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L'Arazzo di Fionavar

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L'Arazzo di FionavarDifficilmente possiedo due copie dello stesso libro; è capitato che mi sia stata regalata un’opera che già possedevo oppure che per salvare un libro che stava venendo buttato via lo abbia preso io (trovo sempre uno spreco che un libro finisca nella spazzatura), ma non compro praticamente mai ciò che ho già. Quindi, il fatto che abbia preso L’Arazzo di Fionavar nell’edizione Mondadori quando già avevo quella di Sperling & Kupfer è un evento più unico che raro.
Perché tale scelta?
Semplice: la trilogia di Guy Gavriel Kay mi è piaciuta e mi dispiaceva avere una sua copia rovinata. Anche se forse il termine rovinata non è appropriato: quello più giusto è logorata. Logorata dal tempo e dalle letture: purtroppo il rileggerlo più volte ha portato a far sì che le coste dei libri si rovinassero e che fosse necessario rincollare le pagine e le copertine. Specie nei libri in edizione economica, è cosa che può accadere, soprattutto dopo venti anni. Anche se venti anni (e passa) non è l’età dei libri di Fionavar pubblicati in Italia: è il lasso di tempo da cui sono in mio possesso, da quando li trovai nell’usato. La loro reale età è quasi di trenta anni, dato che sono stati pubblicati nel nostro paese tra il 1993 e il 1994.
Questo aspetto puramente pratico può sembrare sciocco, ma per me questa trilogia meritava un secondo acquisto, dato quanto ha saputo dare: trovare tanti anni fa l’intera trilogia in uno stato abbastanza buono fu una fortuna, perché quella scritta da Kay è una storia notevole, ricca e profonda (se si vuole, c’è questo approfondimento in proposito). In tre libri lo scrittore canadese è riuscito a fare quello che Jordan e Martin hanno realizzato in molti più romanzi; anzi, si può dire tranquillamente che la sua opera è diverse spanne superiore ai lavori degli altri scrittori citati. Perfino Sanderson, che è attualmente uno dei migliori scrittori di fantasy, fa fatica a raggiungere un tale livello, perché nelle opere di Kay c’è una poetica difficilmente riscontrabile in altri lavori.
Per questo non sono assolutamente d’accordo con Massimo Scorsone, autore dell’introduzione della nuova edizione Mondadori di L’Arazzo di Fionavar, quando parla di saga acerba. Anche il paragonare, seppure alla lontana, la saga di Kay a Le Cronache di Narnia di Lewis è una stonatura:
“I quattro fratelli Pevensie, re e regine dell’allegorico paracosmo lewisiano, possono ricordarci in modo molto approssimativo i cinque studenti dell’università di Toronto protagonisti loro malgrado della saga acerba e malinconica – acerba e malinconica come qualcosa che ci pare già di conoscere, o di cui non fatichiamo a intuire la natura profonda – intessuta sull’arazzo di Fionavar per destini individuali tragicamente divergenti.” (1)
Questi due lavori non hanno nulla in comune, a parte il fatto che dei ragazzi dal nostro mondo arrivano in un reame fantastico attraverso un passaggio magico (in Narnia avviene in modo casuale, in Fionavar è qualcosa di voluto): avendo letto entrambe le opere, posso dire tranquillamente che non possono essere fatti paragoni tra le due. Inoltre, usare l’aggettivo acerbo per descrivere la trilogia di Fionavar non solo è ingiusto, ma anche scorretto, visto che il lavoro di Kay è l’esatto opposto: è maturo, molto maturo, ha una profondità che ben pochi altri lavori hanno. Non solo perché Kay sa scrivere molto bene, ma perché l’autore possiede una conoscenza di quello che scrive davvero ampia. Non per niente, è stato scelto per completare Il Silmarillion di J.R.R.Tolkien.
Volendo trovare una nota dolente alla nuova e bella edizione di L’Arazzo di Fionavar (come in altri lavori, l’editore mostra grande cura ai dettagli e alla qualità della realizzazione, basti vedere le belle illustrazioni interne di L’Arazzo), proprio l’introduzione di Scorsone è la nota dolente: scritta in un linguaggio troppo ricercato e complesso, non solo non fa rendere conto a chi prende in mano per la prima volta l’opera di Kay che cosa ha davanti, ma non gli fa neanche venire voglia di proseguire nella lettura del volume. Un’introduzione del genere non rende giustizia alla magnifica storia di Fionavar, non dà niente, anzi, toglie qualcosa: la voglia di leggere. Quindi sarebbe meglio non mettere qualcosa del genere, che sembra quasi compiacersi di se stessa e della difficoltà che presenta nel farsi leggere, e lasciare che l’opera parli da sé, visto che sa farlo più che bene. Ma se proprio si vuole fare un’introduzione, che si faccia in maniera adeguata e la si faccia scrivere a chi ha davvero amato il mondo di Fionavar, la sua storia, i suoi personaggi, così da poter raggiungere coloro che ancora non conoscono questa piccola grande meraviglia.

