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Terminator - Destino oscuro

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Terminator – Destino oscuroTerminator – Destino Oscuro: perché?
Naturalmente la domanda è perché è stato realizzato, dato che non aggiunge nulla alla saga dei Terminator ed è soltanto la brutta copia di Terminator 2, il più bel film della serie, una delle poche pellicole che è migliore della prima che è uscita. Ecco, la serie poteva dirsi conclusa con i primi due film: tutto era stato detto, la storia si era aperta e chiusa e conclusa alla grande. Ma si sa che la gallina delle uova d’oro va sfruttata finché rende e quindi si sono continuati a fare seguiti e questo dà la risposta alla domanda che ci si è posti.
Tale domanda però non riguarda solo Terminator – Destino Oscuro, ma tutti i seguiti che sono stati girati dopo Terminator 2: ognuno a modo suo contraddiceva quello che era stato detto in precedenza. In Terminator 3 – Le macchine ribelli (2003) il concetto che il futuro non è scritto viene accantonato a favore del concetto che invece è ineluttabile e che quindi l’avvento delle macchine è inevitabile. Terminator Salvation (2009) prova a fare qualcosa di differente e non ci sono viaggi nel tempo, ma l’azione è ambientata nel futuro dove le macchine ormai dominano, con Skynet che cerca di eliminare i capi della resistenza e Kyle Reese, colui che mandato nel passato sarà il padre di John Connor; il film funzionerebbe abbastanza bene, se non fosse il cyborg costruito nel passato per essere cavallo di troia nella resistenza. Terminator Genisys riscrive tutto e riprende da Kyle Reese che viene mandato nel passato ma lì tutto è cambiato a causa di Skynet che con un attacco a sorpresa ha posseduto John Connor facendolo divenire uno dei suoi: Sarah non è più una cameriera indifesa ma una combattente cazzuta con Terminator “Papà” Schwarzenegger che l’aiuta a eliminare i robot mandati nel passato. La cosa sarebbe anche interessante se non fosse che non si sa chi ha mandato Terminator Schwarzy a salvare Sarah da bambina: nessuno sa chi è la misteriosa figura che li aiuta. Altro elemento affrontato in modo che lascia perplessi sono le diverse linee di futuro che si sovrappongono, rendendo il quadro poco chiaro.
In realtà, una domanda ce la si pone: perché si mandano Terminator in epoche differenti? Se si conosce il futuro, perché Skynet dopo che il primo Terminator ha fallito, non ne rimanda altro nello stesso punto sapendo questa volta come agire?
Tale domanda però vale solo se il futuro non può essere modificato, perché se può essere modificato, allora con la fine di Terminator 2 tutto si conclude: Skynet viene distrutto e non c’è più una IA che manda indietro nel tempo dei robot.
Ma si sa che i viaggi del tempo sono materia complessa e c’è da farsi venire il mal di testa (vedere quello che ha fatto la Marvel con Avengers: Endgame), quindi meglio non indagare troppo. E allora si arriva a Terminator- Destino Oscuro che lascia perdere i Terminator 3,4,5 e riprende i fatti dal 2. Skynet è sì stato distrutto, ma al suo posto c’è un’altra intelligenza artificiale, perché l’umanità non ha imparato dai suoi errori e ha creato (di nuovo) qualcosa capace di distruggerla; non si sa allora perché dopo la vittoria sui Terminator del 1995 si sono continuati a mandare nel passato dei T-800 fino a quando John Connor non è stato ucciso nel 1998 (e al diavolo il fatto che la sopravvivenza di John Connor fosse vitale). Nel 2020 praticamente si ripete la storia di Terminator 2: un Terminator viene mandato per uccidere la ragazza che sarà madre del capo della resistenza. La resistenza manda una soldatessa potenziata per proteggerla. Se non che alla trama si aggiunge una Sarah Connor invecchiata che viene avvisata da una fonte misteriosa quando e dove un Terminator sta per comparire. Le tre si troveranno a combattere contro un Terminator mutaforma (il Rev-9, che ha anche la capacità di sdoppiarsi), avendo come alleato il T-800 (Schwarzenegger) che terminata la sua missione omicida con John è rimasto nel passato e ha sviluppato una coscienza vivendo insieme agli esseri umani. I combattimenti si ripeteranno sulla falsa riga di Terminator 2, con lo scontro finale che vedrà il sacrificio del T-800 e della soldatessa venuta dal futuro per salvare la ragazza e fermare il Rev-9.
Terminator – Destino oscuro, prova a rinverdire la serie, ma fallisce nel suo obiettivo. Stancamente ripete cose già viste e non si avvicina lontanamente ai fasti di Terminator 2, anche se punta tutto sul girl power e ripropone la coppia Hamilton/Schwarzenegger. Neppure la presenza di Cameron alla produzione serve a qualcosa: la serie di Terminator, quella vera e fatta bene, è finita con i primi due film. Per il botteghino invece la storia non è finita dato che, salvo sorprese dell’ultim’ora, nel 2023 uscirà Terminator 7.

