenti, obiettivi ragionevoli; e ogni facciata ha una storia da raccontare, una leggenda da osservare in stilizzato decoro. Le statue nelle nicchie esibiscono espressioni severe, indifferenti ai passanti. L’irreggimentazione governa queste menti rigide, immobili nell’abitudine e nella paura.
Trascinare i bambini a lavorare significa uccidere gli artisti, significa cancellare per sempre la meraviglia, il guizzo dell’immaginazione, bramosa come un passero di saltare da un ramo all’altro, e tutto viene schiacciato al servizio dei bisogni degli adulti e delle loro spietate aspettative. L’adulto che pretende tutto ciò ‘ morto dentro, svuotato dei colori brillanti della nostalgia, così soffici, così delicati, così colmi di desiderio dolce e al contempo amaro. Sì, un adulto simile è morto dentro e anche fuori. Cadaveri in movimento, colmi del risentimento che i defunti nutrono per tutto ciò che è ancora vivo, per ciò che è ancora caldo, che respirano ancora.
Questi esseri vanno forse compatiti? No, mai e poi mai, fintanto che trascinano orde di bambini in orrendi lavori, e poi consumano indifferenti i premi delle fatiche dei piccoli.
Questi esseri pasciuti osano lanciarsi in duri giudizi? Oh, c che sì. Un mondo costruito con un pugno di bastoncini può vocare lacrime nei piccoli occhi, mentre l’artista su mani e ginocchia canta canzoni senza parole, parla con mille voci e m figure invisibili nell’ampio panorama della tela della mente (fermandosi solo una volta per pulirsi il naso su una manica). E osa giudicare tutto ciò! E vorrebbe affrettare la fine di un crudele abuso.

I Segugi dell’Ombra. Parte PrimaSteven Erikson Pag. 468

Water

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L'Ultima Profezia del Mondo degli Uomini

