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Il viaggio dell'assassino

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Il viaggio dell'assassinoIl viaggio dell’assassino conclude la prima trilogia realizzata da Robin Hobb. Grazie a Umbra e Burrich, Fitz è sopravvissuto alle torture di Regal; ritenuto da tutti morto, sta riprendendosi dalle ferite subite e dato che ha ormai perso tutto, ha solo in mente una cosa: vendicarsi e uccidere Regal. Dopo uno scontro con dei Forgiati che fa credere a Umbra e Burrich che è morto per davvero, con il suo lupo Occhi-di-notte parte per attuare il piano omicida. Durante il viaggio incontra altre persone che come lui utilizzano lo Spirito, disposte a insegnargli come usarlo, ma lui ha in mente solo una cosa; dopo aver fallito per ben due volte l’assassinio di Regal, che continua a rovinare i Ducati col suo malgoverno, aiutato da Stornella, una cantastorie, e Ciottola, una vecchia misteriosa, Fitz, ferito, trova rifugio nel regno delle Montagne.
Soccorso e riconosciuto dal Matto e da Kettricken, si ritrova costretto a unirsi alla missione di ritrovare Veritas, che lui sa essere ancora vivo grazie all’uso dell’Arte, altrimenti Umbra prenderà la piccola Urtica, la figlia che ha avuto con Molly e che ora vive sotto la protezione di Burrych, e la farà passare come figlia di Kettricken ed erede al trono per spodestare Regal.
Il viaggio è insidioso e il piccolo gruppo formato da Fitz, Matto, Kettricken, Stornella e Ciottola, troverà il percorso seguito da Veritas: una strada dell’Arte che li condurrà in un’antica città in rovina dove un tempo uomini, antichi e draghi vivevano insieme. Lì troveranno anche i famosi draghi, ma non sono che statue, anche se con lo Spirito Fitz sente che sono ancora vivi.
In una cava a poca distanza da essi troveranno un esausto e quasi irriconoscibile Veritas, impegnato a scolpire un drago, dopo aver immerso le braccia in un fiume dell’Arte ed essere carico di potere. Come apprenderanno, i draghi sono creature create da chi utilizza l’Arte, che prendono vita quando chi le ha plasmate da una particolare roccia presente nella cava infonde tutto se stesso in esse; l’impresa di Veritas sembra impossibile, dato che solo una Confraternita (più persone che usano l’arte) può dare vita a un drago. Tuttavia, grazie a Fitz che è il Catalizzatore, tutto diventa possibile: Fitz risveglia il potere dell’Arte di Ciottola (il cui vero nome è Nottola, facente parte di una Confraternita vissuta più di duecento anni prima) e insieme lei e Veritas possono completare il drago.
Ma anche Regal è alla ricerca della cava dei draghi: grazie ai libri e alle pergamene che il fratellastro aveva rubato quando insegnava l’Arte a Castelcervo, il fraudolento regnante ha creato nuove Confraternite e ora vuole dare vita al suo esercito di draghi.
Veritas e Nottola riescono ad animare il loro drago prima che i servitori di Regal arrivino, permettendo così a Kettricken e Stornella di tornare a Castelcervo e fermare le Navi Rosse.
Fitz però non va con loro, dato che non ha più nulla per cui tornare: grazie all’Arte ha scoperto che Molly e Burrich si amano e stanno per sposarsi, così decide di andarsene lontano, ma non ci riesce, visto che i soldati di Regal arrivano. Deciso a uccidere Fermo e quanti più servitori di Regal, Fitz finalmente riesce a capire come risvegliare i draghi addormentati: sangue e Spirito. Gli uomini di Regal sono consumati del tutto, non rimane nulla di loro e i draghi, guidati dal Matto, volano a Castelcervo per aiutare il drago di Veritas nella lotta contro i pirati.
Fitz, con un Fermo ormai morente, grazie all’Arte entra nella sua mente e raggiunge così Regal, facendogli la stessa cosa che sua padre aveva fatto al fratellastro: instilla nella sua mente una fedeltà incondizionata alla regina Kettricken e ai suoi servitori. Regal porta il suo esercito in aiuto contro i pirati e giura di essere fedele a Kettricken e al figlio di Veritas che porta in grembo; qualche tempo dopo verrà trovato morto nel suo letto, dilaniato da una belva feroce. Qualcuno sussurra che ci sia lo zampino di Umbra, che ora non vive più nell’ombra.
Il regno è salvo, i pirati sconfitti, ma Fitz non torna più nel suo regno: viaggia per anni col suo lupo, ritirandosi poi in un luogo isolato dove vive con un ragazzo che gli ha portato Stornella.
Dopo un inizio non esaltante (vedere Fitz che prova in ogni modo a uccidere Regal e a subirne sempre la caccia dopo un po’ stanca), Il viaggio dell’assassino si riprende (e pure molto) quando comincia il viaggio per ritrovare Veritas: scoprire come nascono i draghi, da dove viene la Forgiatura, dà un tocco in più al romanzo, concludendo degnamente questa prima trilogia della Hobb.