Another

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AnotherAnother è una serie animata horror interessante, cui si mescolano elementi alla Final Destination e Battle Royale. Tratta dalla light novel ideata da Yukito Ayatsuji e pubblicata nel 2009, vede le vicende incentrate sulla terza classe della sezione C della Yomiyama Nord, scuola media della cittadina di Yomiyama, attorno alla quale c’è una strana atmosfera e accadono eventi a dir poco oscuri (da qui in poi SPOILER). Se ne accorge quasi subito Kōichi Sakakibara, da poco trasferitosi da Tokyo per via del lavoro di suo padre (che si svolge in India), vivendo con i nonni materni e la zia. Subito ricoverato in ospedale per un pneumotorace, riceve la visita dei due rappresentanti della classe che dovrà frequentare e dell’addetta alla contromisure; contromisure di non si sa cosa, ma non gli viene spiegato e nemmeno lo chiede. Mentre è in ospedale fa l’incontro in ascensore con una ragazza taciturna che porta una benda sull’occhio: si tratta di Mei Misaki, che sta andando all’obitorio per portare qualcosa a una persona che si trova lì. La incontrerà di nuovo a scuola, essendo compagni di classe, ma è come se lui fosse il solo a vederla, dato che nessun altro, né gli studenti della 3 C nè i suoi professori, interagiscono con lei. Misaki è restia ad avere a che fare con lui, se ne sta sempre isolata, e quando Sakakibara fa per avvicinarsi a lei i compagni cominciano ad avere atteggiamenti strani, al punto che viene avvisato di non avere a che fare con ciò che non esiste.
Sakakibara viene a sapere una strana storia cui è legata la sua classe: ventisei anni prima, uno studente modello, ben voluto da tutti, muore in un incidente con la sua famiglia. Lo shock è così forte che sia gli alunni sia i professori continuano a far finta che esista, al punto che alla consegna del diploma anche il preside fa mettere una sedia per lo studente morto. La cosa strana è che nella foto di gruppo della consegna compare anche il ragazzo deceduto, benché appaia molto pallido.
Quello che era sembrato un gesto di buon cuore, in un qualche modo apre un passaggio per la morte e dà il via a una maledizione sulla classe che si ripete anno dopo anno: alcuni studenti della classe, dei loro parenti e anche dei professori cominciano a morire in circostanze tragiche. Il tutto perché nella classe c’è una persona in più: una persona che è morta. Nessuno sa chi è (nemmeno il morto sa di essere tale) e tutti hanno degli strani vuoti di memoria che fanno dimenticare eventi del passato. Ed è proprio questa mancanza di memoria che rende difficile spezzare la maledizione. Per farlo, si fanno dei tentativi e ciò che finora pare dare i maggiori risultati è quello, per far essere la classe senza una persona in più, d’ignorare uno studente come se non esistesse.
La contromisura però comincia a non funzionare dal momento in cui Sakakibara, non informato dei fatti, continua a parlare con Misaki, facendo sì che lei sia riconosciuta come persona esistente. Almeno, così ritengono i compagni di classe.
Per diverse puntate lo spettatore si fa l’idea che Misaki sia una sorta di fantasma, dato che pare che solo Sakakibara interloquisca con lei; anche Sakakibara ne ha il sospetto quando va a vedere una sorta di museo delle bambole e là la incontra, ricordandosi che l’anziana all’ingresso l’aveva avvertito che era l’unico avventore presente. Ma seppure strana, Misaki è una persona come lui e ha una particolarità: da piccola ha perso un occhio e la madre (la creatrice delle bambole del museo che ha visitato) per sostituirglielo gliene ha fatto uno di vetro, il quale le permette di vedere cose invisibili, che lei chiama il colore della morte (nella cultura giapponese, e non solo, chi perde un occhio può vedere cose che sono celate agli altri).
L’atmosfera surreale, quasi di sospensione, che si ha nelle prime puntate viene bruscamente interrotta quando Yukari Sakuragi, la rappresentante femminile della classe, esce dall’aula dopo essere stata chiamata da un professore e vedendo insieme Sakakibara e Misaki si spaventa e correndo giù dalle scale inciampa e muore cadendo sull’ombrello, la cui punta le trapassa il collo. E qui Another mostra i punti in comune con la famosa serie di Final Destination, con la morte che comincia a perseguitare i personaggi, facendogli fare le morti più assurde e violente.
