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Si è liberi di fare solo la prima scelta

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Nascosto dietro la siepe, osservava i bambini giocare nel cortile della scuola. Vederli correre dietro una palla, sentire le loro urla gioiose… per anni erano state una fonte di gioia, anche nei momenti più bui. Come lo erano state le ore in classe a insegnargli la matematica, la storia, la geografia.
Un lieve sorriso si dipinse sul volto. La sua ora preferita era quella d’italiano, specie quando faceva inventare ai piccoli delle storie, oppure si metteva a leggere delle favole; allora nell’aula calava un silenzio magico ed era quasi possibile sentire i sogni dei bambini nascere e prendere forma. In quegli occhi sbarrati e attenti scorgeva mondi senza fine, pieni di vita e speranza; mondi dove tutto era possibile e la vita era una distesa dalle scelte infinite.
Scelte infinite…
Posò una mano sulla tasca dove teneva la lettera.
“Si è liberi di fare solo la prima scelta: tutto il resto è una conseguenza.”
Non ricordava dove avesse letto quella frase, ma era stato quando non aveva ancora raggiunto la maggiore età. Allora l’aveva ritenuta una baggianata, ma adesso… adesso vedeva la verità in essa celata. Soprattutto, ne sentiva il suo peso.
Il sorriso scomparve dalle labbra.
A fatica si allontanò da quella piccola oasi di pace e felicità, ben sapendo che non avrebbe più insegnato. Non dopo quello che doveva fare. Come avrebbe potuto insegnare valori come la speranza, la fiducia negli altri, non avendole più nel cuore? Come poteva rapportarsi con qualcosa di puro come la mente di quei piccoli, senza contaminarla con quello che sarebbe diventato?
A passi lenti percorse il lungo viale che attraversava il parco, sedendosi su una panchina e aspettando l’orario di apertura dei negozi. Quando giunse, si alzò in piedi e, sempre senza fretta, si diresse verso il fioraio. Anche se il suo cuore era pieno di malinconia per la vita che stava lasciando, in esso c’era una grande calma nata dall’accettazione. In fondo, aveva sempre saputo che quel giorno sarebbe venuto; sapeva che, se avesse avuto risposta alle domande che tanto si era posto e che tanto l’avevano tormentato, non sarebbe più stato lo stesso. Però era stato bello percorrere una strada diversa da quella necessaria, vivere credendo negli altri e nel ritenere che tutti avessero diritto ad avere un’altra possibilità.
Raggiunto il negozio di fiori, entrò e comprò dei crisantemi. Mentre il commesso preparava i due mazzi, restò a guardare fuori dalla porta a vetri.
“Una volta che avrò varcato questa soglia, non potrò più tornare indietro. Se voglio, sono ancora in tempo per…”
«Ecco la sua ordinazione» disse il commesso avvicinandosi e porgendogli i mazzi.
«Grazie» rispose prendendo i fiori.
L’attimo era passato. Non era più tempo per tornare indietro. Forse non c’era mai stato. Forse non l’aveva mai voluto.
L’ombra degli olmi lo accompagnò per tutto il tragitto verso il cimitero.
I passi sul ghiaino risuonarono lievi tra le lapidi, come se volessero essere una carezza di conforto per chi non era più di quel mondo.
Si fermò dinanzi a una delle tombe più lontane, fissando la foto dell’amico scomparso e leggendo l’incisione sulla lapide.
La tua determinazione sarà sempre nei nostri cuori.
Anche in punto di morte, quando non restava altro che pelle e ossa del suo corpo, aveva mantenuto le sue convinzioni granitiche.
«Marco, tu puoi credere che sia solo un caso, ma la mia morte non è qualcosa di naturale: è qualcosa di voluto.»
«Matteo…»
«No, ascoltami bene. Almeno tu devi farlo. I miei genitori, mia moglie, le istituzioni: nessuno vuole credermi. Ma tu, se sei mio amico, devi farlo.»
