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Il magazzino dei mondi 2

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Incontri al tramonto 2

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che rientrano nei miei interessi.
La prima riguarda la pubblicazione della seconda parte di 1Q84 di Haruki Murakami: sono curioso di leggere la conclusione di un romanzo che ho trovato coinvolgente e veramente ben fatto, con storia e personaggi davvero molto belli.
La seconda riguarda il film Imaginaerum realizzato dai Nightwish: ho apprezzato molto l’album e adesso aspetto di vedere cosa è saltato fuori con la pellicola cinematografica.
La terza è l’ormai attesissima conclusione di La Ruota del Tempo con A Memory of Light, iniziata da Robert Jordan e portata a termine da Brandon Sanderson: una storia epica che ha saputo mostrare un mondo vasto che affonda nel mito e nella leggenda, con personaggi che lasciano un segno in chi legge.
Concluso il monumentale lavoro, Sanderson potrà dedicare le sue energie al secondo capitolo di Le Cronache della Folgoluce: in questo caso ci sarà da attendere un pò di più, visto che lo scrittore americano deve terminare il lavoro, pubblicarlo e cosa non da poco venire tradotto in Italia.
Attesa che si spera giunga presto a risoluzione anche per l’edizione italiana dell’ottavo volume della saga Malazan di Steven Erikson, Toll the Hounds: lo scrittore ha concluso da un anno la serie e sarebbe tempo che Armenia, la casa editrice che ha pubblicato in Italia finora le sue opere, cercasse di mettersi in pari, magari evitando di spezzare come ha già fatto in tre occasioni i volumi in due parti. Un’attesa che risponde agli studi fatti sul mercato interno, ma che, di fronte alla bontà dell’opera, risulta ingiustificata. Come sempre la qualità a discapito del guadagno: ma in questo caso non si è di fronte a un esordiente su cui si hanno timori che non dia i risultati sperati, bensì a uno scrittore di livello internazionale che ha dimostrato quanto il suo lavoro possa dare guadagno.
Che sia tempo di cambiare modo di fare è evidente; che lo si sia capito invece è un altro paio di maniche.


L’Ultimo Potere – Secondo Atto – XV Scacchiere (parte 2)

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«Allora adesso vuoi iniziare a giocare la partita?»
«Solo continuare: altri l’hanno già cominciata.» Dallo schieramento nero Maestro tolse quattro pezzi. «La torre e il cavallo dell’avversario sono già stati abbattuti.»
«Non ti resta che far cadere il re.» Dedusse Guerriero.
«Alla fine questo avverrà, ma il compito per cui sono qui riguarda l’alfiere: non si può lasciare in circolazione un nemico del genere. Quello di cui ti ho parlato adesso è soltanto un fronte di un piano più ampio: ce ne sono altri due, ma di questo se ne occuperanno altri.»
«Bene, bella spiegazione.» Guerriero si mise a braccia conserte. «Ma perché tutto questo parlare?»
«Oh, tu lo hai già capito.» Sorrise furbescamente Maestro. «Ma ora rispondi a questa domanda. Negli scacchi, che pezzo vorresti essere? O pensi di essere?»
Guerriero fissò a lungo la scacchiera prima di rispondere. «Nessuno.»
Gli occhi di Maestro si socchiusero. «Perché?»
«Perché non mi piace essere parte di qualche schema, non mi piace essere usato. Io voglio essere libero.»
Maestro portò l’indice a coprire la bocca. «Al di fuori della Tela.» Borbottò tra sé. «L’Osservatore che guarda dall’alto senza avere coinvolgimenti. Non s’identifica in alcun pezzo, bensì nel Giocatore.»
«Cosa stai dicendo?» Sbottò Guerriero.
«Niente.» Liquidò la domanda Maestro, ma all’altro non sfuggì la sua espressione soddisfatta. «Torniamo alla questione che stavamo affrontando. Dovresti conoscere la storia recente del nostro mondo, ma lascia comunque che ti ragguagli di nuovo sui fatti passati: ti aiuterà ad avere una comprensione più chiara. Adesso vedi il caos, ma un tempo c’erano ordine e schemi che regolavano ogni funzione di vita, rendendo tutto regolare e sotto controllo; almeno in apparenza. In realtà era un sistema malato già allora e quanto ora vedi è la malattia che era in incubazione: un tumore che stava silenziosamente lavorando. Molti hanno contribuito a crearlo e molti hanno voluto non vederlo; alcuni si stavano rendendo conto che c’era qualcosa di sbagliato, ma non avevano la forza o la volontà di agire. Il risultato è che il tumore ha continuato a lavorare e presto si sarebbe rivelato nella sua totale virulenza, fino a far giungere la fine. Fu a quel punto che qualcuno decise di intervenire, risoluto a estirpare il male infettivo: una terapia d’urto, brutale, ma efficace. Com’era naturale che fosse, andando al cuore delle cose si creò scompiglio: gli organi vitali, ormai infetti, furono tolti, sostituiti con dei nuovi.»
«Stai facendo una lezione di chirurgia?»
