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Boria, Sopravvalutazione, Umiliazione

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Da sempre, in qualsiasi epoca e luogo, avere anche solo un minimo di potere fa provare a molti un senso di superiorità e disprezzo verso gli altri, come già visto.
La boria non porta mai nulla di buono: fa sopravvalutare le proprie capacità, non facendo vedere i propri limiti e, cosa peggiore, non facendo prendere in considerazione che se ne possano avere.
Un atteggiamento che porta a sfruttare la posizione, la carica che si ricopre, per umiliare chi sta un gradino più in basso. E a dimenticarsi che si viene trattati nello stesso modo in cui si trattano gli altri (lo insegna anche una preghiera molto nota: rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori): la vita rende sempre quello che si fa, alle volte con gli interessi; prima o poi arriva il momento di rendere conto di quanto fatto (chi ha orecchi per intendere, intenda). Senza dimenticare che questa gran maestra non fa che rammentare che non c’è uno forte, che non ne esista uno più forte.

Una serie di puntini neri si muoveva a settentrione. Focalizzò l’attenzione su di loro, lasciando che la sua energia fosse permeata dalla sensazione d’espansione, convogliandola sul senso visivo.
Istantaneamente l’immagine divenne più grande e nitida: un gruppo di giovani al cospetto del loro tutore. Mantenendo attivo il Potere lo utilizzò per amplificare l’udito.
«Il vostro obiettivo è centrare e polverizzare i bersagli posti alla distanza di venti metri.» Udì chiaramente la voce dell’istruttore come se fosse al suo fianco.
«Avrete un solo tentativo, ma, date le vostre umili origini, dubito che sarà un successo. Anche se di questo non può esservi imputata colpa: non tutti possono avere la fortuna di nascere in una famiglia nobile nella quale scorrono i geni del Potere.»
Un sorriso di soddisfazione comparve sul volto di Reinor.
Non impiegò molto a raggiungerli e quando fu nei loro pressi s’accorse che la prova era già terminata: le pietre che fungevano da bersaglio erano scheggiate e rotolate lontano dalla posizione originaria. L’obiettivo richiesto non era stato finalizzato.
Lo sguardo ricadde sugli esaminandi ed ebbe spiegato perché la prova non era stata superata: erano troppo giovani per superare un esame del genere. Riconobbe i ragazzi che pochi giorni prima aveva visto festeggiare nel prato.
Spostò lo sguardo sul tutore.
«Come volevasi dimostrare, avete fallito. Non c’era da aspettarsi niente di più da gente della vostra risma; avete dato dimostrazione del valore delle vostre umili origini. Ricordatevi sempre questo giorno; per quanto v’impegnerete non raggiungerete mai il livello di chi ha nobili origini. Portategli rispetto: sono esseri superiori.» Asserì sprezzante, guardando ogni singolo praticante, soffermandosi su uno in particolare. «Qualcosa da ribattere? Ricordati che non solo sono un nobile, ma che ti sono anche superiore di grado e sei sotto la mia guida: è da me che dipende il tuo giudizio e il tuo avanzamento, oltre la tua permanenza all’ateneo.» Lo squadrò dall’alto al basso. «Rammenta che cos’è l’umiltà: non raggiungerai mai i miei livelli.»
«Ma se alla sua età non eri capace nemmeno di far levitare una piuma.» La voce di Reinor li fece sobbalzare.
«Chi osa proferire simili parole?» Sbottò il tutore voltandosi a guardarlo.
«Io e parlo con cognizione di causa. Chi si loda tanto delle sue capacità, vuol dire che sa di essere limitato e cerca d’aumentare il proprio valore con le parole.» Lo fronteggiò Reinor.
Il tutore si levò tronfio della sua carica. «Sei straniero per non conoscere che io sono Cazias, allievo e nipote del grande Galtias.»
“Deve essere un vizio congenito della città.” Pensò Reinor.
«Non conosco il tuo maestro e quindi non posso giudicarne il valore, né posso assegnargli il nome di grande. Ma se è stato grande, questo non significa che lo sei anche tu. Se come dici è stato così, allora da lui non hai saputo apprendere quanto ha insegnato. Ostenti troppo il fatto di essere suo discepolo; è la prima immagine che presenti quando ti trovi al cospetto di altri e lo fai per nascondere quel poco che sei.» Continuò senza fermarsi. «In questa maniera tu stesso ammetti che il tuo maestro era grande e tu sei niente, solo un’ombra, una brutta copia. Della tua guida non hai capito che ha cercato d’insegnarti come, trovata la propria via, si possono raggiungere grandi livelli. Hai travisato l’insegnamento, credendo che con il suo metodo potessi raggiungere la grandezza che ostenti. Quello che ti ha dato è andato sprecato: sei un fallimento come uomo e discepolo.» Un luccichio comparve nei suoi occhi. «Se il tuo maestro è stato grande: altrimenti rispecchi quello che era.»
Il tutore si fece livido di rabbia. «Sei bravo a parole, ma lo sei altrettanto nei fatti? Io l’ho dimostrato, tu puoi fare altrettanto?» Disse indicando il mucchietto di detriti a una trentina di metri dal punto in cui si trovavano. «Ragazzo va a sistemare un bersaglio nel punto dov’era quello che ho distrutto.» Ordinò a uno dei praticanti del gruppetto.
«Non ce n’è bisogno: il bersaglio è già presente sul terreno.» Lo fermò Reinor.
«Un po’ poco per dimostrare le proprie capacità non credi?» Lo derise il tutore. «Utilizzare i bersagli dei praticanti è misera cosa per un Usufruitore.»
Reinor non lo prese in considerazione, il Potere che fluiva in lui, espandendosi e crescendo come un mare in tempesta. Levò il braccio destro, il palmo della mano rivolto verso l’obiettivo. La terra tremò, ci fu rumore di roccia che si spaccava in una violenta esplosione. Una pioggia di detriti bucò la nube di polvere che si era alzata. Quando tornò visibilità la roccia grossa come un bue a una cinquantina di metri era frantumata per più di metà.
Gli astanti erano a bocca aperta per la dimostrazione di Potere. Si ripresero quando un brusco cenno del tutore fece segno di rientrare; impettito nelle sue vesti guidò la colonna d’allievi.
«L’umiltà è una gran cosa per chi sa usarla. Ricordalo se vuoi davvero essere il migliore.» Disse Reinor.

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