Moonfall

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MoonfallMoonfall è uno di quei film che si guardano con curiosità per vedere i bassi livelli che un certo cinema ha raggiunto per far andare la gente al cinema. Si è di fronte al genere fantascientifico/catastrofico/apocalittico in stile Armageddon – Giudizio finale, con la differenza che questa volta è la Luna che sta per cadere sulla Terra e non un meteorite e che come film Moonfall è meno divertente (sì, perché per quanto il film con protagonsita Brucis Willis fosse un’americanata, il suo lo faceva: sapeva intrattenere e divertire, merito del gruppo sgangherato di trivellatori che diventano astronauti per salvare il pianeta, cosa che Moonfall invece non fa).
L’unico che capisce che qualcosa non va è l’astronauta Brian Harper, quando riporta che la missione di cui faceva parte è stata attaccata da una strana nube proviente dalla Luna. Nessuno gli crede (l’astronauta che era con lui è morto e la navigatrice che era a bordo dello shuttle era priva di sensi per un trauma); dieci anni dopo l’incidente, solo un gruppo sgangherato di cospirazionisti guidati da K.C. Houseman (interpretato da John Bradley-West, conosciuto soprattutto per il ruolo di Samwell Tarly nella serie Il Trono di Spade) credono che quanto accaduto non fosse dovuto a un errore umano, ma che il governo celi una verità scomoda. E infatti hanno ragione: il governo sapeva già da quando era stato messo piede sulla Luna che c’era qualcosa che non andava.
Si scopre così che la Luna è una megastruttura di origine aliena che orbita intorno alla Terra da milioni di anni, da prima che ci fosse vita sul pianeta; l’essere umano è stato creato dagli alieni, che altro non erano che altri esseri umani vissuti in un’altra galassia, talmente evoluti che erano capaci di creare la vita e di vivere nella prosperità assoluta, dato che ogni guerra e disuguaglianza sociale era stata eliminata. Purtroppo, crearono un’intelligenza artificiale che a un certo punto prese autocoscienza, li vide come una minaccia e li eliminò dal primo all’ultimo (ricorda lievemente Terminator); sapendo la fine cui andavano incontro, crearono delle gignatesche arche e le mandarono alla ricerca di pianeti adatti alla vita; sfortunatamente furono distrutte tutte (l’IA ricerca e insegue ogni forma di vita umana) tranne la Luna, l’unica che non aveva umani a bordi, che raggiunse la Terra e v’impiantò il codice genetico, permettendo così alla vita e all’uomo di svilupparsi. Sfortunatamente (le sfighe non si fermano mai), l’IA si è infiltrata dentro la Luna e sta minacciando il suo nucleo energetico per far si che precipiti sulla Terra, eliminando così ogni minaccia.
Harper, Houseman e Fowler (la navigatrice che era con Harper al momento dell’incidente), mentre la Terra sta subendo inondazioni, terremoti, modifica della gravità, mancanza di ossigeno, follia umana e deficienza di governo (gli americani vogliono fermare la caduta della Luna lanciandole contro l’atomica, come spesso succede in questi film), partono con uno Shuttle e raggiungono la megastruttura dove veranno aiutati dal programma che la gestisce per eliminare l’IA. Uno dei tre si sacrificherà, salvando il mondo e permettendo agli altri due di ritornare dalle loro famiglie disastrate e riconcigliarsi.
Roland Emmerich non è nuovo a film con alieni che influenzano la Terra o la vogliono dominare o distruggere (basta pensare a Indipendence Day e Stargate) o ci sono castrofi (The day after tomorrow – L’alba del giorno dopo), ma nelle pellicole precedenti la trama funzionava e c’era un certo fascino (Stargate), con Moonfall le cose non funzionano, si trascinano stancamente fino alla fine, e non importa avere attori come Halle Berry e Donald Sutherland nel cast.

Summer wars

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Summer warsSummer wars è probabilmente l’opera più “leggera” di Mamoru Hosoda, un misto tra vicende familiare e mondi informatici. Il giovane Kenji Koiso lavora per Oz, un mondo virtuale dove si può fare quasi di tutto; è anche un genio della matematica, con relativi problemi di socializzazione. Durante le vacanze estive gli capita di dover dare una mano a Natsuki Shinohara, la ragazza più popolare e carina della scuola. Il suo compito però non è solo quella di accompagnarla e aiutarla nei preparativi per il compleanno della nonna novantenne, ma anche spacciarsi per il suo fidanzato. Si ritroverà inevitabilmente coinvolto in una situazione imbarazzante, costretto a fingere per tutto il tempo davanti alla numerosa famiglia, dove sono tutti un po’ strani ma amichevoli, tranne uno zio, Wabisuke Jinnouchi, che non è in buoni rapporti con nessuno dei parenti, tranne Natsuki, visto che la ragazza ha per lui fin da piccola una cotta.
Tutto sembra procedere normalmente, fino a quando la notte Kenji risolve una missiva matematica inviata a quanto pare da Oz: la mattina si scopre che il mondo virtuale è stato violato e tutti i sistemi a esso legati sono saltati e lui pare essere il colpevole. La nonna di Natzuki si rivela però piena di risorse e contatta telefonicamente perone in punti strategici che aiutano ad arginare la situazione.
Si scopre che non è colpa di Kenji quanto avvenuto, ma di Love Machine, un’intelligenza artificiale in costante evoluzione che è stata creata da Wabisuke Jinnouchi. Grazie alle doti matematiche di Kanji, la falla nel sistema viene tamponata, ma Love Machine non è ancora sconfitta. Purtroppo, vista l’età e i problemi cardiaci, la nonna muore (dato l’attacco hacker il sistema che la monitorava era saltato); Kenji assieme alla famiglia di Natsuki decidono di distruggere Love Machine. I parenti di Natsuki sono pieni di risorse e mettono insieme un modo per sconfiggere l’intelligenza artificiale; purtroppo il piano fallisce perché uno dei parenti toglie i blocchi di ghiaccio dalla stanza dove è stato installato il server per attuare il piano per metterli nella stanza dove giace il corpo della nonna. Love Machine diventa ancora più forte e devia una sonda che sta per tornare sulla terra indirizzandola contro una centrale nucleare.
La situazione sembra disperata, ma c’è ancora una possibilità: Love Machine non resiste alle sfide e accetta di giocare a koi koi (gioco di carte giapponesi) contro Natzuki. Il piano di Kenji è di riprendersi i milioni di account rubati da Love Machine, tra i quali c’è anche quello dei gps che guidano la sonda; l’idea è un successo e l’intelligenza artificiale è sconfitta. Il satellite cade vicino casa loro, ma nessuno si fa male. Lo zio si ravvede, viene accolto di nuovo in famiglia, tutti festeggiano, Natzuchi bacia Kenji e tutto è bene quel che finisce bene.
Summer wars diverte, fa bene il suo dovere d’intrattenimento e fa porre alcune domande sulla possibile pericolosità delle intelligenze artificiali ma non va in profondità più di tanto. Un film per passare un paio d’ore circa divertenti.

Un altro anno che se ne va

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un altro anno che se ne va

L’anno che se ne va è stato un anno di violenza. Donne uccise come mosche (femminicio è stata scelto per questo come parola dell’anno), fronti di guerra che non fanno che crescere (non bastavano l’Ucraina e i tanti conflitti non menzionati nei tg in Africa, ma ci si doveva aggiungere quelli tra Israele e Palestina, senza contare quello possibile nel Mar Rosso) e la crescente voglia di violenza che certe nazioni hanno (Iran su tutti, un paese guidato dal fanatismo, dove si ammazzano le donne solo per un velo mal posizionato e chiunque sia sospettato di spionaggio).
Un anno dove la politica continua a non fare nulla per il paese e la popolazione, ma si esalta e si elogia per cose che non ha compiuto, prendendo in giro le persone ritenendo che gli si possa far credere tutto quello che si vuole.
Un anno come tanti, si potrebbe dire, dato che è un continuo ripetersi di cose già viste, solo che pare che dopo la pandemia la gente si sia impegnata a dare il peggio di sè e non a tirare fuori il meglio che ha.
Un anno che verrebbe da dire sarebbe meglio dimenticare. Ma sarebbe un errore, perché a furia di dimenticare, soprattutto voler dimenticare, quello che di sbagliato si è fatto si ripeterà negli anni futuri. Per questo occorre fissarsi bene nella mente questi sbagli, questi orrori e tenerli ben vivi per far sì che non si ripresentino: solo così si potranno avere dei migliori anni a venire.