«No, ma il paragone tra il corpo umano e il mondo è giusto, dato che praticamente sono la stessa cosa, solo vista più in grande.» Maestro sorrise mestamente. «Se non fosse stato per una volontà che non aveva nulla d’umano, tutto sarebbe passato inosservato.»
«Significa che furono i Demoni la causa scatenante?»
«No, i Demoni allora non c’erano; almeno non come li conosciamo adesso. Ma di questo te ne parlerò dopo. Quello che devi capire è che gli uomini hanno creato quel sistema con l’intento di vivere meglio, ma poi non sono riusciti a tenerne il controllo. O meglio, il controllo è stato affidato alle mani di pochi, che lo hanno sfruttato per rendere schiava la gente. Un sistema gigantesco che non si curava di quanti stritolava sotto le sue ruote e tra i suoi ingranaggi: l’unico scopo era andare avanti, senza curarsi di nulla. Fu allora, prima che i danni fossero irreparabili, che sorse qualcuno a guidare il moto di rivolta per arrestare quella macchina infernale.»
«Stai parlando di un uomo?» Guerriero azzardò un’ipotesi, cercando di seguire le fila del discorso.
«Un tempo lo era stato, ma non è della sua natura che dobbiamo parlare, quanto dell’inferno che ha scatenato contro il sistema. E’ stato l’esempio che ha fatto scendere molti in campo nella lotta che ancora sta attraversando la Terra.» Sottolineò Maestro, per fargli rendere conto quanto fosse importante il punto. «Qualsiasi ordine si basa sul potere e per distruggerlo occorre colpire ciò che lo sorregge. Il primo potere a cadere fu quello economico, seguito da quello politico e di conseguenza di quello informativo.»
«Se la torre è il potere economico e il cavallo è quello politico, quello informativo allora che pezzo è?» Domandò Guerriero.
«Non ha una rappresentazione negli scacchi. È stato un mezzo usato dagli altri due per espandersi e crescere: senza questo strumento la loro forza era in parte limitata. Ma senza gli altri poteri a usarlo, il potere informativo perde forza e utilità. In realtà l’informazione avrebbe dovuto essere neutrale e riportare i fatti come avvenivano, non di piegarli in base alle esigenze dei potenti: era attraverso di essa che si promulgava il verbo dei governi, o meglio le menzogne con le quali s’ingannava la popolazione e si traviava la verità; con essa si facevano sorgere le paure, le fobie, i meccanismi per controllare le persone e condizionarle. Eliminata la politica, l’informazione ha perso la sua fonte principale di vita e quindi non ha più avuto modo di esistere: ne era divenuta dipendente al punto da non poter più sopravvivere da sola. Taglia l’albero e anche l’edera è destinata a morire.»
«Perché non usare la forza bruta per avere controllo sugli altri?» Lo interruppe Guerriero. «In questo mondo, chi è più forte sopravvive e domina.»
«Nell’immediato, forse. Qualunque sciocco potrebbe raggiungere tale obiettivo con la forza, ma riuscirebbe a mantenerlo alla lunga? Oltre che dispendioso in termini d’energia, si corre sempre il rischio di trovare chi è più forte.» Precisò Maestro. «E’ quello che non si può vedere che crea la forza. E la conoscenza nata dall’informazione può fare proprio questo: creare il dubbio o dissolverlo, dare il modo di consolidare una posizione o farla crollare. Se ci pensi bene, è un potere che non potrà mai essere distrutto: limitato, strumentalizzato, contorto a seconda di chi lo usa, ma ci sarà sempre. Tuttora è utilizzato per controllare la gente. Per questo, perché non diventi un danno, occorre eliminare chi ne fa un cattivo uso.»
«E così sono stati tolti di mezzo i detentori di tale potere.»
Maestro confermò le sue parole. «Dopo l’epurazione, i concetti di nazione, di popolo e di classe svanirono: le gerarchie furono spazzate via e ogni forma d’influenza d’uomini su altri uomini cessò di esistere. Le differenze furono appianate: fu un tornare agli albori, all’inizio della storia umana. Un reset necessario per attuare la salvezza e permettere agli uomini di tornare a vivere.»
«Perché prima non vivevano?» Guerriero sorrise in tralice.
«Erano in schiavitù. Non avevano catene fisiche come si può pensare e neppure erano tenuti segregati dentro a prigioni, ma non erano liberi. Erano condizionati nel modo di pensare, vestire, mangiare. Il pensiero, i desideri che avevano non nascevano dalla propria volontà, ma erano presi in prestito, imposti da altri. Erano divenuti greggi bovini, sballottati a destra e sinistra come più piaceva a chi era dietro al sistema. Per questo sono state eliminato le persone di potere; un lavoro non da poco, che ha richiesto tempo, ma alla fine i poteri economico e politico sono stati annientati e hanno liberato il mondo.»
«Solo per cacciarlo in questo inferno. La gente ha ringraziato?» Sorrise sardonico Guerriero.