Nonostante non riuscisse ad alzare nemmeno la testa dal cuscino, i suoi occhi erano pervasi da una forza spaventosa.
«La malattia che mi ha divorato è la conseguenza di scelte volute e spregiudicate. A quel bastardo non importa nulla della sicurezza dei lavoratori, importa solo di guadagnare più soldi possibili, non conta a quale prezzo.»
«Matteo…»
«I materiali con cui lavoriamo sono cancerogeni. Dovremmo avere delle protezioni, ma per risparmiare non ce le danno. “Non c’è nulla di pericoloso” non fanno che ripetere. Ma la realtà è un’altra.» Fece una pausa per riprendere fiato. «Puoi non credermi, ma vedrai che ci saranno altre morti nella ditta. E saranno tutte come la mia.»
«Perché mi dici questo?»
«Qualcuno deve fermare quell’imprenditore infame.»
«C’è la giustizia.»
«Quella non è giustizia. Non quando le leggi sono scritte da gente come lui. Nessuna istituzione farà nulla, perché lui è parte del sistema che hanno creato. Serve qualcuno che non si è fatto condizionare dal suo modo di fare. Come te.»
«Io…»
«So che ritieni che tutti meritino una seconda possibilità, ma per certe persone non vale, perché non cambieranno mai, non importa quante opportunità gli saranno date. Devi fermarlo per me e per le vittime che verranno dopo di me.»

Corrugò la fronte. Allora non aveva creduto alle parole di Matteo e l’amico lo sapeva. Sapeva che non si sarebbe mosso né per l’amicizia che li legava, né per la giustizia che veniva invocata da chi non era ascoltato.
… Devi fermarlo per me e per le vittime che verranno dopo di me.»
«La violenza non è la risposta a tutto.»

Matteo aveva sorriso. Un sorriso duro, di chi sapeva dove si sarebbe dovuto spingere per ottenere quello che voleva, non importava quale sarebbe stato il prezzo da pagare.
L’amico sapeva ciò che lui avrebbe fatto e che cosa avrebbe sacrificato. Eppure non aveva esitato un solo istante. “Che razza di sistema è questo, se è capace di stravolgere gli individui fino a questo punto?”
«Facciamo un patto. Se dopo di me, in quella ditta ci saranno altre morti, saprai che ho ragione, e allora dovrai agire. Se accetterai di farlo, andrai da mia moglie, che ti darà una lettera dove ho scritto chi è stato la causa della morte di Claudia.»
«Claudia si è suicidata.»
«Questo è quello che è stato fatto credere.» Il respiro di Matteo si era fatto affannoso. «So che ti sei tormentato per tutti questi anni per avere una risposta sulla sua morte: se la vuoi, sai cosa devi fare.»
«Chi ti dice che io accetti solo per saperlo e poi non agisca come vuoi tu?»
Matteo sorrise. «Ho detto a mia moglie di darti la lettera solo due anni dopo la mia morte. Avrai modo di verificare se ho detto la verità.» Chiuse gli occhi. «E quando l’avrai vista, non avrai più bisogno di essere convinto ad agire. Allora, accetti il patto?»
Dopo alcuni secondi, gli strinse la mano.

S’inginocchiò, posando uno dei mazzi di fiori dinanzi alla lapide.
Erano trascorsi più di due anni dalla morte di Matteo. All’inizio non aveva voluto credere al discorso dell’amico: riteneva fossero le parole di un uomo disposto ad attaccarsi a tutto pur di trovare una ragione alla sua morte. Però c’era stata nei suoi occhi una convinzione tale che lo aveva fatto dubitare. Aveva preso a seguire le vicende della ditta dove l’amico aveva lavorato, sempre sotto i riflettori per le continue proteste dei dipendenti sulla mancata applicazione delle norme sulla sicurezza e per il licenziamento di alcuni di essi; ufficialmente, la causa del licenziamento era imputata al danneggiamento volontario di macchinari durante gli scioperi, ma lui aveva visto qual era la ragione che nessuno voleva ammettere. Quelle persone erano state licenziate perché si erano ammalate sul posto di lavoro come Matteo. Gli stessi segni della malattia, la stessa espressione disperata e arrabbiata.