Poco dopo Sakuragi, tocca all’infermiera che è stata gentile con Sakakibara in ospedale (e che è sorella di uno dei suoi compagni di classe), e che cerca di aiutarlo a scoprire cosa si cela dietro la 3 C: morirà nella caduta dell’ascensore che stava usando, sfracellandosi quando esso raggiungerà il suolo. Sarà poi la volta di Ikuo Takabayashi, compagno di Sakakibara malato di cuore, che nel momento in cui cerca di dirgli la verità, muore d’infarto. Poi toccherà a un loro professore che si suicida davanti a loro.
Il meccanismo della maledizione pare essersi messo in moto e sembra non esserci più nulla da fare, ma si scopre che il fenomeno quindici anni prima era stato fermato; Reiko Mikami, zia di Sakakibara, aveva frequentato la 3 C in quell’anno (e il fatto che la frequentasse colpì sua sorella, madre di Sakakibara, che morì dando alla luce il figlio) e quindi fa avere un incontro con chi era riuscito ad arrestare la maledizione. Lei, assieme al nipote, Mei e qualche altro compagno di classe vanno all’hotel sul mare dove Katsumi Matsunaga lavora; ma Katsumi non si ricorda come fece, solo che aveva lasciato un indizio nella vecchia scuola. Seppure lontani dalla cittadina, la morte sembra averli raggiunti fin lì e Junta Nakao, uno dei ragazzi che ha seguito Sakakibara, muore tranciato dalle eliche di una barca (ma si rivelerà che le cause della sua morte sono in realtà dovute a un trauma cranico avvenuto mentre scendeva le scale di casa: se fosse andato subito in ospedale, non avrebbe perso conoscenza in acqua e non sarebbe stato investito dalla barca).
Sakakibara, assieme a Naoya Teshigawara e Yūya Mochizuki, trovano nella vecchia scuola l’indizio prezioso: in un nastro, Matsunaga ha registrato cosa è successo quindici anni prima. Andati in gita in un vecchio tempio (dove anche l’attuale 3 C andrà) con la speranza di spezzare la maledizione, sono stati colti da un temporale (che manco a dirlo ha mietuto vittime); mentre erano lì, Matsunaga ha litigato con un altro compagno, uccidendolo accidentalmente. Ne rimane sconvolto, ma nessuno dei compagni restanti si ricordava dell’ucciso; tornato dove aveva lasciato il compagno, non trova più il suo corpo e allora capisce che quello che ha assassinato era il morto che quell’anno faceva parte della classe, la persona in più. A quel punto comprende come fermare la maledizione: restituire il morto alla morte.
Con questa consapevolezza, Sakakibara e i due amici si apprestano a fermare la calamità (nel mentre ci sono state altre morti alla Final Destination), ma le cose giunti all’hotel degenerano all’improvviso. La cassetta è stata scoperta e il segreto divulgato: in molti credono che il morto sia Mei e comincia una caccia sfrenata in stile Battle Royale. La follia degenera tra i ragazzi e non solo: la proprietaria dell’hotel uccide il marito (erano parenti di un ragazzo della 3 C) e comincia a braccare i ragazzi. L’hotel va a fuoco. C’è chi muore cadendo dalle finestre, chi schiacciato da un pilastro o un lampadario, chi impiccato a cavi elettrici, chi trafitto da schegge di vetro, chi pugnalato o colpito in testa da una spranga di ferro. Il morto verrà trovato e si rivelerà essere qualcuno d’inaspettato, anche se di indizi ne erano stati dati.
La maledizione è stata fermata per il momento, ma tornerà a colpire le classi 3 C del futuro, per questo chi è sopravvissuto, prima che la memoria svanisca, lascia un indizio per chi verrà per fare sì che la tragedia sia arrestata per tempo.
Another è, come già detto, una serie interessante; non un capolavoro, ma sa il fatto suo. Inquietante, a tratti angosciante, in alcuni momenti pure splatter: di certo non annoia. Magari all’inizio è un po’ lento, e ha delle accelerate improvvise che colpiscono (anche se alcune ce le si aspetta una volta capito il meccanismo alla Final Destination), però il senso di mistero iniziale funziona e riesce a protrarsi fin verso il crescendo finale.
Qualcuno potrà obiettare che la decisione in Another di far sparire la memoria quando il morto torna in vita sia una forzatura, ma bisogna calarsi anche un poco nella cultura giapponese e al modo in cui le maledizioni delle loro storie funzionano. Per chi è abituato agli horror all’”occidentale”, Another potrà risultare strano, come strani lo sono tutti gli horror giapponesi per chi ha questo tipo di sguardo, ma se si cerca di calarsi in una cultura diversa dalla nostra, allora questa storia prende e coinvolge. Consigliato.