Maestro lo fissò intensamente. «La gente nemmeno s’è resa conto del dono che le è stato dato; non ha fatto altro che piangersi addosso perché il bel gioco s’era rotto. E’ stata schiava troppo a lungo per poter apprezzare la libertà: la sua mente è stata talmente condizionata e imprigionata che ha voluto ritornare nella condizione in cui è sempre stata. Se avesse saputo per tempo quello che si stava facendo, avrebbe ostacolato, anche ucciso, pur di difendere quelli che considerava privilegi. Adesso paga lo scotto per non essere abituata a vivere secondo le proprie scelte: per troppo tempo è stata guidata e ora non è più in grado di stare in piedi con le proprie gambe. Non è più capace di pensare, di avere desideri e una morale propria: è confusa e allo sbando. E’ caos. Ma è un passaggio scontato e necessario per un nuovo inizio; anzi, in principio è sempre così.»
«E per far cominciare da capo c’era bisogno di questo macello?»
«Ogni atto di creazione nasce da un atto di distruzione: il vecchio deve morire per lasciare spazio al nuovo. Tu hai conosciuto solo rovina, ma in alcuni luoghi stanno nascendo culture diverse, mentalità incontaminate, libere dalle catene del passato. Sono piccole società cresciute all’interno degli Alveari, dove ogni persona dà un contributo e tutti sono importanti allo stesso livello: l’umanità si sta rialzando dalle sue ceneri e ne sta emergendo purificata. Il nuovo inizio è già presente.»
«Mi fa piacere, ma perché sei qui? Che cosa vuoi?» Guerriero manifestò senza mezzi termini il sospetto celato fino a quel momento.
«Questa società è giovane ed è ancora debole: basta un niente per essere spezzata. Ha bisogno di essere protetta: serve gente esperta in grado di farlo. Gente dura, che conosce la lotta e sia in grado di difendere ciò che è prezioso.»
«Difendere da che cosa? Hai detto che tutti i poteri sono stati distrutti.»
«Rimane ancora l’alfiere, il potere religioso. Nazioni, popoli, paesi, sono caduti, ma questo potere ha sempre resistito, attirando a sé ingenti masse e rafforzando sempre più la sua forza. Nonostante la rovina caduta sulla Terra, continua a persistere e le sue catene stringono a sé ancora molte persone.»
«E tu vuoi distruggerlo. Che cos’è che ti spinge? Il dovere?»
«La necessità. Perché è l’unico modo per dare compimento alla Caduta dei Poteri del Mondo, per dare una possibilità di vita all’umanità: colpire il cuore dell’ultimo potere rimasto ed eliminare il capo di questa gigantesca serpe.»
«E tu pensi che eliminando il capo tutto si risolva.» Commentò caustico Guerriero.
«Visto che si tratta di un Demone, sì.» Maestro confermò le sue parole.
Guerriero rimase di sasso. «Non si può combattere un Demone.»
«Certo che si può. Basta avere il potere giusto e tu lo possiedi: solo che non ne sei cosciente. Io te lo mostrerò.»
Lo sguardo di Guerriero s’incupì. «Finora non hai fatto altro che dare testimonianza di come il potere sia stato deleterio e ora vorresti che lo abbracciassi per combattere contro i Demoni. Vuoi per caso farmi incorrere nel loro stesso destino?»
«Nulla di tutto ciò.» Lo rassicurò Maestro. «Finora ti ho parlato dei Poteri del Mondo, ma ora ti sto parlando del Potere dell’Essenza, che è la forza di cambiare le cose. Ciò a cui mi riferisco è la capacità di lasciar scorrere l’Essenza liberamente, permettendole di trovare la forma che più le si addice; Essenza che permea ogni cosa, uomo compreso, e che racchiude l’energia dell’universo. Attingere a essa è trovare le armi per combattere i Demoni ed è una cosa totalmente naturale. I poteri del Mondo, invece non lo sono: anche se danno forza per ottenere ciò che si vuole, sono estranei all’Essenza, sono innaturali, un abominio al di fuori dell’ordine delle cose.»
«Essenza?» Chiese perplesso Guerriero.
«La conoscerai solo dopo aver risposto a una domanda.»
Guerriero incrociò le braccia al petto. «Quale?»
«Voglio sapere se tu vuoi unirti a questa lotta.»
«Lottare?» Guerriero s’alzò in piedi, allontanandosi dal tavolo improvvisato. «No: ho già lottato abbastanza. Sono stanco di combattimenti e sangue. Sono finito qua sotto solo per sfuggire ai Demoni e riprendermi dalle ferite, ma quando sarò guarito me ne andrò da questo inferno, lontano da ogni conflitto.»
«Puoi anche andare in capo al mondo, ma dovunque andrai la follia degli uomini e dei Demoni ti raggiungerà.»
«Non credo.» Disse Guerriero sicuro di sé e sfidando Maestro a contraddirlo. «Esiste un posto dove non c’è nulla di tutto questo, dove si vive in pace e in armonia, dove c’è tutto quello di cui si ha bisogno. Un posto che non è stato toccato dalla guerra e dall’odio, dove non ci sono Posseduti e Demoni.»
Maestro lo fissò a lungo. «Un posto del genere non c’è: dovunque sia arrivato l’uomo, là sono arrivati anche i Posseduti e i Demoni. E l’uomo è giunto dappertutto.»