 

P.s.: qualcosa per riflettere: https://www.fanpage.it/esteri/il-2024-non-e-ancora-iniziato-e-gia-assomiglia-a-un-incubo-orwelliano/

La ragazza che saltava nel tempo

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La ragazza che saltava nel tempoLa ragazza che saltava nel tempo è il primo film diretto da Mamoru Hosoda e c’è da dire che la sua è stata una buona prova, seppur ci siano dei punti in cui ci si fanno delle domande.
Ma andiamo con ordine.
Makoto è una ragazza delle superiori come tante, allegra, spensierata, alle volte un po’ distratta, che combina qualche pasticcio e non va tanto bene a scuola; passa le sue giornate assieme ai suoi compagni di classe e amici Chiaki e Kosuke andando in giro in bici e giocando a baseball.
Un giorno ha un piccolo incidente nel laboratorio di scienze, a cui non dà alcuna importanza. Mentre torna a casa da scuola, i freni della sua bici si rompono e non riesce a fermarsi al passaggio a livello del treno, venendo sbalzata sui binari e travolta; la sua sembrerebbe una morte certa, ma lei si ritrova invece ancora viva, ancora sulla strada che porta al passaggio a livello. Ne parla con la zia e lei le spiega che forse ha saltato nel tempo, una cosa che anche a lei era successa in passato; Makoto pensa che la stia prendendo in giro, ma scopre che saltando può davvero tornare indietro nel tempo e da allora in poi comincia a usare lo strano potere per mettere a posto tutto ciò che non le va. Per lo più si tratta di sciocchezze, anche se la zia la ammonisce che così facendo, ciò che per lei è un bene, per un altro può rivelarsi un male (scambiandosi di posto con un compagno di classe nella lezione di cucina evita di fare un piccolo incidente, che lo farà accadere invece il compagno, e tutto sembra finire lì, se non fosse poi che il compagno viene preso in giro e bullizzato e lui, reagendo, finisce per ferire una sua amica).
Makoto però non la ascolta e continua a fare di testa sua, fino a quando prima uno, poi l’altro dei suoi amici, le chiedono di uscire con lei; non volendo che il loro rapporto cambi, sfuggendo a sentimenti e responsabilità, usa il suo potere in modo che tutto ciò non accada. Tuttavia, si accorge che sul braccio ora ha tatuato un numero, che cambia ogni volta che fa un salto nel tempo; quando il conteggio è a uno, lei lo utilizza per evitare che Chiaki le faccia una domanda e con orrore si accorge che non può salvare Kosuke e la sua ragazza dallo stesso incidente in cui lei sarebbe morta se non fosse stato per il suo potere.
In quel momento il tempo si ferma e compare Chiaki, a sua volta anche lui capace di saltare nel tempo, che ha utilizzato la sua ultima carica; come rivelerà a Makoto, lui viene da un’epoca futura e può fare salti nel tempo grazie a un particolare congegno (che Makoto ha toccato quando ha avuto l’incidente nel laboratorio di scienze). Il suo scopo è trovare un particolare dipinto (che la zia di Makoto sta restaurando), ma avendo finito le cariche, ora non può più tornare nel suo tempo; inoltre, rivelando il segreto di ciò a Makoto, scomparirà.
Makoto è disperata, accorgendosi solo ora di essersi innamorata di Chiaki, ma mentre è a casa scopre che ha ancora una carica (il salto di Chiaki ha annullato il suo ultimo salto) e così può effettuarlo per tornare indietro nel tempo e parlare un’ultima volta con Chiaki prima che torni nel futuro; lei, che non sapeva cosa fare da grande, s’impegnerà a continuare il lavoro della zia e fare sì che il dipinto arrivi fino all’epoca di Chiaki. Lui, prima di andarsene, le dirà che l’aspetterà nel futuro.
Quello di La ragazza che saltava nel tempo è un finale dolceamaro, con Makoto che finalmente accetta le responsabilità e sa che strada prendere per il futuro, ma che probabilmente non potrà mai più rivedere il suo amore (non si sa quanto è lontana l’epoca da cui viene Chiaki); rimane comunque un buon finale e la storia è ben diretta, anche se non si sa come funziona il meccanismo di viaggio nel tempo e neppure come Makoto fa a utilizzarlo così bene. Senza contare che non si sa perché il dipinto che ricerca Chiaki è così importante da richiedere così tanti sforzi (si capisce che Chiaki ha viaggiato a lungo e in diverse epoche).
Questi punti sono oscuri probabilmente perché occorrerebbe avere letto Toki o Kakeru Shōjo di Yasutaka Tsutsu, da cui Hosoda prende ispirazione (il che serve ancora di più a capire come perché l’elemento fantascientifico è asservito alle storie dei protagonisti); la lettura del romanzo inoltre fa capire meglio il personaggio della zia di Makoto, visto che lei ne è la protagonista, e che in La ragazza che saltava nel tempo funge da anello di congiunzione tra le due opere (se si vuole approfondire di più la cosa, suggerisco la lettura di questo articolo).
Tuttavia, pure senza la lettura del romanzo e con i suoi punti oscuri, La ragazza che saltava nel tempo è un film godibile, che raggiunge il suo scopo.