Prima persona singolare

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Recensire Prima persona singolare, una raccolta di racconti di Haruki Murakami, potrebbe risultare un lavoro di analisi schematico e magari noioso; otto brani che alternano momenti autobiografici ad altri che scivolano nel fantastico, tutti scritti in prima persona, dove la musica fa sempre da contorno alle vicende. Preferisco invece soffermarmi su due estratti che mi hanno colpito e che trovo molto reali e vicini.

Quel che trovo strano, avanzando negli anni, non è tanto il fatto che sia invecchiato io; che abbia raggiunto l’età che ho senza neanche rendermene conto, io che fino a ieri ero un ragazzo. A sorprendermi è piuttosto constatare come i miei coetanei – soprattutto tante belle ragazze piene di vita che vedevo intorno a me quando eravamo giovani – siano ormai in età da avere due o tre nipotini. Ogni volta che ci penso provo un senso di indefinibile meraviglia, ma a volte anche di tristezza. Benché non mi rattristi affatto il pensiero di essere io, anche io, anziano.
Se veder invecchiare quelle che un tempo erano delle adolescenti mi deprime, forse è perché mi obbliga ad ammettere che i miei sogni di ragazzo si sono spenti. E quando i sogni muoiono, in un certo senso per una persona è ancora più triste che non morire realmente.

Forse, se avessi letto qualcosa del genere diversi anni fa, non avrei sentito le stesse cose; ma con l’avanzare dello scorrere del tempo, del lasciarsi alle spalle la giovinezza, le cose cambiano. Qualcuno potrebbe ritenere l’affermazione esagerata visto che si è da poco superati da poco i quaranta, e in una società che vuole essere eternamente giovane può risultare stridente, ma la realtà è che, lo vogliamo o no, il tempo passa e fa lasciare indietro molte cose. Spesso risulta difficile accorgersene guardando se stessi, perché non ci si sente tanto cambiati, ci si sente quelli di sempre, anche se i cambiamenti ci sono stati; solo che i cambiamenti, se non sono drastici, avvengono poco per volta e si depositano in un modo che non fa rendere conto che sono avvenuti, perché non ci si è fatto caso dall’essere portati avanti dal condurre la quotidianità. Però, se ci si ferma a osservare, si vede che le cose sono cambiate e anche noi stessi siamo cambiati: non proviamo più piacere nel fare delle cose che un tempo invece ci entusiasmavano, non abbiamo più quel modo di vedere che prima ci sembrava così unico e insostituibile. A ciò alle volte ci si arriva da soli, ma spesso avviene quando s’incontrano delle persone che non si vedono da tempo e allora si è costretti a vedere che il tempo ha lasciato il suo segno, che ha cambiato quelle persone che avevamo visto in un certo modo; a quel punto si è costretti ad accettare la realtà, che gli anni passano e reclamano un tributo da pagare. E questo tributo sono i sogni e le aspettative che si avevano e che ora sono solo ombre e ceneri; come dice Murakami, tutto ciò è molto triste, forse perché è una forma di morte che sta preparando a quella definitiva; forse è proprio vero quel detto che da quando nasciamo non facciamo altro che muovere dei passi verso la cessazione dell’esistenza, anche se in mezzo ci sono tante cose da incontrare, perché, se non fosse così, il cammino umano sarebbe davvero amaro.

