All’interno del bar, la sala era immersa in un bagno di luce. Una luminaria sfavillante faceva brillare come cristalli i sottili calici disposti sulle mensole. Lucidi vassoi d’argento rilucevano di scintillanti riflessi dietro il bancone.
I tre se ne stavano seduti attorno a un tavolino con le gambe di ferro battuto, lo sguardo posato sull’orologio dorato posto sulla superficie bianca.
«E’ costato un capitale, ma ne è valsa la pena.» Mormorò il ragazzo lisciandosi compiaciuto la testa rasata. «Guardate le fini cesellature del cinturino e il disegno sulla cassa. Non sono un capolavoro?»
«Uhm…sì, non male.» Convenne l’uomo con la cravatta. «Ma non è l’ultimo modello: la settimana scorsa è uscito quello nuovo. Se dovevi fare un investimento, ti conveniva aspettare: così hai una cosa vecchia.»
«Hai ragione.» Disse l’altro deluso. «Allora dovrò tornare al negozio e cercare di farmelo cambiare con l’ultimo uscito.» Sconsolato guardò l’orologio fino ad allora riverito come un giocattolo rotto.
«Non te la prendere.» Lo consolò l’uomo con la cravatta. «E’ vero che ti comporti come un bambino che vuole tutto quello che vede, ma non è colpa tua se sono più avanti di te: lavorando in banca, e venendo a contatto con molte persone, ho modo d’essere sempre aggiornato.»
«Ah.» Fu l’unico commento che uscì dalla bocca dell’amico abbattuto mentre si allacciava il cinturino al polso.
«E tu cosa ne dici?» Il banchiere esortò l’uomo con la barba a dire la sua.
L’interpellato si riscosse, perso nell’osservare le bollicine della bibita che aveva davanti. «Su che cosa?»
«Ma sull’orologio, naturalmente.»
«E’ un bell’oggetto: perché dovrebbe cambiarlo?»
«Ma non è alla moda!» Sbottò il ragazzo. «Possibile che tu non riesca mai a capire cosa significhi restare indietro, non essere come gli altri? Se non sei come la maggioranza, sei tagliato fuori, sei escluso.»
«Ed è così importante?» Disse l’uomo con la barba senza scomporsi.
«Certo che lo è: altrimenti non sei nessuno. Essere riconosciuto dagli altri è importante, è un valore.» Il ragazzo sgranò gli occhi come un sacerdote che sentiva una bestemmia. «Fare parte della società è un punto di forza per ciascuna persona.»
«E per essere qualcuno devi avere bisogno degli altri? Devi avere l’appoggio, l’approvazione altrui?» Il sopracciglio dell’uomo con la barba s’inarcò sbiecamente. «Per me è una grandissima puttanata.»
«Allora non capisci.»
«Già. Come non capisco perché ti metti tanti problemi per un orologio.»
Il ragazzo lo guardò di stucco. «E tu cosa avresti fatto allora?»
«Avrei cambiato orologio solo nel caso quello vecchio si fosse rotto. Se una cosa può ancora essere utile, perché devo cambiarla?»
Il ragazzo s’alzò in piedi. «Parlare con te è impossibile. Perché non puoi essere come gli altri? Che c’è di tanto male?» Disse acido. «Ti facciamo tanto schifo da voler essere così diverso da noi?»
«Sono solo me stesso.»
La banconota svolazzò sul tavolo. «Offro io. Ma sta attento: le tue idee prima o poi ti metteranno nei guai.» Mormorò il ragazzo mentre s’avviava verso l’uscita.
«Lo devi sempre far incazzare?» Domandò il banchiere.
«E’ lui che vuole farlo; io dico solo quello che penso.»
«Non puoi dire sempre quello che pensi: prima o poi ti metterai davvero nei guai.» Fu l’ammonimento senza rimprovero.
L’uomo con la barba trangugiò un lungo sorso della bibita gassata. «Sono solo parole: lasciano il tempo che trovano.»
Il banchiere lo squadrò pensieroso, sapendo che ogni tentativo di fargli cambiare idea era inutile. «Ho sentito che hai perso il lavoro.» Disse cambiando discorso.
L’uomo annuì. «La ditta ha chiuso: non riteneva remunerativo continuare a produrre apparecchiature di controllo per la sicurezza elettrica. Non hanno mercato, diceva la dirigenza. In fondo non ha completamente torto.» Costatò amaramente. «Ormai non si produce più nulla: tutti sono preoccupati di potersi vestire bene, d’essere abbronzati e depilati. Alla gente importa solo della propria bellezza, incurante che tutto il resto vada allo sfascio.»
«Perché ti preoccupi? Tanto non puoi farci nulla.»
«Quindi dovrei adeguarmi?»
«Sarebbe più facile.»
«E’ una cosa assurda.»