Mirai

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MiraiMirai, pellicola d’animazione del 2018 diretta da Mamoru Hosoda, è una storia di crescita, raccontata attraverso l’esperienza un po’ particolare di Kun, un bambino di quattro anni un po’ viziato, e di come la sua vita cambia con l’arrivo della sorellina Mirai (che in giapponese significa Futuro: una scelta non certo casuale, visto come si svolgeranno le vicende).
Dapprima entusiasta, il piccolo Kun vedendo tutte le attenzioni dei genitori rivolte alla nuova arrivata, si sente geloso, tradito e abbandonato, convinto che il papà e la mamma vogliano più bene a Mirai che a lui. Dopo l’ennesima volta in cui si sente messo da parte, corre in giardino, sotto l’albero cui la casa è stata un po’ particolarmente costruita attorno, e in quel momento accade qualcosa di strano che non capisce; dopo quel fatto compare uno strano uomo con baffetti che si fa chiamare Principe; oltre ai baffetti ha anche una coda, che presto Kun ruberà e farà sua. In breve scoprirà che Principe altro non è che il suo cane Yukko, che gli rivelerà che lui ha provato proprio quello che sta passando lui, dato che con la nascita di Kun è stato messo da parte e ha ricevuto meno attenzioni.
Ma le sorprese non sono finite qui: quando il padre si dimentica di mettere a posto le bambole dell’Hinamatsuri (festa delle bambine che cade il 3 marzo: seconda la credenza, i genitori, pregando, passano la sfortuna alle bambole, proteggendo così le loro figlie dalla malasorte), compare una ragazza che gli spiega di essere la Mirai del futuro (questo sempre dopo che Kun è andato nel giardino) e che deve aiutarla a mettere via le bambole altrimenti non si sposerà (sempre secondo tradizione, se le bambole non vengono riposte il giorno dopo la fine della festa, la ragazza sarà costretta ad aspettare un anno per sposarsi); aiutati da Principe/Yukko, e non senza peripezie per non farsi scoprire dal padre intento a lavorare in casa, riusciranno nell’impresa.
Dopo l’ennesimo capriccio fatto con la madre per avere una bicicletta, Kun corre in giardino e viene trasportato in un altro luogo, dove incontra una bambina che riconosce essere sua madre da piccola (ha visto una sua foto in precedenza); andrà a casa sua e scopre che anche a lei è stato negato di avere qualcosa (la nonna non gli ha preso un gatto per via dell’allergia). Insieme metteranno a soqquadro la casa, salvo poi sentire il forte rimprovero della nonna per la confusione creata.
Un nuovo incontro avviene quando Kun s’arrabbia perché il padre, preso dall’occuparsi della piccola Mirai, non l’ha aiutato a imparare ad andare in bici senza rotelle: sbalzato dal giardino a un hangar di motori di aeroplani, incontra un uomo che pensa essere il padre (mentre invece si tratta del suo bisnonno) che gli dice che c’è una prima volta per tutto e facendolo andare a cavallo e in moto gli fa vincere la paura di provare. Il giorno dopo l’esperienza, Kun chiede di andare al parco e riprovare a imparare ad andare in bici; dopo diversi tentativi, ci riuscirà.
L’ultima esperienza Kun l’ha quando litiga con la madre perché vuole un paio di pantaloncini diversi e si rifiuta di partire con loro per le vacanze; appena mette piede in giardino, sente la voce di un ragazzo (lui fra qualche anno) che lo redarguisce, ritrovandosi all’improvviso a una fermata di treno dove chi gli ha rivolto la parola gli spiega che sta sbagliando, ammonendolo di non salire sul treno. Ma Kun non lo ascolta e si ritrova nella grande stazione dei treni di Tokyo, perdendosi; si rivolge allo strano uomo degli oggetti smarriti, ma non conoscendo il nome di nessun parente, rischia di finire sul treno che conduce nella Terra dei Bambini Soli. E rischia di finirci anche la piccola Mirai, comparsa all’improvviso; ma Kun riesce a salvarla e a dire che è suo fratello. A quel punto l’addetto agli oggetti smarriti chiama Mirai e al posto della neonata compare la sorella adolescente che viene dal futuro, che lo riporta a casa. Mentre stanno volando verso casa, dirigendosi all’albero del giardino, Mirai gli spiega che quello è il grande albero della storia della loro famiglia, dove sono raccolti i capitoli (passati, presenti e futuri) dei suoi appartenenti; adesso devono trovare il capitolo esatto in cui Kun deve rientrare.
Kun scopre eventi che riguardano il padre (le sue difficoltà da piccolo a imparare ad andare in bici), la madre (che non volle più un gatto dopo che uno di loro uccise una rondine), il bisnonno (ferito gravemente durante la Seconda Guerra Mondiale, che decise di voler vivere a tutti i costi e così poter sposare la bisnonna) e il suo cane (che da cucciolo lasciò la madre per andare a vivere con i genitori di Kun) e capirà che senza di essi lui e la sorella non avrebbero potuto esistere.
Ritornato nel suo tempo, andrà in vacanza con la sua famiglia.
Mirai è un bel film, senza però essere eccezionale; certe scene sono divertenti, altre toccanti, il tutto con un protagonista che alterna tra l’essere dolce e l’essere irritante, come spesso fanno i bambini della sua età. Una pellicola che lascia qualcosa di buono alla fine e per questo occorre fare un plauso a Mamoru Hosoda.