Tutti noi, chi più chi meno, viviamo con una maschera sul viso. Perché senza maschera, non saremmo in grado di far fronte a questo mondo violento. Dietro la maschera di un demone si cela il volto di un angelo, e dietro la maschera di un angelo quello di un demone. Non si può essere solo l’una o l’altra cosa. Siamo fatti così.
Questo pezzo invece fa pensare che forse non siamo mai veramente noi stessi, che indossiamo delle maschere per non mostrare agli altri il nostro vero io; alle volte le si usano anche per nascondersi a se stessi. Forse viviamo in un unico immenso carnevale dove ognuno mette la maschera che preferisce per mostrare quello che vuole ma che non è quello che si è realmente. Qualcuno lo potrà fare per divertimento, ma i più attuano questa mascherata per protezione, per difendersi dal giudizio altrui, per timore della non accettazione; la parola che ricorre spesso è paura, ma può essere davvero questo il solo motivo per cui si agisce in una certa maniera, per cui non si fa vedere tutto quello che si è davvero? Perché si sceglie di mostrare alcune cose di sé e altre le si tengono nascoste? Vergogna? Alle volte, sì. Ma anche perché, a differenza di una società social che vuole condividere tutto e mettere in mostra qualsiasi elemento, fisico o emozionale, ci sono delle cose che devono rimanere segrete, che solo l’individuo che le possiede può conoscere.

1. Prima persona singolare. I libri del Corriere della Sera, 2022. Pag. 43
2. Prima persona singolare. I libri del Corriere della Sera, 2022. Pag. 101

elezioni del 25 settembre

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elezioni del 25 settembreSulle elezioni del 25 settembre, dopo la caduta del governo, c’è poco da dire: siamo al grottesco. Si va di male in peggio e se tutto va bene siamo rovinati; luoghi comuni che vengono usati appositamente perché si è di fronte a una classe politica formata da gente affamata di potere e basta, dei cani rabbiosi che si azzannano l’un l’altro dimenticandosi della posta in gioco, ovvero l’interesse dei cittadini (bisognerebbe chiedere scusa ai cani per l’accostamento fatto, perché meritano molto più rispetto di queste figure che starebbero bene nel Bagaglino; anzi, starebbero male pure lì. E ci si domanda se vale la pena davvero andare a votare). Ma così è se vi pare e questa è la realtà in cui siamo immersi, che siamo costretti a vivere; purtroppo non siamo in Matrix (e se fosse una simulazione, sarebbe di quelle davvero scadenti, fatta con scarso budget, tanto per fare qualcosa perché lo richiede il mercato). Pertanto, visto che non fanno altro che perculare, meritano di essere perculati.

Ma se qualcuno volesse un video che analizza un po’ di più quanto la politica italiana è caduta in basso, e quanto queste elezioni del 25 settembre facciano schifo, ecco il seguente.