«Quel posto esiste e io lo raggiungerò. Riuscirò a trovare Luna Azzurra.» Affermò con forza Guerriero.
Maestro ebbe un guizzo nello sguardo. «Luna Azzurra?»
«Sì, un luogo dove si sono radunati uomini che hanno creato una comunità armoniosa e serena: niente a che vedere con questo mondo.»
«Che certezze hai che non si tratti di un’utopia?»
«Queste.» Guerriero estrasse dalla tasca del giubbotto la busta plastica contenente le pagine ripiegate. «La conferma che Luna Azzurra esiste: in questi fogli è descritta la sua esistenza.»
Maestro sfilò i rettangoli di carta dall’involucro, spiegandoli e scorrendo le righe d’inchiostro sbiadito. «Stai inseguendo la descrizione di un sogno. Nient’altro.» Affermò conclusa la lettura.
Guerriero s’alzò in piedi. «Non importa quello che dici. Io la raggiungerò.»
Aveva appena voltato le spalle al suo interlocutore, quando le parole di Maestro lo colpirono come una pugnalata.
«Sconfiggendo la Testa della Bestia che sono venuto a combattere, si potrà costruire Luna Azzurra. Ma non prima.»
Guerriero tornò a guardare Maestro. «Che cosa stai dicendo?»
«Non è mai esistita Luna Azzurra.»
«Stai farneticando.» Ringhiò Guerriero. «Hai visto le prove.» Puntò il dito sui fogli di carta. «Queste pagine ne danno conferma.»
Maestro s’alzò in piedi, dirigendosi verso un cumulo di cartoni e scatole di legno ammuffito. «Sono parte di una storia inventata.» Rovistò per qualche secondo in mezzo alle scartoffie prima di tirare fuori un libro. «Controlla le pagine che hai tu con quelle che sono stampate qua sopra.»
«Che cosa vorresti dimostrare?»
«Fallo e basta.» Disse Maestro porgendogli il libro.
Guerriero prese tra le mani il piccolo tomo, sentendo sotto i polpastrelli la copertina ruvida e screpolata. Orizzonte Perduto, diceva il titolo in caratteri marcati sotto l’immagine di una donna e un uomo dalle sfumature bluastre.
Una sgradevole inquietudine prese a serpeggiare all’altezza del cuore, come il ricordo di una profezia a lungo dimenticata. Le dita si mossero refrattarie a far scorrere le pagine. I fogli di carta si susseguirono con snervante lentezza, arrivando a quelli che conosceva perfettamente. Trattenendo il respiro, lesse le parole che ormai conosceva a memoria. Le frasi scorsero veloci, divorate in pochi istanti mentre il sospetto si faceva più forte. Veloce raggiunse la quarta di copertina: una storia fantastica, gli balzarono subito agli occhi con lapidaria chiarezza le tre parole dell’inizio del paragrafo.
«Ma allora…» Stentò a parlare, non riuscendo a dare voce alla verità che si stava svelando.
«Mi spiace: è così che stanno le cose.»
Con mani tremanti, come se all’improvviso il piccolo libro fosse divenuto un peso insostenibile, Guerriero lo appoggiò sulla schiera di bidoni vuoti al suo fianco.
«Non si è trattato d’altro che di una fantasia di uno scrittore, un sogno che può trovare realtà solo nella mente di chi legge.» Mormorò atono.
«Sì, era solo un sogno.» Convenne Maestro. «Ma un sogno che può essere realizzato per davvero, se si ha fiducia, se si lotta per quello in cui si crede.»
Guerriero lo guardò come se lo vedesse per la prima volta e gli stesse parlando in una lingua sconosciuta. Indietreggiando di un paio di passi, come se avesse subito il più grande tradimento della storia, imboccò lo stretto passaggio che conduceva all’uscita, senza voltarsi indietro.

Il Cavaliere Oscuro - Il Ritorno

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O muori da eroe o vivi tanto a lungo da diventare il cattivo.
Era su queste parole che Il Cavaliere Oscuro scivolava vero l’epico finale che mostrava lo spessore del Batman realizzato da Cristopher Nolan: un eroe mascherato capace di sopportare di tutto, anche l’onta dell’infamia e della persecuzione perché tutti i sacrifici e le lotte contro il crimine non fossero stati vani e l’ordine potesse essere mantenuto in una città sull’orlo della rovina, già salvata in un’altra occasione da utopie distruttive.
Ma ogni azione comporta una reazione, ogni decisione ha un prezzo da pagare: una legge che vale per tutti, nessuno escluso. E così Bruce Wayne ha sulle spalle un carico di rimpianti, di dolore, di ferite sia fisiche sia psichiche che lo fanno allontanare dal mondo, dove non riesce più a trovare un senso a un’esistenza che è divenuta un lento trascinarsi senza uno scopo, senza una ragione d’essere. Persa ogni motivazione, se ne sta rinchiuso in un’ala del palazzo ricostruito dove un tempo era vissuto e cresciuto con i suoi genitori, distrutto una volta dalla Setta delle Ombre venuta a Gotham per attuare il suo piano di giustizia oscura: una sorta di riposo malinconico del guerriero, un lento spegnersi perché la guerra è stata vinta.