«Ci ammaliamo per lavorare. Moriamo per poter dar da mangiare alle nostre famiglie. Questo però non è sufficiente: ci privano anche della dignità.»
Erano state le parole di un collega di Matteo che era andato a trovare in ospedale. Anche lui, come le altre persone licenziate, deceduto nel giro di pochi mesi.
Le morti però non si erano limitate solo ai dipendenti licenziati: altri si lavoratori di quella ditta si erano ammalati e poi si erano spenti in un letto di ospedale. Nonostante i fatti fossero conosciuti all’opinione pubblica, nessuna istituzione aveva agito; nessuno aveva espresso solidarietà nei riguardi delle persone ammalate e dei familiari delle vittime. Tutti erano rimasti indifferenti.
E mentre tutti se ne fregavano, chi era la causa di tanta rovina continuava a vivere, godendo e prosperando sul sangue altrui.
“Avevi ragione, Matteo. Nessuno ha fatto niente. E continueranno a non fare niente, facendola passare liscia a quel delinquente. Come sempre è stato.” Si alzò in piedi. “Mi spiace aver dubitato di te. Farò quel che devo, anche se non è facile. Dammi un po’ della tua determinazione.”
Tornò sui suoi passi, raggiungendo i portici e dirigendosi verso la zona più vecchia del cimitero. Mise i crisantemi nel vaso dinanzi alla tomba di Claudia, aggiungendoci dell’acqua. L’immagine dell’amica diciottenne e sorridente venne carezzata dai fiori mossi dalla brezza.
Restò immobile come una statua, respirando appena.
Per tutti quegli anni non aveva fatto che porsi domande sul perché avesse compiuto quel gesto estremo. Quando era giunta la notizia della sua morte, era rimasto sotto choc: non era riuscito a pensare a niente, non era riuscito a sentire niente, come se fosse all’interno di una bolla.
Le domande e i dubbi erano cominciati a giungere dopo il funerale.
Quei suoi silenzi… allora non aveva capito quanto fossero importanti. Credeva che il non sentirla più fosse dovuto al fatto che, finite le superiori e avendo preso strade diversi, i rispettivi impegni li tenessero troppo occupati per tenersi in contatto. L’aveva ritenuto qualcosa d’inevitabile, dovuto al crescere e frequentare ambienti diversi. Alcune volte s’incontravano nei corridoi dell’università, ma si scambiavano poche battute, come se non ci fosse più niente di cui parlare; negli ultimi tempi in cui si vedevano la trovava più fredda, più distaccata. Non era più la Claudia che conosceva, così sorridente, così chiacchierona; alle superiori, anche se si vedevano tutti i giorni perché nella stessa classe, si sentivano spesso per telefono. Anzi, ripensando a quel periodo, era sempre lei a chiamarlo.
Solo un anno dopo il suicidio, gli era venuto il dubbio che per lei, lui non fosse solo un amico. Le continue telefonate, il chiedergli consigli sui compiti anche se era tra le più brave della classe, il sorridergli sempre quando lo vedeva…
Il pensiero l’aveva lacerato.
“Se fossi stato io la causa del suo gesto? Se il non sentirci più, fosse stato per lei come la prova del non contraccambiare i suoi sentimenti? E se il mio non accorgermi di nulla l’avesse fatta sentire rifiutata?”
Più ci pensava, più gli sembrava il motivo del suo comportamento negli ultimi tempi in cui era viva. E lui era stato troppo preso dagli studi, troppo concentrato su se stesso, per capire quello che lei stava passando e dove l’avrebbe portata.
Quei pensieri, quelle domande, non avevano fatto che perseguitarlo, perché a essi non c’era risposta.