«Forse. Ma è il mondo in cui viviamo. O ti adegui…»
«O sei fuori.» Concluse l’uomo con la barba.
«Ora cosa pensi di fare?»
Passò un lungo momento prima che il bicchiere venisse posato sul tavolo. «Non lo so.» Disse l’uomo con la barba osservando il cubetto di ghiaccio sciogliersi. «Ho qualcosa da parte: per un po’ dovrebbe bastare.»
«E quando saranno finiti?»
«Allora ci penserò.»
«Non puoi pensare che durino in eterno.»
L’uomo con la barba sorrise. «Certo che no. Ma se continua di questo passo, non ci saranno alternative per il domani; con questo sistema non c’è visione di futuro.» Sottolineò passando un dito sul bordo del bicchiere. «Non si vuole che ci sia; hanno mandato a catafascio ogni cosa, hanno lasciato che tutto cadesse. Ma che importa? Come dici tu, perché dovrei arrabattarmi tanto?»
Il banchiere fece un sorriso, cogliendo la sfumatura. «Potresti provare a lavorare in uno di quei centri benessere: è un buon posto, per certi versi perfino piacevole.» Un’espressione compiaciuta si dipinse sul volto abbronzato.
L’uomo con la barba scosse il capo. «E’ un ambiente falso e malevolo: non riesco a restare là dentro per ore. Mi dà un malessere quasi fisico.»
«Cos’ha di così tremendo?» Domandò sorpreso il banchiere. «E’ un ambiente tranquillo, pulito, per nulla faticoso e pieno di belle ragazze: cos’altro potresti volere?»
L’uomo con la barba scosse il capo. «Non c’è niente d’umano: è tutto basato sull’apparenza. Le persone non contano per quello che valgono, ma per quello che appaiono.»
Il banchiere si portò una mano al mento. «Tu cerchi un lavoro che si basi sulle capacità.» Mormorò pensoso. «Ci sono!» Il volto s’illuminò di colpo. «Prova a farti assumere in banca: sai parlare e potresti convincere la gente facilmente. Inoltre, si guadagnano un sacco di soldi. Potrei mettere una buona parola per te.» Rivolse il palmo verso il compagno di bevuta a sottolineare l’offerta d’aiuto. «Ma sembra che a te questo non interessa.» Aggiunse vedendo lo sguardo spento.
L’altro serrò le labbra. «C’è qualcosa di più dei soldi. E quel lavoro è squallido, è un imbrogliare le persone.»
«Già, ma per lo meno potresti migliorare la tua posizione e farti considerare meglio dalla gente. Lo sai quello che si dice su te.»
L’altro annuì.
«Ma sembra che non te ne importi.» Il banchiere si lasciò scivolare sullo schienale della sedia. «Che cos’è che vuoi esattamente?»
L’uomo con la barba guardò fuori della finestra, osservando lo svolazzare delle farfalle attorno alle lampade. Sul davanzale, alcune erano già cadute bruciate. «Non sono ancora riuscito a capirlo. Qualsiasi cosa faccia, mi stanco dopo poco: è così limitato. Io voglio qualcosa di più e ci deve essere qualcosa di più. Ma non riesco a trovarlo o a capire di che cosa si tratta.»
«Non riesci a farti bastare quello che hai?»
L’uomo con la barba si voltò a fissarlo. «No.»
Il banchiere distolse lo sguardo. «Alle volte mi preoccupi.»
«Già: tutti trovano un posto nel mondo, tranne io. Forse perché un posto nel mondo per me non c’è.» L’uomo con la barba s’alzò in piedi.
«Vai già via? Non ti fermi a fare un’altra bevuta?»
«Non sono di gran compagnia stasera. E poi ho bisogno di fare due passi.» Si schermì l’altro, cercando di non far vedere il disagio che provava. «Ci vediamo presto.» Disse avviandosi verso l’uscita.
Varcata la soglia del bar, si sentì tornare a respirare: dentro sembrava di soffocare. Era riuscito a resistere il più a lungo possibile, ma aveva avvertito sin da subito l’impulso di scappare, di allontanarsi da quel posto.
Aveva fatto qualche passo, quando una voce lo raggiunse come una rasoiata.
«Sei ancora qui, pezzente?»
Si voltò di scatto, ritrovandosi quattro paia d’occhi che lo squadravano malevolmente.
«State parlando con me?» Chiese sorpreso.
«Certo che stiamo parlando con te.» Lo apostrofò acidamente l’uomo più vicino all’ingresso del bar. «Vedi altri pezzenti in giro?»
Gli altri tre risero divertiti.
L’uomo che aveva parlato lo fissò astiosamente. «A noi non piace avere intorno dei poco di buono: ci ammorbano l’aria, rendendola irrespirabile.»
«Non capisco cosa c’entro io con i vostri problemi.»