1. L’Arazzo di Fionavar. Guy Gavriel Kay. Mondadori 2022, pag.8

I bambini che inseguono le stelle

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I bambini che inseguono le stelle, conosciuto anche come Viaggio verso Agartha, è un film d’animazione di Makoto Shinkai del 2011 ed è un puro omaggio alle opere di Hayao MiyazakiI bambini che inseguono le stelle: sia i temi, sia i disegni (vedere per esempio gli Isoq e i Quetzalcoatl) il regista si rifanno al collega. Non che questo sia un male, anzi: visivamente I bambini che inseguono le stelle è magnifico, con paesaggi che tolgono il fiato e fanno sognare. Il film sa trasportare gli spettatori, li sa ammaliare con le sue immagini, tuttavia non ha la stessa intensità di altre opere di Shinkai come Your name, Il giardino delle parole e su tutti 5 cm al secondo.
Asuna è una ragazzina orfana di padre, con la madre infermiera che ha poco tempo di occuparsi di lei e per questo è maturata in fretta; vive in un paesino di campagna e spesso si reca tra i boschi fino a un rifugio dove con una radio rudimentale capta una strana canzone. Un giorno viene attaccata da una creatura mostruosa e salvata da un ragazzo misterioso poco più grande di lei: è da lì che viene alla conoscenza de mondo di Agartha, un mondo sotterraneo che in qualche modo è legato all’aldilà.
Shun, il salvatore misterioso, poco dopo muore perché ha osato salire sul mondo di sopra e Asuna si ritrova coinvolta in una vicenda oscura, con Arch Angel, un’organizzazione segreta che vuole trovare il modo di entrare ad Agartha e il cristallo che ha Asuna sembra essere legato al loro obiettivo. Di tale organizzazione fa parte il professore di Asuna, Ryūji Morisaki, che sfrutta Arch Angel perché secondo le storie ad Agartha c’è il modo per far tornare indietro i morti, come succede nei miti di Orfeo ed Euridice e Izanagi e Izanami (a seguire SPOILER sulla storia.)
Asuna, Ryūji e Shin, fratello minore di Shun intervenuto per impedire che qualcuno entri ad Agartha, si ritrovano a viaggiare in un mondo in rovina a causa degli abitanti della superficie che per secoli l’hanno saccheggiato: gli abitanti di questa terra non li vedono di buon occhio e tentano in più occasioni di eliminarli.
Ryūji finalmente riesce a scoprire il segreto per far tornare in vita i morti e così realizzare il suo sogno: riavere la moglie scomparsa. Ma tutto ha un prezzo: occorre che l’anima della defunta si impossessi di un essere vivente. Il professore è disposto a tutto per riavere l’amata, anche a sacrificare Asuna e a perdere un occhio, ma l’intervento di Shin evita il sacrificio, perché, come dice urlando, i vivi sono più importanti dei morti.
Asuna, che scoprirà la verità su suo padre, tornerà in superficie, mentre Shin e Ryūji resteranno ad Agartha (fine SPOILER).
Il viaggio iniziatico che fa crescere il giovane, l’entrare nella grotta per scoprire un mondo nuovo e soprattutto nuove conoscenze che lo cambieranno, il rapporto tra amore e morte, il sapere quando rinunciare i propri sogni e andare avanti lasciando andare ciò che è passato: sono tutti temi presenti in I bambini che inseguono le stelle (titolo che indica l’inseguire qualcosa d’irraggiungibile), senza dimenticare l’amore per la natura e la denuncia verso quella mentalità dell’uomo che rovina sempre tutto perché per avidità vuole possedere tutto quello su cui mette gli occhi.
In definitiva, I bambini che inseguono le stelle è un buon film, senza essere originale, che comincia in maniera interessante e poetica, ma che poi vira verso qualcosa di già conosciuto e non poteva essere diversamente, dato che si tratta di un omaggio.