Ma c’è sempre una guerra pronta a scoppiare e il male risorge dove è stato seppellito, perché c’è sempre qualcuno che vuole vedere bruciare il mondo, dare attuazione ai suoi piani di conquista del potere. Ed è qui che entra in scena Bane, vera e propria macchina da guerra che non si ferma davanti a nulla, che usa e travolge chiunque gli si para sul suo cammino.
Di fronte a una minaccia del genere, Bruce Wayne si trova a dover vestire nuovamente i panni di Batman, costretto ad affrontare un avversario, non solo più forte fisicamente, ma anche più motivato, mosso da una rabbia che lui non ha più: una forza, quella della motivazione, capace di essere un potente alleato, senza la quale ci si ritrova avvolti dall’ombra della sconfitta, come il maggiordomo Alfred teme che avvenga, vedendo un Bruce logorato dalle battaglie, ma soprattutto dalle perdite. La vittoria contro il Joker ha lasciato ferite che non possono essere guarite, che hanno indebolito spirito e fisico e questo avrà le sue conseguenze nello scontro con Bane, un nemico di tutt’altro genere di quello affrontato in precedenza: perché se il Joker del crimine era la mente, Bane ne è invece il braccio, un esecutore che usa la forza bruta e un carisma che si chiama terrore per ottenere ciò che vuole. Un nemico che occupa la scena e lo fa bene; talmente bene che accentra tutta l’attenzione su di sé, distogliendo l’attenzione da chi tesse le trame di una macchinazione mortale.
Una macchinazione atta a colpire un sistema economico fatto di speculazioni e d’arricchimento sulle masse povere per permettere ai ricchi di diventare sempre più ricchi, che può sembrare anche giusta, ma che è solo una maschera per sfruttare il senso d’oppressione e di rivalsa delle persone comuni nei riguardi dell’elite in modo da far esplodere l’odio e generare quel disordine che distoglie lo sguardo da ciò che conta realmente. In un clima di rivoluzione stile francese, dove in apparenza si vuole dare potere al popolo, Bane esorta la popolazione a fare ciò che vuole, a prendere il destino nelle proprie mani e così conquistare la libertà, una sorta d’invito all’anarchia. Ma questa non è anarchia, come ben dice il protagonista della graphic novel V per Vendetta: questo è caos. Un caos che è ammantato dall’illusione della libertà di scelta, quando invece non c’è alcuna scelta, dato che si è comandati e condizionati dalla paura; una pura e semplice manipolazione come già avvenuto con Joker, che ha assunto una connotazione diversa, ma la cui natura è sempre la stessa.
La critica che Bane fa al sistema sarebbe giusta se fosse sincera, ma è solo una facciata, perché vuole sostituire il potere con un altro potere, vuole distruggere una dittatura per immetterne un’altra: questa non è giustizia. Bisogna sottolineare che il messaggio del film, come invece giornali e politici hanno voluto vedere strumentalizzando la pellicola, non è quello di Batman erto a difesa del capitalismo come unico sistema possibile per il mondo: si tratta di un eroe che difende gli innocenti, difende le persone perché non debbano subire soprusi, torti, violenze, perché non debbano soffrire a causa delle scelte sbagliate di altri come è toccato a lui quando era un bambino, facendosi difensore di chi non può difendersi da solo.
Un film meno cerebrale e profondo del precedente, ma non per questo superficiale, tutt’altro, ma di qualche spanna inferiore per il fatto che l’avversario di turno non è all’altezza di Joker, vera nemesi di Batman (e in qualche modo suo complementare): Bane è brutalità e violenza di grande forza d’urto, mentre quella di Joker era più subdola, più sottile. Con Joker si ha a che fare con un vera e propria mente criminale, un ottimo, anche se squilibrato, conoscitore dell’animo umano, capace di prevedere quasi ogni reazione di chi aveva davanti e di sfruttarla a proprio favore (a cui uno straordinario Haeth Ledger ha dato la migliore interpretazione possibile che un personaggio possa desiderare). Tuttavia Bane non è da considerarsi il cliché del nemico tutto muscoli e niente cervello: è un vero e proprio guerriero, che conosce i punti strategici del nemico, conosce il suo modo di agire e sa soprattutto che per indebolire la resistenza di una popolazione occorre colpire i suoi simboli: privata di fiducia e speranza, la si priva di spirito combattivo e pertanto la si rende incapace di ribellarsi, la si incatena rendendola schiava.
Catene che non sono forgiate solo dalla paura, ma che possono nascere anche dal rimorso, dal senso del dovere, dal seguire le regole, arrivando a essere così strette e pesanti che anche la strada che fino a un certo punto si riteneva giusta diventa qualcosa che va abbandonato, allontanandosi per trovare un nuovo cammino.
Il Cavaliere Oscuro – Il Ritorno è la degna conclusione della trilogia realizzata da Nolan, il punto d’unione in cui convergono i film precedenti, portando a termine un percorso lungo e non facile che ha fatto in un qualche modo venire a patti con il passato.

Ispirare il bene

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«Io dovevo ispirare il bene, non la follia, la morte.»