Ready Player One

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Ready Player OneReady Player One è un inno nerd: c’è poco da girarci attorno. Adattamento del romanzo del 2010 di Ernest Clive, il film del 2018 di Steven Spielberg è una godevole pellicola che si può apprezzare appieno se si è nerd e si ha una discreta conoscenza di tutto ciò che è retro di film, musica, giochi, fumetti, serie tv, cartoni animati; un lungo omaggio alla cultura che va dagli anni Settanta a quelli d’inizio Duemila. Di certo per Spielberg non è stata una passeggiata avere tutti i diritti per i tanti elementi da citare. Da Terminator a Shining, da Gundam a Il Gigante di Ferro, da Ritorno al futuro a Hellboy, da Guerre Stellari a Jurassic Park e King Kong, per non parlare dei tanti videogiochi partendo dai primi dell’Atari a Halo e Doom: i riferimenti alla cultura pop sono tantissimi, al punto che qualcuno può sfuggire.
Visivamente è uno spettacolo, il ritmo è buono e anche la trama non è male, seppur nulla che faccia gridare al capolavoro (per intenderci, non bisogna pensare che si sia davanti a qualcosa di livello come Blade Runner o i primi due Alien); ma Ready Player One è un film d’intrattenimento e il suo lavoro lo fa egregiamente, magari si sarebbe potuto avere qualcosina di più con una caratterizzazione migliore dei personaggi, che risultano stereotipati, specialmente il cattivo della situazione (ma non è colpa della produzione, visto che nemmeno il romanzo eccelleva per questo).
Nell’anno 2045 la situazione sulla Terra è drastica: sovrappopolazione, inquinamento, indebitamento che si arriva ad avere una nuova sorta di schiavitù. Ci sarebbe da mettersi le mani nei capelli per risolvere i tanti problemi dell’umanità, ma sono davvero pochi quelli che si preoccupano di come far cambiare le cose: i più pensano di fuggire da una realtà da schifo immergendosi nella realtà virtuale di OASIS, un mondo creato dal genio di James Halliday, un individuo che non è mai riuscito a relazionarsi con gli altri e a trovare un suo posto nella vita, vivendo sempre in mondi di fantasia fin da quando era bambino. Alla sua morte, il suo avatar Anorak l’Onnisciente annuncia una gara per trovare un easter egg all’interno di OASIS, ma per arrivarci servono tre chiavi nascoste da conquistare in tre sfide sconosciute; chi lo otterrà avrà il controllo di OASIS e il suo intero patrimonio. Tanti si mettono alla caccia dell’easter egg, tra questi la multinazionale IOI, dello spietato e senza scrupoli Sorrento, un tempo dipendente di Halliday.
Le vicende si concentrano su Wade Watts, conosciuto in game come Parzival, grande estimatore di Halliday, di cui ha studiato e conosce tutta la vita. Assieme ai suoi amici di gioco Aech, Daito, Sho, cui si unirà poi Art3mis, riescono a trovare gli indizi per raggiungere le tre chiavi, ma la difficoltà non sarà soltanto questa, dato che Sorrento, dopo aver cercato di averli dalla sua parte, tenta di eliminarli. Si arriverà così alla sfida tra l’idealista e sognatore Wade e il cinico e affarista capo della IOI, cui non importa nulla di ciò che rappresenta OASIS, ma pensa solamente ai soldi su cui potrà mettere le mani. Quella che apparentemente è una gara tra “buoni” e “cattivi”, si rivelerà essere un ripercorrere la vita di Halliday, affrontando quei punti cruciali in cui lui ha commesso degli sbagli (non fare il salto con la ragazza che amava, scaricare l’unico amico che aveva, non riuscire a vivere la propria vita fuggendo in quella virtuale). Parzival e i suoi amici, che si faranno chiamare gli Altissimi Cinque per essere stati i primi a conquistare la prima chiave, guideranno una rivolta nerd contro la spietata multinazionale che possiede i Centri Fedeltà (dove chi ha debiti con l’IOI lavora fino a che non li estingue; gli orari disumani cui sono costretti a seguire possono portare alla morte, come successo al padre di Art3mis, la ragazza di cui Parzival s’innamora e che guida la resistenza), ottenendo la vittoria; diverranno proprietari di OASIS, Sorrento verrà arrestato e l’eroe Parzival starà con la sua amata. Il film ha anche una morale: va bene stare nei mondi virtuali, ma essi non potranno sostituire quella reale, quindi conviene viverla. Cosa giusta, peccato che ci si sia dimenticati come risolvere i problemi più grossi del pianeta, ma questo non era lo scopo della storia. Visto il cammino del protagonista e come supera la prova finale, il film sotto un certo aspetta ricorda un’altra pellicola, Willy Wonka e la fabbrica di cioccolato (1971).
Ready Player One fa il suo dovere d’intrattenimento, facendo passare due ore e passa piacevoli e divertenti; etichettato come appartenente alla fantascienza distopica, di distopia ha poco e si ha davanti a un gigantesco videogioco che racchiude tanti altri videogiochi e chicche di vario genere provenienti da ogni angolo della cultura popolare, musica compresa. I brani famosi che si sono aggiunti alla colonna sonora sono una goccia dell’oceano cui si poteva accedere (Springsteen, Bee Gees, Prince, per citarne alcuni), ma sono azzeccati; apprezzato che sia stato messo quel gran pezzo che è We’re Not Gonna Take It dei Twisted Sister.