«C’entri, perché sei tu il nostro problema. E noi non vogliamo avere problemi. Quindi tu devi sparire, non devi più tornare. Non ti vogliamo più vedere qua intorno. Altrimenti la prossima volta non saremo altrettanto gentili.»
L’uomo con la barba fremette di sdegno, ma tutto quello che fece fu girare sui tacchi e andarsene. Continuò a sentire le loro voci denigratorie inveire contro di lui mentre s’allontanava. Senza accorgersene, andò quasi a sbattere contro una persona.
«Mi scusi.» Disse senza guardare.
«Ehi.» Lo apostrofò l’altro.
L’uomo con la barba si fermò, voltandosi verso l’individuo.
Un uomo dai capelli bianchi striati di nero che cadevano disordinatamente sul lungo impermeabile, lo fissava con occhi da rapace. La barba di diversi giorni e uno zaino issato su una spalla, davano la sensazione che venisse da un lungo viaggio.
«Non senti quello che ti dicono?» Lo apostrofò duramente lo straniero.
«Certo.» Fu tutto quello che riuscì a rispondere l’uomo con la barba, sentendosi a disagio sotto lo sguardo indagatore.
«E glielo permetti?»
«Sono soltanto parole: lasciano il tempo che trovano.»
«Fai pure, allora. Ma si comincia sempre con poco in tutte le cose. Anche nelle disgrazie.» Lo ammonì duramente lo sconosciuto. «Mai lasciar correre.»
L’uomo con la barba lo osservò mentre spariva nella notte. Uno straniero di passaggio. Di quei tempi era cosa rara vedere gente vagabonda: la maggior parte delle persone preferiva trovare un posto dove restare e una volta trovato, non lo lasciava tanto facilmente, a meno che non fosse costretto a farlo.
Un incontro davvero strano, come lo erano i tempi in cui vivevano.
Presto raggiunse la strada principale, cercando di stare a margine della fiumana di gente che si muoveva come una mandria migrante. Profumi di mughetto e incenso gli inebriarono le narici, mentre ragazze dagli spacchi vertiginosi alle gonne e generose scollature sul petto gli passavano accanto posando voluttuosamente sotto i suoi occhi le loro grazie, alla ricerca dell’attimo sfuggente di potere che l’ammirazione per il corpo femminile gli uomini donavano con il loro sguardo.
Sopra di lui le insegne sfrigolavano abbagliando con la loro luce intensa e sgargiante.
“Tutto questo non ha senso.”
Si guardò intorno per osservare la massa.
Le donne si muovevano avvolte in volute profumate e vaporose, pronte a essere colte, pronte a farsi mangiare. E a mangiare.
Gli uomini, incipriati e imbellettati, sfilavano per guardare e farsi guardare. Pomposi nel mostrare pezzi di pelle glabra attraverso camicie sbottonate fino allo sterno.
Esseri voluttuosi e vuoti perché così voleva la società. Vittime volontarie che sacrificavano se stesse perché gli altri così volevano.
Il marciapiede era una lunga passerella dove mettersi in mostra. Un mercato per scegliere la merce più pregiata e farsi comprare dall’offerente migliore.
“Dove va tutta questa gente? Dove corre? Per cosa corre? Non ha senso.” Ripeteva il leit motiv a ogni sguardo che si posava su una nuova fetta d’umanità in movimento. “Perché darsi da fare? Per cosa darsi da fare?” Continuava la mente a incalzarlo. “Per questo insensato corre? Per questo vuoto?”
Fissò i lampioni sfavillanti: impegnarsi per costruire cose effimere come le luci che lo circondavano, e poi vederle spegnersi e rimanere inutilizzate o messe da parte per qualcosa di più nuovo. Cosa erano serviti gli sforzi per costruirle, per farle funzionare? Tutto in fumo. La gente si dimenticava di ciò che aveva usato, non s’accorgeva nemmeno che era stato.
Che vita inutile e smodata. Una conquista dopo l’altra che andava a ingrossare il cumulo di trofei da mostrare; un cumulo per dire che si aveva lasciato un segno nel mondo e pertanto si era vissuto.
Ma questa era vita? Che significato aveva?
Tutto falsità, tutto apparenza. Un’accozzaglia di meri gusci vuoti.
Non c’era futuro in un mondo del genere. Solo vuoto: il nulla che rotolava sempre più in fondo a un cratere che non conosceva fine.
Non c’era speranza in quella e per quella società.
Voleva credere che tali pensieri fossero dovuti allo scontento per la sua situazione, ma sempre più spesso si trovava a costatare di assistere all’ultimo canto della cicala.
S’allontanò dalla zona delle boutique e dei centri per massaggi, scegliendo vie tranquille e silenziose.