«Lei hai ispirato il bene, ma ha anche sputato in faccia alla criminalità di Gotham. Pensava che non ci sarebbero state vittime? Le cose peggiorano sempre prima di poter migliorare.»
«Ma Rachel, Alfred…»
«Rachel credeva in quello che lei difendeva, signore; in quello che noi difendiamo. Gotham ha bisogno di lei.»
«No, Gotham ha bisogno del suo vero eroe. E io ho lasciato che quello psicopatico assassino quasi lo spedisse all’inferno.»
«Motivo per il quale per ora dovrà accontentarsi di lei.»

Questo è il dialogo che si svolge tra il miliardario Bruce Wayne (Crhistian Bale) e il maggiordomo Alfred (Michael Cane) in Il Cavaliere Oscuro, il secondo film diretto da Christofer Nolan sul personaggio di Batman, uno dei momenti cardine di questa pellicola.
Un dialogo emblematico, che mostra il punto focale di questa storia: opporsi a ciò che è sbagliato è duro, comporta sacrifici. Resistere è logorante, alle volte si crede di non poter sopportare il peso di tutte le conseguenze che certe scelte comportano.
Ma è necessario che ci sia qualcuno che lo faccia, che dimostri che tutto questo è possibile, che occorre mettere un freno a tutto ciò che è sbagliato: corruzione, delinquenza. E per ottenere risultati bisogna combattere, non indietreggiare, saper opporsi a chi prevarica e vuole imporre il suo punto di vista, anche se si deve andare oltre ogni sopportazione, continuare anche se si viene odiati, anche se si deve essere emarginati, fare quella scelta che nessuno osa affrontare: la scelta giusta, che certo alle volte porta a essere soli, incompresi, alla quale si arriva a pensare di non poter resistere a tutto quello che comporta.
Ma se non c’è nessuno che lo fa, non ci sarà mai alcuna giustizia, alcuna equità: i prevaricatori continueranno a vincere e così continueranno a esserci vittime, sempre in numero maggiore. Ci sarà sempre un Joker pronto a sfruttare le debolezze e le paure della gente, pronto a dimostrare che in ognuno c’è quel mostro che lui rappresenta, pronto a far risaltare agli occhi di tutti che le persone sono egoiste, opportuniste, distruttrici, capaci solo di pretendere, di non avere valori, etica; un archetipo questo a cui non bisogna lasciare spazio perché altrimenti le cose non faranno che peggiorare, generando un caos in cui è impossibile vivere.
E d’individui come il Joker, dei Distruttori, l’esistenza ne è piena: persone con cui non ci si ragiona né si tratta. Persone il cui unico scopo è vedere bruciare il mondo. Uno tra gli esempi più lampanti, sotto gli occhi di tutti, senza andare tanto lontano, è Marchionne, un’ottima incarnazione di questo simbolo, che cambia sempre le carte in tavola, usando tutto e tutti per i suoi machiavellici piani. Ma si può guardare ad altri elementi dell’imprenditoria (Ilva per esempio) o della politica (la schiera dei suoi membri in questi ultimi anni è davvero numerosa). Occorre saper riconoscere archetipi come questi, perché l’esistenza di tutti i giorni ne è piena; soprattutto occorre saper riconoscere che questa può essere una componente del proprio carattere. Una componente che va sempre tenuta sotto osservazione e a cui va impedito di prendere il sopravvento.
Ma come ci si accorge che c’è un Joker in ognuno di noi, occorre accorgersi che esiste anche un Batman, una forza capace di contrastare la forza distruttiva che vorrebbe scatenarsi senza controllo: un’energia capace di preservare quanto è stato creato (e per chi ha amato la saga Mistborn di Brandon Sanderson, è facile cogliere la somiglianza con il dualismo che c’è tra Rovina e Preservazione).
Il Cavaliere Oscuro è come le opere teatrali dei greci: fa accorgere attraverso una finzione di un certo aspetto della realtà. Certo Batman è un personaggio dell’immaginazione, ma la sua storia inventata può insegnare quanto una storia reale. Anche se può sembrare un accostamento inappropriato, il suo resistere, sopportare incomprensioni, perdite, l’essere isolato, è quello di Nelson Mandela, che ha lottato tutta una vita, subendo anche il carcere, per creare un sistema più giusto, equo, senza divisioni interne, dove ci fosse unione, non separazione. E pure se è solo un frammento di ciò che è stata la sua vita, Clint Eastwood con Invictus è riuscito a cogliere in maniera abbastanza appropriata lo spirito di un grande uomo che è rimasto fedele a quanto ha creduto, che ha lottato per i propri ideali e grazie ai quali è stato d’ispirazione e aiuto per molti.

Un caso di coscienza e giustizia

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Da settimane l’informazione non fa altro che parlare del caso dell’Ilva, del braccio di ferro che c’è tra chi vuole chiuderla per effettuare la bonifica e chi vuole invece che la produzione continui; naturalmente è la parte imprenditoriale che vuole che gli stabilimenti continuino a lavorare (nonostante il danno perpetrato così a lungo), richiamando l’attenzione sui danni economici che il paese e l’occupazione subirebbe, evitando di far notare con cura che l’unica cosa chi gli preme è il tornaconto personale. Per ottenere quello che vogliono coprono le malefatte usando ogni mezzo, chiamano in causa il governo, pretendendo che il loro volere sia messo sopra tutto, perché non c’è niente di più importante. Un copione vecchio e conosciuto, come vecchio e conosciuto è il copione del fare i furbi, del non rispettare le regole per guadagnare di più: i ricchi vogliono diventare sempre più ricchi. Fanno il loro interesse: non sorprende.