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L’Ultima profezia del mondo degli uomini conclude il lungo capitolo dei protagonisti conosciuti con L’ultimo elfo, partendo dalla loro infanzia fino ad arrivare al termine della loro vita. Un percorso che si è fatto più duro, lasciando la leggerezza delle prime pagine del primo romanzo di Silvana De Mari per assumere sfumature più mature, visto il cambiare età dei personaggi e di quanto affrontato lungo il cammino: perdite, povertà, conquiste, sacrifici, ma anche amicizia, amore, libertà. Quella libertà che va conquistata con dure lotte, senza mai arrendersi, senza mai lasciarsi andare perché c’è sempre qualcosa in cui avere speranza.
Tanti sono i temi affrontati dall’autrice attraverso l’opera.
La ricchezza viene vista come mezzo per sconfiggere la povertà e di conseguenza debellare la paura, l’ignoranza, creando così un’elevazione nell’uomo. Questo in parte è vero: con la ricchezza si può dare cultura, istruzione, tutti strumenti per raggiungere consapevolezza. La capacità di saper leggere, scrivere, di attingere a fonti culturali permette di avere conoscenza e con la conoscenza saper giudicare il giusto e lo sbagliato, saper ragionare con la propria testa, discernendo qual è la via per costruire un’esistenza migliore (va fatto notare che questo dipende anche da quali maestri si hanno e quali letture vengono effettuate). Elementi che difficilmente sarebbero ottenibili nella povertà, visto che gli individui sarebbero concentrati, impegnati nella ricerca e nella conquista dello stretto indispensabile per non morire. Una sopravvivenza che attiva gli istinti di base della preservazione della propria vita, non permettendo d’incanalare le energie in altro modo, spingendo a utilizzare gli impulsi d’opportunismo, chiusura, d’incentrarsi su se stessi.
Il messaggio che passa attraverso la lettura del romanzo ha una sua correttezza: in un mondo ricco, dove non c’è povertà, ma ogni individuo ha la giusta parte che gli permette di vivere senza stenti, c’è la possibilità che senza ignoranza (sconfitta dall’avere una cultura, un’istruzione) non ci sia né paura e di conseguenza neppure odio. Gli uomini privati della necessità di dover lottare, conquistare il proprio pezzo di mondo, assurgono a un livello di consapevolezza maggiore che li porta a comprendere che sono tutti uguali, hanno tutti le stesse opportunità.
Purtroppo questa è un’utopia, come ha dimostrato la storia: i periodi di maggior benessere non hanno portato un’illuminazione, quanto uno sperpero delle risorse e un sedersi su quanto raggiunto che ha atrofizzato la consapevolezza invece di svilupparla, facendo sorgere vizi nati dal non impiegare le energie a disposizione in qualcosa di utile e costruttivo. Una dissoluzione che ha fatto ricadere nel crollo le società e alle successive barbarie che ne sono conseguite, dove il denaro assume un’estrema importanza, divenendo quasi un dio, come la nostra epoca ha dimostrato: un dio al quale si sacrifica di tutto. Ancora purtroppo, il sistema vigente ha insegnato che senza reddito si subisce l’esclusione sociale, si è tagliati fuori dai rapporti umani, dalla vita societaria, non si può creare una famiglia, realizzare anche il più piccolo sogno: si è messi da parte come se si fosse un peso, spazzatura che va eliminata. E questo non fa altro che creare problemi e disagi all’individuo, portandolo spesso a follia, violenza, gesti inconsulti che portano rovina a se stessi e a chi gli è accanto.
Il messaggio espresso da Silvana De Mari sarebbe valido se attuato con coscienza e una morale che mette al centro l’individuo. Come espresso dall’autrice sul suo blog, che ritiene come soggetti su cui puntare per la realizzazione nella realtà di questo pensiero le multinazionali e Berlusconi, il messaggio perde la sua validità. Le prime non sono altre che cavallette che calano su un’area, la sfruttano fino all’osso e poi se ne vanno appena non hanno più da guadagnare, lasciando alle loro spalle solo povertà; il secondo è stato (ed è) un individuo che ha fatto solo ed esclusivamente il proprio interesse a discapito della popolazione, sfruttando il potere conquistato per le proprie mire e per tutelarsi dai reati commessi, utilizzando per i propri fini i soldi pubblici. Di certo, questi non sono esempi di consapevolezza e illuminazione, ma semplicemente d’egoismo e sfruttamento. E di certo il capitalismo non è la soluzione per rendere il mondo un luogo migliore dove vivere, ma solo per far sì che pochi ricchi diventino sempre più ricchi e il numero di poveri si faccia maggiore.
Altra cosa che salta all’occhio nella lettura del romanzo è l’associazione Orchi/Mussulmani. Entrambe sono popolazioni dove la donna viene ritenuta di scarso valore, costretta a vivere in una condizione più bassa di quella dell’uomo, a sottostare a tradizioni limitanti (indossare il velo per non mostrare il volto) dove pochi sono i diritti che le vengono riconosciuti. Questo in parte è vero, anche se la colpa, come spesso accade, non deve essere fatta ricadere sulla religione, perché quella non è vera religione, ma solo un pretesto per far pesare il potere che alcuni individui possiedono sulla maggioranza e condizionarla a mettere in pratica i propri voleri.
A seguito di tali tradizioni si ritiene l’Islam brutale, irrispettoso della condizione e del valore della donna. Ma non va dimenticato che per secoli la stessa cosa è stata fatta dalla religione cristiana, da quella ebrea: la donna spesso è stata associata al peccato, alla fonte del male, della tentazione, del traviamento, uno strumento del demonio, considerata di livello inferiore rispetto all’uomo. Nonostante queste realtà, si va a considerare l’Occidente migliore del Medio-Oriente, come se fosse più giusto, più equo, dove la donna ha più diritti, è considerata come individuo. Si è davvero sicuri che le cose stiano in questa maniera?
Per quanto sarebbe bello pensarlo, le donne non hanno le stesse opportunità degli uomini, qualsiasi settore si prenda in considerazione. Cosa ancora peggiore, le donne hanno perso dignità. Certo, questo non vale per tutte, ma una buona parte non sa difendere il proprio valore, si adegua ai diktat della società, non facendosi riconoscere come individuo, ma come oggetto, come cosa. Il termine donna per coloro che si adeguano al sistema è eccessivo e non appropriato, perché esse decidono di essere solo e soltanto femmine, come è tristemente famosa la politica degli ultimi anni a causa della pessima immagine data da diversi suoi membri. Per ottenere soldi e potere ci si vende, si calpesta la dignità, si è pronte a tutto.
Si commiserano le donne musulmane perché vivono in una condizione limitante, ma loro lottano perché la loro dignità venga riconosciuta e non calpestata, perché siano considerate per prima cosa degli individui; cosa che molte di quelle occidentali buttano invece via perché non ne capiscono il valore, perché semplicemente sono capricciose e viziate: semplici femmine, appunto. A questo punto c’è da fermarsi a chiedere chi è veramente da commiserare.
Oltre che sulla questione donne, la religione mussulmana viene criticata giudicando ingiusti i suoi comandamenti e le sue leggi, che fanno vivere le persone nell’oppressione, nella povertà e nella tristezza, smorzando ogni fonte di divertimento e di felicità. Ma il problema non è la religione, perché la religione non è altro che qualcosa creato dagli uomini: uomini di potere che vogliono sfruttare, governare, condizionare altri uomini. La religione, in questi casi, è solo un pretesto, una maschera: è sempre e soltanto una questione di potere.
Altro punto che emerge dall’opera e che fa riflettere è il ritenere il mondo civilizzato migliore del mondo tribale, quest’ultimo considerato arretrato, barbaro, crudele, quando semplicemente ha un altro modo di vivere e in esso vi è una saggezza che l’occidente ha perso, quali a esempio il saper vivere in equilibrio con la natura. Bisogna ricordare che la brutalità, la violenza, appartengono all’uomo, anche se si considera civile ed evoluto: tutti i conquistatori provenienti da civiltà civili o si sono impossessati della cultura dei vinti (basta vedere i romani con i greci) o l’hanno distrutta, come fecero gli europei con i popoli sudamericani, facendo perdere in alcuni casi un importante patrimonio per l’umanità per voler imporre il proprio stile di vita.
Un imporre che è tipico di tutte le nazioni, i gruppi, dove il Noi, la maggioranza, vuole la soppressione dell’Io, dove per appartenere a un insieme l’individuo si deve annullare in nome delle esigenze della moltitudine, considerata più importante del valore del singolo. Un annullamento che impoverisce, rendendo tutto piatto, uniforme e insapore, dove si perde un passo alla volta il gusto del vivere: presi dal sacrificare tutto in nome di qualcosa di grande come una religione, una nazione, un governo, non ci si accorge quanto è importante l’amore per le piccole cose, per tutto ciò che cresce e germoglia. Un amore per la natura quello mostrato nel romanzo che porta quiete e serenità, e non solo sostentamento, perché coltivare la terra, prendersene cura, significa far parte di qualcosa di grande e vivo, un corpo che cresce e prospera. E mentre si vede il lento crescere di una cultura, una pianta, si scopre il dono dell’attesa: l’imparare a osservare, a riflettere, raggiungendo così un equilibrio che fa assaporare di più e meglio la vita, portando a un discernimento e una saggezza che possono nascere solo con la calma.
Silvana De Mari conferma la bontà del proprio lavoro vista in precedenza, dando una lettura intelligente e profonda, in certi punti anche poetica ed epica, dove tutto, anche nei momenti più bui, è pervaso di speranza, del sentore che per quanto le cose possano andare male un giorno torneranno ad andare meglio.