Si sedette sulla panchina di un piccolo parco a metà strada del percorso per tornare a casa, rilassandosi alla luce blu dei lampioni che avvolgeva sobriamente gli alberi in un’atmosfera surreale, quasi fuori del mondo; una piccola oasi di pace in un vortice che non si riposava né di giorno né di notte. La violenza delle insegne sgargianti e pulsanti sembrava lontana, distante chilometri: quanto gli sarebbe piaciuto che quel momento durasse in eterno, ibernandolo in una stasi dove non sarebbe più stato morso dalle angosce del vivere.
Un suono di passi lo riscosse dall’abbandono in cui si era lasciato andare.
Due uomini in manica di camicia stavano passando lungo il marciapiede, conversando amabilmente. Dall’elegante ventiquattrore che avevano in una mano e dalla caratteristica cartella di plastica rigida che tenevano nell’altra, doveva trattarsi di medici.
«Sono fermamente convinto» stava dicendo l’individuo più vicino al muretto del parco «che rimodellare la forma del corpo, specialmente i lineamenti del viso, possa modificare il carattere di una persona. Gli studi che sto facendo vanno approfonditi, ma sono sicuro che una volta giunti a conclusione, rappresenteranno un grosso passo avanti per l’umanità.»
«In che senso?» Domandò perplesso quello più vicino alla strada.
«Non riesci a capire? In questo modo si possono eliminare i lati negativi delle persone: non ci sarà più delinquenza, la malavita sparirà. Crimini, cattiverie, menzogne: tutto sparirà.» Disse con enfasi il primo medico.
«Come fai a esserne così sicuro?» Obiettò il secondo medico.
L’altro lo guardò stupito. «Come fai a non capire? Ciò che è bello non può che essere buono. Un volto regolare è indice d’equilibrio, labbra carnose indicano lealtà, un mento largo indica un carattere vigoroso.» Fece notare con cura. «Andando a modificare la struttura del corpo, si può andare a correggere i caratteri malati di una persona.»
«Non credo che la chirurgia estetica abbia questo potere; non l’ha avuta nemmeno l’ingegneria genetica, la scienza al momento più evoluta in campo medico. Il corpo umano è un sistema troppo complesso da comprendere viste le tante variabili che contiene per poter essere modificato senza rischi; c’è chi ha provato a lavorarci sopra, con gli scompensi che si sono visti. Una soluzione così semplicistica come quella proposta dalla chirurgia estetica non può risolvere una questione irrisolta per secoli.»
«Ma è questo il punto. Si è scelto sempre la via più difficile, più tortuosa, quando bastava scegliere quella facile. E’ tutto così semplice. Basterà che la gente guardandosi allo specchio si veda più bella e si sentirà una persona diversa, migliore, perdendo in questa maniera la parte brutta del proprio animo.» Insistette il primo medico.
Il compare non parve per nulla convinto. «Questa teoria è un modo come un altro per cercare di attirare più clienti nella tua clinica di chirurgia estetica e aumentarne i profitti.»
«Ma perché la gente deve sempre pensare male? Perché deve essere così mal fidente? Siete dei corvi del malaugurio che ostacolano il benessere della gente: volete farla vivere nelle preoccupazioni e nell’amarezza. Molti esimi colleghi concordano con le mie idee e le sostengono.»
«Anche loro chirurghi estetici?» Obiettò il secondo medico.
La discussione si perse in lontananza mentre i due si allontanavano.
“Questa è follia, oltre che idiozia.” Pensò l’uomo con la barba mentre li perdeva di vista.
Un voler illudere la gente. Uno sfruttamento fatto di sorrisi ipocriti dietro i quali si celava un inganno premeditato. Un inganno permesso dalla gente che voleva credere a tutti i costi in qualcosa.
“Siamo tutti degli ingannatori. Quante volte illudiamo noi stessi, quante volte ci nascondiamo dietro delle maschere fatte di silicone, atteggiamenti costruiti, per non vedere e fare vedere ciò che si è realmente.” Pensò sconsolato riprendendo la via di casa. “Ostinatamente si cerca di coprire ciò che non va, facendo finta che tutto vada bene, quando invece non è così. Si finge d’essere quello che non si è, facendo passare per principi e principesse dei mostri. Maschere piacenti e delicate su golem grezzi e senza grazia; costrutti che si muovono senza volontà, mossi da fili che conducono su binari prestabiliti.”
Lontano dalla città, sulla strada affiancata da un ruscello gorgogliante, fissò la collina in lontananza, ascoltando il frinire dei grilli. Un pensiero lo raggiunse, leggero e fugace come la brezza serale.
“Perché si ha tanta paura di se stessi? Perché si arriva ad autodistruggersi pur di non vedersi?”
La risposta sembrò aleggiare nell’aria, pronta per essere raccolta.
E poi svanì, lasciando la domanda irrisolta.
Forse non era così importante.
Tagliando per i campi, attraverso l’erba alta, raggiunse la casa silenziosa.
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