Quello che invece potrebbe sorprendere è il fatto che altri che sapevano come andavano le cose, sono rimasti in silenzio; omertà che ha portato ai danni evidenti e per le quali ora si sta piangendo e gridando tragedia. Quelli di cui si sta parlando sono i lavoratori, che non potevano non sapere di come le regole non venivano rispettate, che hanno taciuto perché dovevano continuare così per non perdere il lavoro, perché dovevano mantenere la famiglia, dovevano avere i soldi per vivere, difendendo la ditta col pensiero di fare il proprio interesse. Ma così facendo non si sono accorti e non si accorgono che non lo stanno facendo, che difendono l’indifendibile, che stanno uccidendo la vita, stanno bruciando il futuro per sé, per i propri figli e per le generazioni a venire: per l’interesse dell’immediato, accecati dall’interesse personale, non riescono a vedere il quadro più grande. E quello che più fa pensare è che oltre a non riuscire a vederlo, se ne freghino pure, continuando a obbedire a un meccanismo mortale invece di ribellarsi e dare compimento a quella giustizia che troppo a lungo è rimasta da parte.
Un caso di coscienza e giustizia messo a tacere per una questione di soldi: un caso che ormai è diventato quotidianità, dove la maggioranza delle persone ragiona in questo modo. Ma a furia di piegarsi e accettare tutto quello che passa il convento in nome del guadagno, accetatre ogni richiesta di chi siede in posizioni di potere, si rimane con nulla in mano e si perde anche quel poco che si ha.

Incontri al tramonto

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Welcome to the NHK

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Welcome to the NHK (la sigla NHK fa riferimento alla tv pubblica e omonima società di trasmissione Nippon Hōsō Kyōkai, che però nell’opera diventa l’acronimo di “Nippon Hikikomori Kyōkai”, ovvero “Associazione degli hikikomori giapponesi”, dato che infatti il protagonista elabora la teoria per cui il business degli anime, dei manga, dei videogiochi e dei gadget, facilmente identificabile con la società NHK, è responsabile del fenomeno degli hikikomori, fornendo un universo parallelo in cui rifugiarsi, più bello e semplice della vita reale), l’anime tratto dall’omonimo romanzo realizzato da Tatsuhiko Takimoto, può non fare una gran impressione dopo la visione della prima puntata, data la comicità un po’ esasperata, molto da caricatura.
Eppure, nonostante un inizio non dei migliori, è un’opera da non lasciare perdere, che con l’avanzare della storia che vede come protagonista Tatsuhiro Satō, acquisisce profondità e maturità; non potrebbe essere diversamente, dato il tema trattato: l’hikikomori è un disagio molto diffuso in Giappone, una patologia alienante e inabilitante, che rende le cose più semplici e comuni come montagne insuperabili per chi ne è colpito. Un’opera che va ad analizzare questa patologia e la società giapponese in cui i fatti si sviluppano, mostrando una realtà fatta di molte ombre, affrontandola con un tocco delicato, ma incisivo. Una realtà che parla di solitudini che faticano a creare un dialogo tra loro.
E’ proprio la solitudine, l’incapacità di comunicare in una società che sacrifica l’individuo per la comunità, dove il sistema d’essere produttivi ed efficienti causa un malessere che porta a scompensi, disadattabilità, depressione, a fare ricorso ad alcool e psicofarmaci per rendere sostenibile una situazione che altrimenti sarebbe intollerabile. Un sistema così duro, insensibile, spietato che spaventa certi individui al punto da farli rinchiudere in casa per anni, tagliando i ponti con l’esterno, eliminando completamente i contatti umani, sviluppando nella propria mente una realtà alternativa dove non esistono dolori, ostacoli, cattiverie, frustrazioni.
Isolamento.
E’ questo che significa il termine hikikomori: stare in disparte, ritirarsi dal mondo. E’ questo l’atto di rinchiudersi in una stanza, il simbolo esteriore di una chiusura interiore, il ritirarsi in una camera segreta dove il mondo esterno, gli altri, non possono arrivare. I rapporti sociali diretti sono rifiutati e sostituiti con quelli della rete internet (chat, videogiochi online), compensati rifugiandosi nel mondo immaginario dei manga (una dipendenza, più che un hobby, come lo è invece per gli otaku, termine con il quale vengono definiti in Giappone gli appassionati del mondo dei fumetti e dei giochi di ruolo), un modo per sopperire alla mancanza di contatti con il mondo esterno.