Il vento fa il suo giro

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«Eddaiiiii! Su, schiva! Più veloce, più veloce!»
Tac, tac, tac.
«Noooooo, non così…»
Tac, tac, tac, tactactactac.
«Colpisci! Colpisciiiii!»
Tactactactactactactactactac. Aritactactactactactactactac.
«Avanti, rincoglionito d’uno Steiner! Dagli il colpo finale! Massacra il mostraccio, bastardo d’un cavaliere! Fagliela vedere a questo cazzone di boss! Massacralo! Massacralooooo!»
Tactactactactac.. tactactac… tac…tac…
Matteo abbassò il gamepad, osservando con espressione sconvolta le immagini sullo schermo della televisione che non si muovevano più.
«Macchecca… nooooo… non adesso che sono al boss finale… nooooo, non ti bloccare porca puttana, non ti blocc…»
«Non ci siamo bloccati, ci siamo stufati!» Sbottò il cavaliere sullo schermo voltandosi verso di lui. «E per dovere di cronaca, non sono Steiner: lui è di Final Fantasy IX, un altro gioco! Io sono l’ultimo dei cavalieri Valoriani!»
«Come?» domandò allibito Matteo.
«Final Fantasy IX, il gioco che ti ha prestato tuo padre quando gli hai chiesto com’erano i videogiochi ai suoi tempi» gli spiegò seccato il cavaliere sullo schermo.
«Ah, quello. Mamma quant’era noioso… e poi con quella grafica… troppo vecchio» sbuffò Matteo.
«Un po’ di rispetto!» tuonò il cavaliere. «Se noi siamo qui, è proprio grazie a giochi come Final Fantasy IX! Non scordarlo mai!»
«Oh no, un altro che fa il pippone…» bofonchiò Matteo.
«Non borbottare! E usa un po’ d’educazione!» il cavaliere piantò la spada nel terreno. «Il problema con voi bambini e ragazzi di oggi è che non sapete più apprezzare le storie! Volete spaccare tutto, far esplodere ogni cosa! Colpisci di qua, spara di là, fai saltare in aria questo, massacra quell’altro! E insomma!»
«Ma…» fece sbigottito Matteo. «Ma è quello che fai tu!»
«Il copione. Sono esigenze di copione: è quello che debbo fare quando tu ti metti alla console e giochi all’avventura dove sono stato messo.» Spiegò con calma il cavaliere. «Pensi che mi diverta a colpire a destra e a manca? A fare sempre le solite mosse? A dovermi sempre scontrare con lui?» Indicò il suo avversario. «A sentirti infamarlo tutte le volte?»
Matteo sgranò gli occhi. «Ma lo faccio perché sono dalla tua parte!»
«Beh, questo non mi piace. Non ti sei mai messo nei suoi panni? Ti farebbe piacere essere insultato? Trattato come tu tratti lui?»
«Lui è il cattivo!» protestò Matteo.
«Per forza: era l’unico ruolo rimasto» intervenne il boss finale. «Nessuno ci tiene a essere il cattivo del gioco: infamato, odiato… nessuno sta mai dalla tua parte. E poi ti tocca fare sempre le cose sbagliate, portare rovina, distruzione… Morti di qua, morti di là… il tutto perché voi ragazzini vi divertite a vedere queste cose. Pace e tranquillità davvero non vi devono piacere. Non le sapete apprezzare. E tutto perché vi annoiate e cercate un modo per passare il tempo.»
«Scusami, ma che cosa dovremmo fare per divertirci?»
«Vediamo… ci sono tante cose da fare. Io per esempio quando non devo essere il cattivo mi piace coltivare il mio orticello: ti rimette in pace col mondo.»
«A me invece piace starmene seduto sotto gli alberi a dipingere nuvole» disse il cavaliere Valoriano.
«Eccheppallle…» Matteo si bloccò quando il cavaliere lo guardò in cagnesco. Si schiarì la voce prima di riprendere a parlare. «Quindi… a voi non piace quello che fate nel videogioco?»
Il boss finale fece spallucce. «Si tratta di un ruolo come un altro. Quindi, va bene così. Quello che non ci sta bene è come veniamo trattati. Sai quanti cinni come te dobbiamo sopportare? Migliaia e migliaia! Scenate, urla, sedie prese a calci, anche bestemmie ci tocca sentire! E tutto perché avete perso una partita a un videogioco! Una partita che potete rigiocare in qualsiasi momento, tutte le volte che volete, perché tanto avete i salvataggi.»
«Sai com’è, la foga del momento…» provò a spiegare Matteo.
«Tutto quello che vogliamo è più di rispetto ed educazione» continuò il boss finale. «Più apprezzamento per la professionalità che ci mettiamo nell’interpretare il ruolo che ci è stato dato, anche se non ci piace.»
«Visto che tutto ciò viene a mancare, e non sembra esserci un qualche cambiamento nell’immediato, noi pg ci siamo stufati e abbiamo deciso di scioperare.»
«Voi volete fare cosa?» scattò esterrefatto Matteo.
«Scioperare. Sissignore. E non uno scioperino di qualche ora, come a qualcuno potrebbe passare per la testa: uno sciopero a oltranza, fino a quando voi cinni non avrete imparato educazione e rispetto. Non era nelle nostre intenzioni, né nei nostri compiti, ma visto che né la scuola né la famiglia ve le insegnano, è ora che qualcuno lo faccia. Per dovere d’informazione, tutti i personaggi di tutti videogiochi sono d’accordo e aderiscono allo sciopero.»
«Ma…»
«Puoi accettare o non accettare la nostra decisione, ma le cose così stanno.»
Matteo fece per protestare, ma il boss finale e il cavaliere Valoriano gli diedero le spalle, si misero le armi in spalla e s’incamminarono insieme, andando sempre più lontano fino a scomparire.
Matteo rimase a bocca aperta a fissare il paesaggio vuoto dello schermo. Per un attimo pensò a uno scherzo, ma i minuti passavano e i due non ricomparivano. Dopo mezz’ora spense la console e cambiò cd, ma la situazione era la stessa: partiva il gioco ma c’era soltanto il paesaggio. Nessuna traccia dei personaggi. Così per tutti i videogiochi che aveva. Ed era la stessa cosa per quelli online, che non necessitavano di una console.

Le cose non migliorarono nei giorni successivi e gli scenari continuarono a essere vuoti: i personaggi dei videogiochi erano stati di parola e avevano davvero deciso di scioperare. Dopo la sorpresa iniziale, Matteo si era dapprima innervosito, poi aveva preso a sclerare: proprio sul più bello doveva capitare! Come avrebbe fatto a sapere come finiva il gioco?
Aveva preso a calci le sedie, aveva girato per la stanza come se avesse del peperoncino nel sedere, ma poi, piano piano, aveva cominciato a cercare di trovare una soluzione. Aveva acceso la console e si era messo a fare promesse di ogni genere: che non avrebbe più insultato, che si sarebbe comportato bene. Si era messo anche in ginocchio supplicandoli di tornare.
Ma dopo un paio di giorni di questa storia si era sentito un po’ pirla a fare così e si era rassegnato al fatto che per non si sa quanto i personaggi dei videogiochi non si sarebbero fatti vedere.
A scuola poi le cose non andavano meglio, senza contare che anche gli altri erano nella stessa condizione e se ne stavano tutti imbronciati a fissare gli smartphone. Gli intervalli i cambio d’ora erano un supplizio perché non poteva più fare le sue partitine veloci in rete. Certo, c’erano i social, ma non potendo raccontare delle sue videogiocate, non sapeva di cosa parlare. Rimanevano i video su TikTok, ma poter mettere solamente dei “Mi piace” alla lunga stancava.
«Uffa, che palle questi giochi che non funzionano più» gli scappò un giorno durante l’intervallo.
«Bro, possiamo provare a fare una partita a carte» gli suggerì Riccardo, il suo vicino di banco, tirandole fuori. «Mio nonno mi ha insegnato alcuni giochi.»
«Non saprei, non ci ho mai giocato…» disse poco convinto Matteo.
«Non sono male. E poi, è sempre meglio di stare qui a non fare niente.»
Matteo dovette ammettere che giocare a carte non era davvero poi così male, anzi, era divertente. Soprattutto quando a lui e Riccardo si erano uniti Andrea e Alessandro e avevano fatto una partita a briscola in quattro. Però la cosa non si era fermata lì: Andrea aveva suggerito nel pomeriggio di andare al parco a giocare a calcio, anche se non lo avevano mai fatto prima. Non doveva essere una cosa così difficile, date tutte le partite che avevano fatto sulla Play. Matteo non poté che convenire: il principio era sempre quello che vedevano fare con la console, che ci voleva a calciare un pallone e rifare le stesse azioni?
La realtà però fu un pochino differente. Anzi, più che un pochino fu totalmente differente. I tiri, le azioni che facevano con la Play non erano assolutamente paragonabili e quelle che facevano loro; la palla non andava mai dove volevano, gli stop e i dribbling erano una cosa da Gialappa’s. Ma alla fine della loro partitella (un parolone definire così un due contro due) si erano divertiti come dei matti (era stato più il tempo che passavano a ridere e a sghignazzare per gli sbagli che facevano che a giocare).
Il giorno dopo si misero d’accordo per andare a fare due tiri a canestro nel campetto vicino alla scuola e per quello dopo ancora sarebbero andati a provare il tavolo da ping pong che il padre di Alessandro aveva tirato fuori dalla cantina mentre la svuotava.
Nel giro di un paio di settimane si erano praticamente dimenticati dei videogiochi, occupati com’erano a fare altro.