«E se ci fosse, che cosa saresti disposto a fare?» gli aveva domandato un giorno Matteo, quando ancora non lavorava in quella ditta.
«Tutto» aveva risposto dopo un lungo silenzio, convinto che conoscere la verità l’avrebbe liberato da un peso.
Invece era stata una pugnalata.
“Tutti questi anni tormentato dal senso di colpa, dal rimorso… convinto di essere responsabile della sua morte e invece… invece…”
La verità non l’aveva fatto stare meglio: gli aveva solo dato conferma dell’esistenza di un lato di sé di cui avrebbe fatto a meno di sapere. Ma in fondo, anche se non l’aveva mai voluto ammettere, anche se aveva sempre voluto evitare di confrontarcisi, prendendo strade che lo portassero il più lontano da esso, sapeva che c’era una parte di lui capace di tutto in certe circostanze.
Rimase a fissare il vento che carezzava i fiori sulla tomba di Claudia, la mano destra in tasca, stringendo la lettera che gli aveva dato la moglie di Matteo.

La porta si aprì.
«Sono a casa.»
Nel corridoio risuonò il tintinnio delle chiavi che venivano poggiate sul vassoio nell’ingresso.
L’interruttore scattò, ma nessuna luce si accese. «Papà, è saltata la corrente?»
«No, Salvatore, è saltata soltanto la sua testa.»
L’uomo sobbalzò. «Che cosa…»
«Non ti preoccupare per lui. Pensa invece a te stesso.»
Salvatore fece per avvicinarsi al telefono.
«I cavi sono stati strappati. E non cercare di prendere lo smartphone: renderai le cose solamente peggiori.»
Salvatore prese ad aggirarsi a tentoni nella sala buia. «Chi sei?»
«Il tuo Edmond Dantes, venuto a portare quella giustizia cui tanto a lungo sei scampato.»
«Io non ho mai fatto…»
«Nulla di male? Risparmiami le balle. Prima di morire, tuo padre ha confessato tutto. Di come ha fatto uccidere Claudia, inscenandone poi il suicidio, perché non ti denunciasse dopo che l’hai stuprata.»
«Claudia? Come fai…»
«Tu e tuo padre avete parlato di lei quando credevate che nessuno vi sentisse. Mai parlare di cose private sul posto di lavoro, nessuno te l’ha mai insegnato? Poco importa, ormai è tardi. Non farai mai più casini del genere, proprio come tuo padre.»
«Aspetta…»
Si sentì un cozzo e poi niente più.
Una luce fendette l’oscurità della sala. Marco fissò il cranio sfondato di Salvatore, il martello che teneva in mano gocciolante sangue sul parquet. Poi volse la torcia verso il fondo della sala, dove si trovava il corpo del padre di Salvatore legato su una sedia. Il sangue sui vestiti non proveniva solo dalla ferita alla testa, ma anche dalle parti del corpo dove il martello aveva lacerato la pelle.
Guardando il risultato di quello che aveva fatto per avere la confessione dell’omicidio di Claudia, avvertì un sapore sgradevole in bocca, come se avesse masticato delle cimici.
«Aveva ragione Clint Eastwood in quel film. È una cosa grossa uccidere un uomo: gli levi tutto quello che ha, e tutto quello che sperava di avere» mormorò.
Diede uno sguardo ai due cadaveri, ma distolse subito gli occhi, sentendosi vacillare.
Fece un lungo respiro, poi si costrinse di nuovo a guardare i loro volti.
Avevano rovinato la vita di Claudia. Quella di Matteo. Quella dei suoi colleghi.
E avevano rovinato la sua. Tutti quegli anni a colpevolizzarsi, a sentirsi responsabile di una morte in cui non aveva avuto nessun ruolo. Anni di tormento, anni sprecati. Anni che non sarebbero più tornati e che lo avevano segnato fino a farlo diventare quello che era. Fino a farlo diventare quello che aveva fatto.
«Uccidere un uomo è una cosa grossa, ma alle volte è l’unica cosa da fare.»

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