La collina dei conigli

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Siete così diversi dai conigli?
E’ la domanda che appare sulla quarta di copertina di La collina dei conigli di Richard Adams. Una domanda che può sembrare ingenua, la cui risposta sembra scontata: uomini e animali sono completamente diversi. Ma se ne è davvero così sicuri?
Certo, quella creata da Richard Adams è un’opera di fantasia ma non è forse vero che tutti gli esseri viventi anelino alla libertà, a trovare un proprio posto nel mondo? E non è forse vero che c’è sempre chi vuole imporre il proprio volere usando la forza, la paura, chi si sente superiore agli altri e vuole sottometterli e farli sottostare alle proprie regole?
Lo scrittore inglese non scrive nulla che non si sia già visto: semplicemente ha dato una connotazione diversa ai personaggi, dandogli le sembianze di conigli, con tanto di lingua, miti e cultura. Il viaggio intrapreso da Moscardo, Quintillio e quelli che li hanno seguito ricorda l’Esodo del popolo ebraico guidato da Mosè alla ricerca della Terra Promessa, quel luogo dove poter crescere e prosperare; un percorso travagliato, pieno di pericoli e insidie, dove s’incontrano nemici ed esseri pronti a schiavizzare o a distruggere, proprio come fa il faraone, che assicura sì cibo e sicurezza, ma a scapito della libertà perché là diventano schiavi.
Quella libertà che spesso non si riesce ad apprezzare finché non viene perduta.
Quella libertà che oggi spesso si sacrifica in nome della sicurezza e della tranquillità, del non pensare, del non avere responsabilità; un quieto vivere che però toglie il sapore del vivere, dell’assaporare il valore delle cose. Le gerarchie, i sistemi di controllo possono funzionare all’inizio, rendere le cose più semplici, ma alla lunga tolgono il respiro, stritolano e creano un senso d’insoddisfazione in cui ci si sente prigionieri, troppo limitati e imbrigliati, dove alla lunga il senso d’insoddisfazione non fa che crescere e rendere la qualità dell’esistenza sempre più basso.
Trovare la propria strada non è certo facile, è più faticoso, ma vale la pena essere liberi, non avere catene che fanno portare pesi e vivere nella paura e nell’angoscia.