Il vento fa il suo giroSeduti sotto l’albero sopra la collina, il cavaliere Valoriano e il boss finale si godevano il tramonto.
«Abbiamo agito bene» disse il cavaliere.
«Già» rispose il boss.
«Ora i ragazzi hanno ripreso a interagire e a socializzare tra loro.»
«Vero.»
«Si guardano di più in faccia e passano meno tempo con gli occhi attaccati ai vari schermi.»
«Infatti.»
«Tutto è bene quel che finisce bene.»
«Quasi.»
«Perché?»
«Ora siamo senza lavoro.»
«È vero. Sinceramente, a questo non avevo pensato.»
«Adesso cosa facciamo?»
«Potremmo entrare nel settore degli antivirus: lì il lavoro non manca mai.»
«Non è che come lavoro mi prenda molto.»
Il cavaliere scrollò le spalle. «A essere franchi, non mi darei pena più di tanto.»
«Perché?»
«Il vento fa il suo giro e cose che adesso non vanno più, un tempo torneranno a essere in auge. I vecchi giochi prima non li fumava quasi più nessuno, ma ora sono tornati di moda. Presto o tardi, saremo noi videogiochi a tornare sulla cresta dell’onda. In attesa di ciò, godiamoci questo bel paesaggio.»

(Il titolo e la citazione nel finale vogliono essere un omaggio al film di Giorgio Diritti del 2006).