N.P.

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N.P. di Banana YoshimotoBanana Yoshimoto con N.P. (che sta per North Point, il titolo di una canzone) realizza una storia dove Kazami, un giovane che lavora all’università e fa traduzioni, si trova a vivere un’estate particolare, coinvolta, non volendo, in una vicenda che sembra essere un racconto. E infatti, le cose non sono molto lontane dalla realtà.
Tutto nasce quando viene in possesso del novantottesimo racconto inedito dell’opera N.P. di Sarao Takase, scrittore giapponese che è vissuto per anni in America e che è morto suicida, proprio come Shoji, l’uomo con cui Kazami stava ai tempi della scuola e che stava lavorando alla traduzione del racconto. Una storia che parla dell’incesto tra padre e figlia e che ha un effetto turbante su chi ci ha a che fare, generando emozioni oscure, che arrivano a schiacciare, a distruggere. Kazami, rincontrando i due figli gemelli di Sarao Takase, Otohiko e Saki, scopre che il primo ha una relazione con Sui, che altro non è che l’altra figlia di Takase avuta con un’altra donna. Figlia con cui ha avuto una relazione, proprio come narrato nel racconto.
Invischiata in un intreccio che a tratti toglie il fiato e offusca la visione delle cose, Kazami si ritrova a sviluppare legami con questi tre personaggi, rimanendone affascinata, coinvolta, a tratti anche travolta, specialmente con Sui, dotata di una forza e una fragilità che incute non poco timore.
Con sempre più apprensione, Kazami si ritrova a temere che il legame che c’è tra Otohiko e Sui li porti a fare la stessa fine del padre e non va molto lontano dalla verità: solo qualcosa d’inaspettato eviterà il peggio, ma non potrà fare nulla con la rottura che ne seguirà. Non sempre però le rotture sono un male: anzi, alle volte hanno qualcosa di salvifico e di liberatorio.
Banana Yoshimoto in N.P., come in altri suoi lavori, parla della vita di tutti i giorni, che in apparenza può sembrare semplice, non avendo nulla di meritevole da ricordare, ma dimostrando come in realtà, dietro la facciata del quotidiano, si nascondono mondi interi di pensieri e sentimenti, rendendo la lettura densa e affascinante, portando il lettore a divorare una pagina dopo l’altra.