L'Ultimo Elfo

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Leggero e profondo. Divertente e malinconico. Capace di strappare un sorriso e una lacrima.
Questo è L’Ultimo Elfo di Silvana De Mari. Un romanzo che usa un linguaggio semplice perché semplice è l’animo di Yorsh e il suo modo di guardare il mondo; un animo candido quello del piccolo elfo, privo di malizia e cattiveria, pervaso dalla bontà e dall’amore per la vita in tutte le sue forme, capace di influenzare chi gli è vicino e di trasmettere quel qualcosa di buono in grado di cambiare il modo di vivere.
I primi paragrafi del romanzo sono qualcosa di veramente spassoso, con Yorsh bambino, uno nato da poco come gli piace definirsi, intento a muovere i primi passi in un mondo che non conosce affatto, dato che ha trascorso i primi anni dell’esistenza insieme alla nonna in un Posto per gli Elfi. Un viaggio non cominciato certo nel migliore dei modi: al freddo, sotto la pioggia, senza niente da mangiare, con alle spalle un piccolo mondo di ricordi che non tornerà. E che non sembra proseguire nel migliore dei modi quando fa l’incontro con i primi due umani, conosciuti dai racconti della nonna per la loro non brillante intelligenza. Ma è grazie all’incontro con Monser e Sajra che il piccolo elfo crescerà, arrivando a scoprire che la vita non è solo candore, ma anche fango e amarezza e cose dalle quali bisogna sapersi difendere.
Una scoperta che nella prima parte del romanzo viene fatta con delicatezza, con un tocco di fiaba e poesia, dove i lati più taglienti dall’esistenza sono smussati dai due umani adulti per proteggere l’elfo che sta crescendo, perché la durezza degli uomini non lo ferisca troppo a fondo.
In un cammino che sembra una semplice e piacevole avventura con un lieto fino scontato, Yorsh scoprirà il passato di suo padre e della sua razza (perseguitata e imprigionata come successo con gli ebrei finiti nei lager o i nativi americani rinchiusi nelle riserve), ma anche il futuro che lo attende attraverso un’antica profezia incisa nella pietra. Una profezia e un viaggio che lo porteranno all’incontro con l’ultimo drago esistente e alla scoperta di un’antica biblioteca contenente il sapere del mondo; un percorso che lo farà crescere, facendogli acquisire sicurezza e facendogli capire che chi possiede capacità deve metterle al servizio degli altri perché il mondo possa divenire un luogo migliore.
L’Ultimo Elfo può essere visto come un libro di formazione, dove si mostra la crescita e l’evoluzione di un personaggio che passa dell’età innocente e candida dell’infanzia a quella più dura che preannuncia l’ingresso nell’età adulta, come ben mostrato nella seconda parte del romanzo, dove la tristezza, l’amarezza e la perdita hanno un impatto molto maggiore rispetto ai primi paragrafi. Non ci si deve meravigliare di tutto ciò, anche se si pensa erroneamente che l’opera sia un libro per bambini quando invece è adatto a tutti, perché questa è la crescita, questo comporta l’andare avanti e maturare: scoprire che la vita ha tanti aspetti, alcuni piacevoli e altri no.
Ma L’Ultimo Elfo sottolinea anche altri elementi importanti, necessari per far capire come nella storia si siano potuti verificare certi eventi. Uno di questi è l’ignoranza, dove l’istruzione, la capacità di leggere e quindi di attingere alla conoscenza, è cosa riservata a pochi individui e che pertanto la sfruttano per dominare gli altri; un dominio dei governi che vuole che le popolazioni rimangano nell’oscurità del non sapere perché in questo modo sono maggiormente manipolabili e sfruttabili. Un’ignoranza che genera paure, condizionamenti e soprattutto povertà. Quella povertà su cui potenti e governanti prosperano e prolificano, che utilizzano per generare e alimentare odio verso coloro che vogliono eliminare perché visti come ostacolo e minaccia per il proprio potere.
Un messaggio, quello lasciato dal romanzo, che sottolinea quanto siano importanti i libri e la loro lettura, perché la cultura non è un semplice passatempo che non dà niente, ma un mezzo per rendere migliore la vita e per dare alle persone gli strumenti per combattere i condizionamenti, gli sfruttamenti e l’odio che il non conoscere può far nascere.