La forma della voce

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La forma della voceLa forma della voce è davvero un bel film. In rete si possono leggere delle critiche secondo le quali, per quanto Naoko Yamada abbia fatto un buon lavoro, non sia riuscito a mettere tutto quello che il manga di Yoshitoki Ōima ha raccontato in sette volumi, rendendo non del tutto chiara la storia. Sicuramente il manga potrà dare un quadro più completo della storia come spesso succede, ma anche se non ho letto l’opera di Oima posso dire con certezza che La forma della voce di Naoko Yamada è perfettamente comprensibile ed è qualcosa di toccante e meraviglioso.
Certo, in un paio di occasioni ci si chiede se certe situazioni potevano essere affrontate e mostrate in modo differente (quando la madre di Ishida s’arrabbia con il figlio per l’aver provato a suicidarsi, minacciando di bruciare i soldi che lui ha racimolato per rimborsarla della cifra che lei ha dovuto restituire per i danni che ha fatto ai tempi delle elementari; o come la sorella minore di Nishimiya cambiare voce facendosi passare per ragazzo), ma la pellicola non ne risente per niente.
Shoya Ishida è un bambino esuberante e scalmanato, che va sempre in giro con i suoi amici Hirose e Shimada; vive con la madre che fa la parrucchiera e una sorella maggiore, e ha una esistenza tutto sommato tranquilla. La sua vita cambia quando in sesta elementare arriva una nuova bambina, Shouko Nishimiya, che è sorda e per comunicare inizialmente usa un quaderno, visto che nessuno dei compagni conosce il linguaggio dei segni; solo Sahara, sua compagna di classe, cerca d’imparare tale linguaggio, mentre tutti gli altri non ne vogliono sapere, a partire da Ueno, che è la prima a opporsi quando la maestra di musica propone di dedicare qualche minuto della lezione a imparare il nuovo modo di comunicare con Nishimiya.
Dopo un iniziale periodo in cui si cerca di accettare la nuova arrivata, le cose prendono una piega sbagliata e tutto comincia da Ishida, che comincia a prendere sempre più in giro Nishimiya e a farle scherzi sempre più pesanti, specie quando le strappa dalle orecchie i costosi apparecchi acustici e li rompe, gettandoli lontano.
Benché sia Ishida a dare il via alla bullizzazione di Nishimiya, nessuno si è opposto al suo modo di agire: spesso si è lasciato correre (anche il maestro della classe ha chiuso gli occhi), alle volte si è stati partecipi degli scherzi e delle prese in giro. L’unica che è stata vicina alla nuova arrivata è Sahara e per questo anche lei è stata presa di mira, al punto che ha cambiato scuola. Rimasta sola, a Nishimiya non è rimasto altro da fare che rivolgersi alla madre che ha denunciato la cosa alla scuola; invece di prendersi ognuno le proprie responsabilità, a partire dal maestro della classe, tutto è stato gettato sulle spalle di Ishida, che viene scelto come capro espiatorio. Anche i suoi due più cari amici gli voltano le spalle e anzi, gli si rivoltano contro, cominciando a bullizzarlo.
Nonostante quanto subito, Nishimiya non porta rancore e cerca di essere dalla parte di Ishida, rimediando per come può agli scherzi dei compagni a suo danno (pulisce il banco del ragazzo imbrattato dagli insulti lasciati dagli altri), ma Ishida non riesce a comprendere il suo modo di fare e prova repulsione nei suoi riguardi e i due finiscono per accapigliarsi.
Nishimiya non finisce l’anno nella scuola elementare e si trasferisce in un altro istituto. Ishida invece patisce quello che ha fatto patire e la cosa continua anche alle medie, al punto che si chiude sempre più in se stesso, non riuscendo a guardare negli occhi gli altri. Arrivato al liceo, pensa e va vicino al suicidio gettandosi da un ponte, ma mente sta per gettarsi, sulla riva del fiume alcune persone fanno scoppiare dei petardi e quel semplice rumore lo fa fermare.
Divenuto consapevole di ciò che ha fatto passare alla ragazza per via anche di quello che ha passato (essere isolato da tutti, non avere amicizie che lo sostengono nei momenti difficili), decide di rimediare ai suoi errori e la va a cercare, cercando di divenire suo amico, proprio come lei aveva fatto con lui; proprio per questo prima impara il linguaggio dei segni ed è nel centro dove viene insegnato che reincontra Nishimiya.
Superata la diffidenza di Yuzuru (la sorella minore di Shouko, che inizialmente scambia per un ragazzo), che funge un po’ da sua guardia del corpo, Ishida si avvicina sempre più a lei. Nel mentre comincia a uscire dal guscio depressivo in cui era caduto e fa amicizia con un suo compagno di classe, Tomohiro Nagatsuka, dopo averlo aiutato con un bullo. Questo fa avvicinare altre persone, come Miki Kawai, che è stata in classe con lui anche alle elementari, e Satoshi Mashiba, che frequenta Kawai.
Per un po’ le cose sembrano andare bene, ma il ritorno nella sua vita di Ueno, compagna delle elementari che odiava Nishimiya accusandola di essere responsabile di quanto accaduto a Ishida, rompe l’equilibrio che si era andato creando, facendo litigare il piccolo gruppo formato da Ishida, Nishimiya, Sahara, Kawai, Mashiba e Nagatsuka.
Ishida si allontana da loro, rimanendo vicino soltanto a Nishimiya e Yuzuru, riuscendo perfino a farsi accettare dalla loro madre, che non l’aveva perdonato per quanto fatto alla figlia maggiore. Ma le parole di Ueno rivolte a Nishimiya fanno ricadere la ragazza in un forte stato depressivo (dopo gli atti di bullismo, era andata vicino al suicidio), al punto che prova a togliersi la vita gettandosi dal terrazzo di casa sua; solo l’intervento tempestivo di Ishida la salva, ma nel farlo il ragazzo rimane ferito e finisce in coma.
Al suo risveglio, lui e Nishimiya finalmente si chiariscono completamente e decidono di rimediare a ciò che è rotto, parlando con gli altri membri del gruppo e riappacificandosi, andando insieme al festival scolastico.
La forma della voce non è solo un film che denuncia il bullismo e quanto male può fare, ma mostra anche altri aspetti negativi dell’infanzia, come la crudeltà di cui possono essere capaci i bambini, perché non sono solo quelle creature innocenti e candide che spesso certe produzioni fanno passare. Ishida sicuramente è la figura che più mostra questo aspetto, ma gli altri compagni di classe non sono da meno. C’è Ueno, con i suoi commenti sprezzanti e il suo cinismo atto sempre a prendere in giro. Kawai, apparentemente gentile, ma che per non incorrere nella disapprovazione altrui, tace davanti ai soprusi, e anzi ride di essi, salvo poi fare la vittima quando viene tirata in ballo. Shimada, miglior amico di Ishida alle elementari, che non fa nulla per fermarlo e anzi, lui come tutti gli altri sorride delle angherie che commette, salvo poi colpirlo alle spalle davanti ai professori e dire che era colpa sua di quello che era successo a Nishimiya; non contento di ciò, comincia poi a perseguitare l’amico proprio come lui faceva con la ragazza, rivelandosi un individuo freddo, opportunista e doppiogiochista.
Anche gli adulti non ne escono ben rappresentati. Il maestro delle elementari è un menefreghista, infastidito dalla presenza di Nishimiya, che la vede come un peso e un intralcio per le sue lezioni; anche lui, come tanti alunni, lascia correre sugli scherzi feroci che fa Ishida. La madre di Nishimiya, troppo fredda, dura e iperprotettiva verso la figlia. In questo film i “grandi” o sono assenti o non agiscono, lasciando i giovani a cavarsela da soli; si salvano solo la mamma di Ishida e la nonna di Nishimya.
Bisogna parlare anche di un altro aspetto che il film mette in mostra: il suicidio. Il Giappone è un paese con un alto numero di suicidi tra gli adolescenti (anche se c’è da dire che è in aumento pure in altri paesi); il bullismo fa certamente la sua parte, ma lo è anche il sistema di vita del paese nipponico, che spinge a primeggiare, a ottenere buone posizioni, che alle volte fa ricadere troppa pressione sulle spalle dei ragazzi, divenendo insostenibile e spingendo a fare gesti estremi. E quando ci si trova vicini a questi fatti, ci sono sempre delle domande che tormentano chi resta. Perché è stato fatto questo gesto? Perché non ci si è accorti che qualcosa non andava? Si poteva fare qualcosa per evitarlo? Se solo gli si fosse parlato, gli si fosse rivolto un sorriso, un incoraggiamento, forse, allora, le cose sarebbero andate diversamente… E se…
Domande a cui non c’è risposta, che lasciano solo rimpianto e senso di colpa.
Fortunatamente, La forma della voce non è solo questo, anzi si può dire che più che altro è una storia di redenzione, della ricerca di una catarsi che liberi dal senso di colpa; certe azioni non possono essere cancellate e dimenticate, ma si può capire da esse gli errori che si sono commessi e più non commetterli. Le conseguenze del passato sono pesanti, e possono perseguitare e condizionare il presente e il futuro se non si riesce a comprenderlo e a superarlo. La cosa più pesante da affrontare però è accettare se stessi e non odiarsi per quello che si è o si è fatto: in questo Ishida e Nishimiya sono uguali. Lui odia se stesso per quello che ha fatto; lei per quello che è, anche se non ha alcuna colpa (nel film non viene mostrata l’origine della sua disabilità, cosa che fa invece il manga).
Questi però non sono gli unici punti in comune tra i due: entrambi non hanno padre (non viene spiegato se sono morti o se ne sono andati, ma questo non ha importanza: quello che ha importanza è la loro assenza), entrambi sono stati bullizzati e attraverso questa esperienza hanno sviluppato un modo di fare più compassionevole, che a un certo punto li farà avvicinare (è meglio dire che sarà Ishida a cercare di riavvicinarsi, perché Nishimiya aveva cercato di farlo da subito). E se si vuole, La forma della voce mostra anche come alle volte è difficile comprendere il confine che c’è tra odio e amore, al punto che si possono confondere i due sentimenti: Ishida è troppo piccolo per comprendere questo stato delle cose e nella confusione che si crea dentro di lui, finisce per credere di odiare e non sopportare Nishimiya, accorgendosi solo anni dopo che la questione era invece diversa.
Un film che tutti dovrebbero vedere e che soprattutto dovrebbe essere fatto vedere nelle scuole ai più giovani.