Dare il peggio di sé

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“Questa pandemia tirerà fuori il meglio delle persone” è stato il ritornello che tante volte è stato ripetuto da politici e forze di governo: non si sapeva se definirlo un motto nato dall’ignoranza o dal prendere in giro. I fatti, com’era logico prevedere, hanno smentito tali parole: infatti tante persone hanno dato e stanno dando il peggio di sé.
Perché si dice che era logico prevedere che si sarebbe mostrato il peggio e non il meglio?
Perché culturalmente gli italiani hanno avuto come esempio che si poteva fare tutto quello che passava per la testa, tanto non sarebbe successo nulla, tanto le cose sarebbero andate lisce. Quando si metteva in guardia che il modo di fare di Berlusconi non solo avrebbe causato danni nell’immediato, ma avrebbe avuto conseguenze anche a lunga scadenza, non si è voluto ascoltare, si tacciava chi faceva questi ammonimenti d’invidia, di accanimento. I fatti hanno dimostrato che il ventennio berlusconiano ha portato un peggioramento del mondo del lavoro con la legge Biagi, la perdita di credibilità dell’Italia a livello internazionale, scandali a non finire, soldi pubblici usati per fini privati, una classe politica sempre più becera e incompetente, ma non solo: sotto il martellamento costante dei media, molta gente ha assimilato i comportamenti portati a esempio da quelle forze di governo, perpetrandoli, e così ci si è ritrovati ad avere a che fare non più con un solo Berlusconi, ma con tanti Berlusconi che ritengono che sia lecito fare di tutto.
Il risultato è che sperare nella responsabilità delle persone italiane non ha dato i risultati sperati; questo appellarsi all’essere responsabili è stato sciocco e cieco, ma molto probabilmente è stato dovuto alla mancanza coraggio di fare delle scelte necessarie. Ne è esempio su tutti la questione vaccinale: dopo aver rifiutato per un anno di rendere obbligatoria la vaccinazione per evitare contestazioni, ma soprattutto per evitare di perdere voti (perché, non ci si dimentichi, che per i politici italiani si è sempre in campagna elettorale, dove tutto serve per portare consensi dalla propria parte), ora si è deciso di utilizzare l’obbligatorietà del vaccino. In tutto questo ci hanno sguazzato critici e virologi e sembra quasi grottesco che alcuni di quelli che auspicavano l’obbligatorietà ora dicano che l’obbligatorietà non serve a niente. In parte è vero: si è agito troppo tardi e adesso non si possono avere quei benefici che si avrebbero avuto se ci si fosse mossi per tempo. L’unica cosa che si è ottenuta è di aver logorato la pazienza degli italiani, di averli resi più insofferenti e meno tolleranti, perché davvero il tamtam fatto con le vaccinazioni è stato esasperante. Se a questo ci si aggiunge il continuo cambiamento delle regole a seconda dell’estro del momento o di quello che facevano altri paesi, si capisce perché il livello di esasperazione si è innalzato di molto.
Esempio di ciò lo è in questi giorni il mondo del calcio, con fatti che hanno dell’assurdo. Le varie Usl locali hanno fermato squadre come Torino, Udinese, Salernitana con alcuni casi di covid, non consentendo così di giocare le partite da disputare; l’Usl di Verona invece ha dato il via libera libera alla squadra della città (il Verona appunto), nonostante fosse il team con più contagiati (undici). Ora, è chiaro che c’è qualcosa che stride, perché ognuno non può fare come gli pare, serve un modo di agire uniforme; dinanzi a tutto ciò, le istituzioni sportive dimostrano la loro incapacità di guidare, proprio come fa il governo. Salvo poi mettersi a fare la voce grossa quando tutte le cose sono avvenute e non si può fare più nulla. Davvero assurdo quello capitato a Bologna: la Usl mette in quarantena il Bologna (otto positivi al Covid) che non può disputare la gara. L’Inter, nonostante sapesse già che non si sarebbe giocato, scende lo stesso in campo; l’arbitro dopo quarantacinque minuti dichiara la fine della gara con la probabile vittoria a tavolino dei nerazzurri. A questo punto o il Bologna farà ricorso e allora si deciderà quando rigiocare la gara oppure verrà deciso direttamente quando riguocare la gara. Ma visto che da giorni si sapeva qual era la situazione delle squadre, non si poteva rinviare la giornata di campionato da disputare per l’Epifania, come per esempio avevano già fatto nel basket senza tante polemiche e casini?

il peggio dei novax

raid vandalico dei novax all’hub di San Lazzaro di Savena

Ma si sa che al peggio non c’è limite e occorre assistere all’imbecillità dilagante di tante persone. O forse è qualcosa di peggio d’imbecillità: è delirio, è follia. Perché è folle minacciare di morte chi si occupa della salute dei malati, è folle aggradire infermieri e dottori che fanno il loro dovere. Semplicemente è pura follia presentarsi con gli avvocati ai pub vaccinali e tempestare di domande, prendendo nota delle risposte, in stile terzo grado gli operatori che vi lavorano; come è folle che i pazienti dicano ai dottori come debbono essere curati senza avere basi se non ciò che hanno sentito dire in rete.
Tutto quello che sta accadendo è fortemente sbagliato. Altro che tirare fuori il meglio delle persone.
Ma forse si tratta di una semplice omissione o di un qualcosa che è sfuggito ai più dato, dato che probabilmente si voleva dire che questa pandemia avrebbe tirato fuorio il meglio del peggio delle persone.