Usare la propria testa

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In questa società, usare la propria testa non è una qualità ricercata, anzi viene deplorata. Chi pensa con la propria testa, chi difende le proprie idee, chi giudica ciò che è sbagliato, viene ritenuto un fastidio, un elemento destabilizzante che va messo da parte, tenuto fuori, eliminato.
Viviamo in un sistema chiuso dove si vuole uniformità di pensiero, appiattimento, obbedienza. Il confronto con idee e punti di vista diversi viene ritenuto superfluo se non intralciante. Fare domande, obiettare: sono considerati uno sterile trovare da dire.
Politici, imprenditori, dirigenti, istituzioni religiose, vogliono avere a che fare con persone che ubbidiscano e basta, eseguano tutto quello che gli viene detto senza domandare, porre obiezioni: si deve sottostare all’autorità, alle gerarchie. Le tanto declamate libertà, democrazia, sono solo parole vuote: lentamente si sta involvendo, si stanno facendo passi indietro di decenni, se non di secoli. E la gente sta accettando tutto questo restando passiva, adeguandosi a questo modo di fare.
Tutto ciò porta a un’assenza di riflessione critica per non mettere in discussione decisioni e strutture, perché si ritiene che consenso e assenza di domande rendano migliore l’efficienza e l’organizzazione. Si ritiene che l’intelligenza sia una perdita di tempo, mentre se invece regna la stupidità si riducono i conflitti e si aumenta la sicurezza. Una stupidità funzionale che elimina riflessione e ragionamento, che spinge sul senso d’appartenenza che fa mettere in secondo piano valori etici, morali e di dignità e far abbracciare il diktat promulgato. Un modo di fare che vuole che si rimanga inconsapevoli, che non si conosca ciò che non va, che porta a una fede irrazionale e a una cecità intenzionale: due elementi che portano solamente alla rovina. Il non voler vedere le cose che non vanno, l’evitare il confronto è spesso voluto da chi è al comando per non creare incrinature nel potere che possiedono; questo forse nell’immediato può dare risultati, ma alla lunga presenta un alto prezzo da pagare. Non ci si rende inoltre conto che questa cieca obbedienza, porta in continuazione a calpestare la dignità dell’individuo, crea stress, demoralizzazione, demotivazione e stanchezza, prima mentale e poi inevitabilmente anche fisica.
Una verità mostrata da Silvana De Mari con gli Yurdoni in L’ultima profezia del mondo degli uomini – L’epilogo, una popolazione barbara che deve eseguire gli ordini di chi li guida e basta, senza metterli mai in discussione: si vuole solo muta accettazione, nient’altro. Niente domande, niente critica, niente obiettività: solo conformarsi al modello di base conosciuto. Una stupidità diffusa in tutta la popolazione, dove cultura, istruzione, scrittura sono abolite e perseguitate. Una popolazione grezza e brutale che conosce solo la forza e la violenza, che non rispetta nulla e nessuno, capace solo di portare distruzione e di rovinare la bellezza. Proprio come sta facendo questa società.
Non si tratta di un semplice racconto, di una favola scritta per bambini, perché nel romanzo di De Mari, c’è la Storia, quella Storia che tanto spesso si dimentica o non si studia e che invece sarebbe meglio conoscere. Anche i tedeschi, prima della Seconda Guerra Mondiale, diedero cieca obbedienza ai loro capi, al loro governo, accettando tutto quello che gli veniva detto senza farsi venire dei dubbi (o se venivano, accantonandoli), senza porsi domande. Il risultato è stato il sorgere del Nazismo, della Seconda Guerra Mondiale, dell’eccidio di milioni di persone, dell’orrore dei campi di concentramento, della distruzione di molte città e regioni.
La mera e cieca obbedienza, il non sapere che cosa si sta facendo, porta solo disastri.
Sicuri che evitare la fatica di pensare, di seguire gli altri in nome di una fantomatica società civile, sia un risparmio di energie conveniente?
A fronte di questo, un brano che rende chiaro il pensiero esposto.

Insieme avrebbero portato la civiltà alla rovina, ovunque e in qualsiasi momento l’avessero trovata. Poiché, nonostante tutto il bene che creava, il suo unico scopo era allevare seguaci, a sufficienza da mettere in moto forze di distruzione, spargendo ondate di sangue secondo il capriccio di quei cinici tiranni nati per comandare. Comandare, sì, con le menzogne, con parole di ferro – dovere, onore, patriottismo, libertà – che nutrivano il volontariamente stupido con grandiosi propositi, con motivazioni per la miseria umana e che allo stesso tempo distribuivano miseria.

I Segugi dell’Ombra. Parte PrimaSteven Erikson pag.374

Il potenziale della Rete

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La qualità e l’utilità di un mezzo dipendono sempre da chi lo utilizza: una legge che vale sempre, anche per la Rete.
La Rete può essere uno stupido gioco dove mettersi in mostra, scrivere sciocchezze e dare adempimento alla ricerca d’attenzioni e soddisfazione del proprio narcisismo.
La Rete può essere fonte d’informazione, può dare conoscenze e far scoprire cose nuove; può rendere consapevoli di situazioni, realtà sconosciute. Può anche essere la spinta a cambiare, migliorare. Un’opportunità non possibile fino a qualche anno fa.
L’esempio può essere banale, ma si prenda l’editoria e di come oggi gli utenti possano avere influenza su di essa.
Sia Mondadori con Le Cronache del Ghiaccio e del Fuoco di Martin, sia Fanucci con La Ruota del Tempo di Jordan, hanno realizzato opere con diversi errori di traduzione e refusi. Finché internet non era diffuso, non si aveva molta conoscenza di questi sbagli: si poteva mandare una lettera di reclamo alla casa editrice, ma non si veniva ascoltati, dato che si era solamente un minuscolo numero e quindi non si aveva nessuna forza, nessun potere. Ora le cose invece sono cambiate e gli editori non possono fare finta di niente, specie se si è in tanti a dire la stessa cosa, dato che la rete oltre che un mezzo pubblicitario, è anche un mezzo di stroncatura e denuncia. Grazie a essa, qualcosa cambia.
Mondadori, grazie al lavoro dei lettori appassionati, farà un’edizione rivista e corretta delle Cronache di Martin; stessa cosa ha fatto Fanucci con La Ruota del Tempo, come si legge dal commento lasciato su un articolo che ho scritto in precedenza.
E visto che la rete è un mezzo per far sapere le cose e mostrare ciò che non va, non reputo possibile che per avere I Segugi dell’Ombra di Erikson, abbia dovuto aspettare più di un mese. Armenia usa Messaggerie Libri per la distribuzione, il più importante distributore nazionale: possibile che in tutte le librerie Feltrinelli di Bologna non ci fossero copie di tale libro e che quando col tempo sono giunte, ne fosse presente solo una in un solo negozio? Ma questo è irrilevante, dato che il volume l’avevo prenotato i primi di marzo, ergo doveva essere consegnato il giorno di uscita prevista, al massimo il giorno dopo.
Un disguido che si è verificato altro volte sempre con Armenia e sempre con volumi di Erikson (per la prima parte di Venti di Morte ho aspettato due mesi): scritto alla casa editrice segnalando il fatto, non ho ottenuto risposta.
C’è qualcosa che non funziona in certi meccanismi e occorre risolvere. Vediamo se a parlarne in rete servirà a cambiare qualcosa.