Un mondo solo per donne

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Il rosso, colore simbolo contro la violenza sulle donne«”Caro, dove andremo quest’anno in ferie?”
“Da nessuna parte. Tra il caro bollette, il caro vita, il caro affitti e i tagli allo stipendio, non ci sono soldi per le ferie.”
“Proprio non ci sono soldi…?”
“No. Mica li posso rubare.”
… “Sostegno vittime di violenza? Salve, mio marito non mi rispetta e mi tratta male, potete intervenire? Non ce la faccio più, la mia vita è un inferno…”
Fu così che tante segnalazioni fatte al 1522 (il numero telefonico contro la violenza sulle donne) iniziavano. Così tante che le istituzioni non riuscivano a risolverli; le donne allora decisero di scendere in massa in piazza all’urlo di “Uomo! Bastardo! T’infiliamo nel gnulo il petardo!”, richiedendo una soluzione immediata alle vessazioni maschili che costantemente subivano.
Il governo fece delle proposte ma nessuna soddisfece le donne, che a gran voce richiesero un referendum per l’istituzione di un nuovo corpo di polizia. La loro richiesta passò e così nacquero i Caschi Rosa, un corpo armato in stile polizia morale dell’Iran, i cui membri erano tutte donne e avevano poteri di giudice, giuria e boia, in stile Dredd (un vecchio fumetto che anni prima di quei fatti andava di moda; ci fecero anche due film).
“Mio marito non mi ha fatto ridere ieri sera.” 10 manganellate.
“Mio marito non mi porta fuori a cena tutte le sere.” 30 manganellate
“Il mio fidanzato mi ha chiesto di fare sesso ieri sera, ma io ero stanca perché l’avevo data ai miei amanti in un foursome.” Brutto bastardo! 100 manganellate più sodomizzazione, così impara cosa si prova a prenderlo!
Queste erano solo alcune delle punizioni che gli uomini subivano per le accuse che venivano fatte loro. Ci furono molti morti per punizioni eccessive e furono fatte manifestazioni per questo, facendo notare che si stava facendo la stessa cosa di cui alcuni uomini si erano macchiate, ma furono represse con la forza e i pochi che continuarono a protestare furo messi a tacere.
Le donne non si limitarono a tutto ciò e ottennero la separazione dei sessi: scuole e ospedali per donne. Fu solo l’inizio: avanzando sempre più nei ranghi sociali, ottennero un potere sempre maggiore, arrivando nelle posizioni di comando. Nel lavoro venne dato sempre più spazio alle lavoratrici, mentre gli uomini venivano sempre più relegati a compiti di manovalanza e di scarsa retribuzione; certo questo non valeva per tutti: per i più belli e aitanti c’era un occhio di riguardo, purché, s’intende, fossi disponibili a soddisfare le voglie sessuali delle loro superiori.
Ma tutto ciò non bastava: le donne volevano una rivincità maggiore per tanti anni di sofferenze patite. Dapprima agli uomini fu vietato entrare in certi edifici, poi prendere i mezzi pubblici; poi intere aree gli furono proibite. Qualcuno protestò che si stava facendo come in America a metà del XX secolo con le persone di colore, ma le donne tacciarono le proteste asserendo che quello era un atto di giustizia dovuto; alla fine gli uomini furono costretti a vivere in paesi riservati solo a loro. Ma anche questo però non bastò e gli uomini furono mandati nelle regioni più lontane, così sarebbero state libero per sempre dalla minaccia dell’uomo.
All’inizio, vista la mancanza di manovalanza maschile, ci furono problemi, ma le donne seppero riorganizzarsi e creare una società funzionante: a quelle più avvenenti toccarono ruoli di comando e decisionali, mentre quelle considerate meno belle presero il posto degli uomini nei lavori più umili, quali quelli in fabbrica e di manutenzione.
La felicità della loro libertà dal lato maschile della loro specie non durò però molto, dato che la biologia della loro natura le spingeva ad avere voglia di fare dei figli. E soprattutto per uomini belli e aitanti, ma anche per chi aveva spiccate abilità, fu una fortuna, perché le donne erano disposte a pagare qualsiasi cifra per farsi dare il seme più promettente; sorse così il business dello spermatozoo, uno dei più fiorenti mai visti nella storia dell’uomo. Per il seme dei maschi migliori si creavano vere e proprie aste, dove le cifre raggiungevano vette monetarie mai viste. Questo logicamente valeva solo per le donne più ricche; per le altre c’erano i discount dello sperma, dove si poteva trovare il seme di uomini comuni.
Senza rendersene conto, le donne avevano ricreato la stessa società maschile che tanto avevano odiato, fatta di privilegi e preferenze, di differenze sociali, ma che importava? Erano libere, erano al sicuro dal maschio prevaricatore.
Ma anche se gli uomini erano stati tolti di mezzo, la violenza non era finita, perché la violenza non ha nè sesso nè età nè ragione sociale: appartiene alla razza umana. Dopo un periodo di apparente tranquillità, l’aggressività era tornata a mostrare il suo volto e aveva bisogno di trovare sfogo di nuovo; le prime a darvi il via furono le donne più prepotenti e dominanti, che armate di megadildi dalla testa rotante presero ad abusare delle sottoposte, arrivando a giochi sempre più sadici dove si usavano fruste e corde. Le sottoposte a loro volta fecero lo stesso con chi stava sotto di loro, ripetendo il copione del potente che calpesta il più debole, proprio come gli uomini facevano con loro. Il vento fa il suo giro e cose che erano state, tornarono a essere come prima, con una storia già vista che ricomincia da capo, vestita in modo differente, ma sempre con le sue parti oscure.»
Il vecchio trasse un lungo respiro, appoggiandosi allo schienale della sedia, fissando negli occhi il bambino che lo guardava dall’altra parte del tavolo. «Ed è qua la risposta alla tua domanda del perché dove noi abitiamo tu non hai mai visto dal vivo una donna.»

Raccontino provocatorio scritto in risposta all’additare il maschio umano come unico problema della violenza sulle donne e alle tante iniziative sorte in questi giorni riguardo la questione. Come già detto in precedenza, la violenza non ha nè sesso nè età nè ragione sociale: se non si capisce ciò, il problema non verrà risolto, si avrà soltanto una risoluzione parziale, tampone, momentanea, che in apparenza farà andare meglio le cose per un poco. Ma la violenza riemergerà, sotto altri aspetti, e solo intervenendo su un’educazione che riguarda tutti, la si potrà limitare per davvero (probabilmente non è possibile debellerla del tutto, perché essa fa parte della natura umana).
Inoltre, tutto quello che si sta vedendo a seguito dell’omicidio di Giulia Cecchettin è una grave mancanza mancanza di rispetto verso tutte le altre donne uccise: la loro vita valeva meno di quella di Giulia? Meritavano di vivere meno di questa ragazza? Una vita tolta è sempre un atto grave, non c’è chi merita più attenzione e chi meno.
Convenuto su questo, ci si chiede perché questo omicidio ha così tanta attenzione, soprattutto adesso, specie dal governo. Di solito, quando questo accade, è perché si sta cercando di distogliere l’attenzione. Ma da cosa?