Visto che si parla di mostrare le cose che non vanno, altra mancanza di rispetto da parte di Fanucci. Sul suo blog è comparso l’articolo della nuova edizione economica di La Ruota del Tempo di Robert Jordan. Per diverse volte ho postato un commento facendo le mie rimostranze sul loro modo di operare, commento che sempre non è stato pubblicato. Ecco quanto scritto, che spiega il motivo del mio malcontento
“Un plauso al gruppo di lettori che ha fatto il lavoro di correzione, ma si spera che nelle prossime produzioni non ci siano più decine di refusi ed errori di traduzione come è successo con quelle viste finora. I lettori, dato che pagano con denaro buono, meritano volumi altrettanto buoni, ben realizzati fin da subito.
Altra cosa da far notare, è che se un lettore manda una mail per avere informazioni, sarebbe cortesia e professionalità rispondere, come è successo a me in tutte le occasioni che ho avuto di scrivere. L’ultima in ordine di tempo che ho mandato, riguardava proprio la saga di Jordan, chiedendo se ci sarebbero state ristampe o nuove edizioni, dato che alcuni volumi erano di difficile reperibilità. Da poco sono riuscito a completarla, ma se Fanucci avesse risposto alla mail o comunque avvisato per tempo di questa nuova uscita, avrei potuto risparmiare non pochi euro; senza contare il dover pagare libri che contengono parecchi errori, il che rende la situazione ancora meno accettabile.
Il servizio che la casa editrice sta dando non è dei massimi livelli.”

Un pessimo modo di fare che dimostra come sono accettati solo elogi e consensi, mentre le critiche non vengono accettate, perché si deve dimostrare che non ci sono ombre, pecche, che va tutto bene e che il lavoro realizzato è il meglio ottenibile (modo di fare di cui parlerò nel post di venerdì).
Un pessimo modo di fare che mostra il rispetto per i lettori (vedasi anche la scelta delle copertine, dello stesso stile della saga Mistborn: veramente pessime).
Un pessimo modo di farsi pubblicità, dato che con la rete si possono far conoscere le cose che non vanno: Fanucci si deve ricordare che se ha la possibilità di esistere, è solo grazie ai lettori. Senza di loro non esisterebbe.

L'Ultimo Nemico

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Muffa. Polvere. Acqua stagnante.
Gli odori che lo facevano sentire a casa, che rendevano qualsiasi luogo il posto che lui battezzava come propria dimora.
Scivolando lungo il corridoio silenzioso, scese le scale, imboccando cunicoli sempre più stretti e sempre più pervasi da ombre, fino a quando non si mutarono in tenebre. Avvolto dal buio abbandonò il travestimento, lasciando che la pallida pelle si mutasse in squame nere e verdi e che le proprie cellule modificassero la struttura del corpo. Sentì le membra, le viscere cambiare; fu un sollievo tornare a essere se stesso, soprattutto non avere più a che fare con quelle maledette ghiandole sudorifere. Non riusciva a capire come gli umani potessero sopportare d’avere addosso umori così acri e disgustosi: puzzavano peggio delle bestie, nonostante coprissero le loro emanazioni con ogni tipo di profumo. Erano repellenti, loro e il loro maledetto mondo pieno di fumi di scappamento, ciminiere, spazzatura, vicoli stretti e palazzi ammassati dove il vento non poteva nemmeno passare e portare un po’ d’aria pulita. Per non parlare delle loro città claustrofobiche, così strette e pigiate che facevano mancare il respiro a ogni passo, così piene di luci abbaglianti e accecanti; se non fossero state un territorio di caccia così illimitato, sarebbero state da abbandonare all’istante.
Sibilando compiaciuto, si fece accarezzare e cullare dalla densa tenebra, gettando in un angolo lo zaino che conteneva i resti della sua vittima, i pezzi più prelibati portati a casa per essere consumati con calma.
La luce si accese, illuminando lo scantinato.
Strabuzzando gli occhi, il Camaleonte si guardò intorno con aria allarmata.
L’uomo si staccò dalla parete dell’interruttore, portandosi di fronte alla porta e bloccando l’unica via d’uscita.
«Di nuovo tu.» Sibilò il Camaleonte.
«Di nuovo io.» Confermò il Cacciatore.
Il Camaleonte spazzò nervosamente il pavimento con la coda. «Non hai nessun altro a cui dare la caccia?»
«Siamo gli ultimi delle rispettive specie: a parte te e me, non rimane nessun altro.» Il Cacciatore lo fissò con un’espressione indecifrabile.
«Impossibile.» Ribatté il Camaleonte.
Il Cacciatore sorrise di scherno. «Gli uomini non credono più nella magia, nei mostri. Con la loro scienza, il loro raziocinio, credono di poter spiegare ogni cosa. Se ci sono degli efferati omicidi, è stato sicuramente un serial killer, che classificano con tanto di profilo psicologico. Se spariscono dei bambini, il dito è da puntare sui pedofili che sono diventati più numerosi. Se un uomo entra in un supermercato e fa una strage, la causa è da ricercare nello stress o nella povertà che l’ha reso un disadattato.» Scosse il capo con amaro divertimento. «Sono divenuti degli esperti nel trovare ragioni per giustificare l’incomprensibile. E l’hanno fatto per sopprimere la paura. Quella paura che lo sconosciuto da sempre genera, che non li fa dormire la notte, che non li fa passeggiare tranquilli nei vicoli oscuri. Quella paura che li fa credere nei Mostri. Quella paura che gli fa sperare che esistano creature come i Cacciatori che li difendano e li salvino.» La bocca si storse in un sorriso crudele. «Uccidendo la paura e la speranza hanno ucciso anche noi, uno alla volta. E’ stato un processo lungo, ma alla fine ci sono riusciti e ci hanno tolto di mezzo.»
Il mostro sputò per terra. «Sono solo umani: sono le nostre prede, sono…»
«Sono la nostra fonte d’energia, sono i nostri creatori. I miti, le favole, le storie: sono stati loro a creare il Mondo Nascosto, a darne materializzazione. Un mondo dentro un mondo. Un mondo che è entrato a far parte della realtà e l’ha modificata.» Il Cacciatore si sporse in avanti, ammiccando. «Poi è giunta la tecnologia e la conoscenza si è diffusa, ha eliminato il mistero e con esso anche la paura: hanno ritenuto che tutto avesse giustificazione, tutto fosse spiegabile. Si sono dimenticati di noi e noi ci siamo indeboliti. Siamo divenuti come dinosauri, residui di un’epoca che non c’è più. Un’epoca che si è voluta dimenticare.»
«Come possono dimenticarci?» Sibilò il Camaleonte, le squame che fremevano di sdegno. «Siamo noi che li uccidiamo, noi che infestiamo le loro abitazioni, rendendo la loro vita un inferno.»
Il Cacciatore sbuffò. «Da quanto non vedono più uno di voi? L’ultimo è stato nei paesi del Nord, quando ci fu la caccia alla bestia che scorrazzava per le foreste, massacrando quanti vi si avventuravano: le forze dell’ordine dissero che si trattava di un grizzly reso pazzo dalla malattia, ma sappiamo entrambi che quello fu l’ultimo licantropo a essere abbattuto.» I suoi occhi si fecero duri come il ghiaccio. «Ora restiamo solo tu e io.»
Il mostro s’accucciò sulle zampe posteriori, pronto a scattare. «Cosa ti fa pensare che riuscirai a prendermi? Sono sempre riuscito a fuggire alle tue trappole: sarà così anche stavolta.»
Il Cacciatore scosse il capo, il sorriso sparito, lasciando sulle labbra un’espressione amara. «Non questa volta: questa volta è l’ultima.» Fece un passo avanti, trapassando il Camaleonte con uno sguardo privo d’emozioni. «Se sei riuscito a scappare finora, è perché io l’ho permesso, perché nelle trappole escogitate c’era sempre una via di fuga e facevo in modo che tu la trovassi. E’ solo per questo che sei ancora vivo.»
Il mostro dimenò la coda: disappunto, rabbia, perplessità. «Perché?»
«Perché tu completi me stesso: tu sei la mia ragione di vita. Inseguirti, darti la caccia, scoprire come ti adattavi a un nuovo ambiente, come ti mimetizzavi in esso: mi faceva sentire vivo, dava alla mia esistenza uno scopo. Sai cos’è peggiore del dolore, della paura?» L’ombra di un tremito passò sul volto del Cacciatore. «Essere consapevoli che la propria vita non serve a nulla, non ha alcun senso: è qualcosa capace di far impazzire.»
Il mostro smise di dimenare la coda. «Che ne è stato del codice di voi Cacciatori, del proteggere gli indifesi, gli innocenti? Non era questa la vostra ragione di vita?»
Il torace del Cacciatore fu scosso da una risata. «I Paladini si sono estinti, come tutti gli altri di noi, e con loro gli ideali di protezione e altruismo: dopo, non c’è più rimasto nulla di etico. Per un pezzo vi abbiamo dato la caccia per soldi, poi per semplice sopravvivenza perché siete sempre stati più numerosi di noi; ma poi anche le vostre fila si sono fatte più rade, la vostra presenza meno pericolosa. Vi abbiamo dato la caccia per divertimento, perché non sapevamo che altro fare, perché non volevamo integrarci in una società del genere e condurre un’esistenza piatta e priva di significato, fatta solo di routine, privati della sferzata vitale dell’adrenalina.» Sputò per terra con astio. «Perché mi devo preoccupare di gente a cui non importa nulla di me, che non sa nemmeno che esisto? Gente stupida e ignorante, che non s’accorge nemmeno della rovina che sta portando ovunque vada.» Scrollò le spalle. «L’unica cosa importante è avere una ragione per stare in questo mondo del cavolo, dare un senso alle giornate: cosa m’importa se qualcuno di loro fa una brutta fine per colpa tua? Avremo qualche bastardo di meno a spalare fango su questa terra e il pianeta sarà un luogo migliore per tutti.»
«E allora perché dici che questa volta sarà l’ultima, se il mio predare rende un favore al mondo?»
Una gran stanchezza calò sulle spalle del Cacciatore. «Sono vecchio, con il tempo sono diventato malato: il cancro si è mangiato il mio corpo un pezzo alla volta. Ancora pochi mesi e mi spegnerò in un letto d’ospedale, come uno qualsiasi di loro: uno dei tanti che non è più nemmeno in grado d’andare in bagno, costretto a farsela nelle mutande e a sguazzare nei propri escrementi fino a quando qualcuno non lo cambia. Uno dei tanti obbligato a morire da solo, dimenticato da tutti. Uno dei tanti da aggiungere alla lista dei necrologi. La mia morte è prossima, inevitabile: per questo è ora che il cerchio si chiuda, che il predatore elimini la sua preda.» Le labbra si arricciarono in un magro sorriso. «Non mi va di vedere la mia vita che si spegne senza un significato: voglio che la mia morte abbia un senso, che avvenga facendo quello che ho fatto per tutta la vita. E dato che all’inferno ci debbo andare, voglio essere io a decidere su quale treno andarci.»
Gli occhi del Camaleonte si socchiusero in due nere fessure. «Io non ho intenzione di morire.»
«Ma tu morirai, come qualsiasi altra creatura.» Ribatté mellifluo il Cacciatore. «E se fossi costretto ad affrontare la morte in solitudine, scopriresti quale spaventoso abisso è la consapevolezza di morire senza avere nessuno al fianco che si ricorda di te e sa chi sei.» Strinse i pugni. «Stai venendo trattato con dignità, avendo il rispetto che nessun umano mai ti darà: il rispetto di chi ti considera come un suo pari.» Le mani cominciarono a brillare di Potere. «Il nostro tempo è finito.»
Il Camaleonte si gettò in avanti, gli artigli protesi.
Il lampo brillò, l’aria pervasa dall’odore di carne bruciata.
Il Cacciatore fissò gli occhi del Camaleonte spegnersi, divenendo due pezzi di materia inanimata. Lasciò che il corpo s’accasciasse sul pavimento, fissando lo squarcio che il Potere aveva aperto nel petto: era morto all’istante, senza soffrire.
Con un sospiro, si lasciò scivolare al suo fianco, chinando il capo a fissare il proprio ventre sanguinante, lacerato dagli artigli: sarebbe stata questione di minuti, poi la morte sarebbe giunta anche per lui e sarebbe andato a raggiungere quanti l’avevano preceduto. Il cerchio era chiuso, un’epoca finiva e con essa tutto quello che era stato e aveva rappresentato.
Mentre la vista si offuscava, per l’ultima volta posò lo sguardo sul Camaleonte, il suo mondo, la sua ragione d’essere. “Ci siamo combattuti, abbiamo lottato su fronti opposti, ma non abbiamo capito che il vero nemico è il mondo, la società là fuori.” Chiuse gli occhi e si lasciò andare contro la parete, traendo l’ultimo respiro. “L’ultimo nemico, l’unico vero nemico che dovevamo battere e che non siamo riusciti a sconfiggere.”