Uno stato della persona non certo facile da superare e dal quale uscire, ma anche un segnale dell’ inquietudine del mondo, del disagio che esso possiede e che trasmette alle persone contaminandole, rendendole più deboli, più fragili: in un mondo sempre più di corsa, che non sa fermarsi e ascoltare, il numero crescente d’hikikomori, di persone che non vogliono avere a che fare con la società, dovrebbe essere un campanello d’allarme per riflettere su una situazione che presenta parecchie lacune. Il voler interrompere la comunicazione con gli altri da parte di questi individui è un monito di perdita d’umanità da parte dell’essere umano: perché quando si preferisce vivere in un mondo immaginario piuttosto che nella realtà, significa che la responsabilità non è solo di chi è diventato hikikomori perché non ha saputo trovare altro modo di reagire, ma un certo peso l’hanno anche le persone che erano in contatto con lui.
Anche se non parlano, se non comunicano direttamente, gli hikikomori stanno comunque effettuando una comunicazione; la mancanza di reazioni, i silenzi e l’ozio sono forme di dialogo, poiché portano con sé un significato e un messaggio. E’ attraverso il comportamento di Tatsuhiro Satō che viene mostrato come la vita è simile a una tartaruga che ritrae zampe e testa dentro il guscio, ammazzando il tempo con internet, tv, musica e videogiochi. Un’alienazione che è possibile solo grazie alla tecnologia, facendo di essa il centro della propria vita, rimanendo incollato sempre a una sedia davanti a uno schermo fuorché il tempo per dormire e per fare una passeggiata la sera al parco vicino a casa quando non c’è nessuno, per cercare di dimostrare a se stesso che non è un hikikomori. Ma la mancanza di contatti sociali lo rende vulnerabile agli altri, capace di farsi sfruttare con facilità, dato che il suo restare chiuso nel guscio creato lo ha privato di quell’esperienza che permette di rapportarsi con le persone e sapersi difendere; incapace di farsi valere e rispettare, si lascia condizionare e si fa trascinare in situazioni dalle quali spesso risulta difficile uscirne, se non grazie all’intervento altrui. Sato non ha carattere, non ha fermezza, si potrebbe definire un debole: è questa sua sorta di debolezza, questa sua passività, il subire senza che niente abbia veramente importanza, che lo porta ad accettare il “progetto” di Misaki Nakahara, un’adolescente misteriosa che da tempo lo osserva e che lo ha scelto perché considerato il candidato ideale per il programma di recupero che ha ideato per gli hikikomori (in realtà Misaki è una persona sola come Sato, che lo aiuta perché in questo modo sta aiutando se stessa, perché ha bisogno di sentirsi utile in qualcosa, ha bisogno di qualcuno che abbia bisogno di lei e così facendo ricevere quelle attenzioni di cui necessita e che non ha avuto all’interno di una famiglia che ha visto sfaldarsi pezzo dopo pezzo).
Stessa cosa succede quando rincontra Kaoru Yamazaki (scoprendo che è il suo vicino di casa dopo dei mesi che la vecchia conoscenza si era traferita nell’appartamento adiacente il suo), venendo coinvolto da lui nella realizzazione di un videogioco; un tentativo quello di Yamazaki di sfuggire dalla vita decisa per lui dalla famiglia, di costruirsi una propria esistenza senza doveri e oneri che non sente propri, di trovare nella sua passione per i fumetti e i videogiochi un modo per guadagnare e non dover seguire le orme dei genitori. Un’esperienza che lo ha reso cinico, vedendo gli altri come sfruttatori, dove non ci sono sentimenti, ma solo l’usare il prossimo per il proprio interesse; un’esperienza che lo ha reso incapace di credere che nelle persone ci possa essere del buono, che lo possano apprezzare per quello che è. Incapace anche d’accettare che la sorte, che tanto spesso gli ha causato ferite e delusioni, non riuscendo a realizzare sogni e aspettative, gli possa riservare qualcosa di positivo.
Ancora peggio potrebbe andare con Hitomi Kashiwa e Megumi Kobayashi, entrambe sue compagne di classe al liceo.
La prima, con la quale frequentava anche un club di letteratura e dalla cui frequentazione poteva nascere una relazione se si avesse avuto da entrambi le parti un po’ più di coraggio, lo trascina con un gruppo in quella che Satō ritiene essere una vacanza, mentre invece risulta essere il gesto di persone che hanno deciso di chiudere in maniera drastica con la società e la vita che conducono: gente che ha perso il lavoro, la famiglia, che non riesce a comunicare con nessuno lo stato che sta vivendo, non riuscendo a trovare più nessun interesse per la vita.
La seconda, rappresentante della sua classe liceale, riallaccia i rapporti con lui grazie al contatto virtuale avuto con il fratello, sfruttando la conoscenza passata e la sua condizione d’hikikomori per farlo entrare nel giro del multi-level marketing, così da estinguere i debiti contratti con la società per cui vende i prodotti, nella quale è entrata a seguito di lavori per i quali non era stata pagata e che aveva accettato per pagarsi l’università e mantenere il fratello (anch’esso vittima della società come altri e a lungo incapace di reagire in maniera appropriata).
Con questi due personaggi viene rappresentata, nascosta dietro indifferenza e cinicità, una disperazione profonda nel non vedere la fine del tunnel nel quale sono finiti, continuando ad andare avanti solo per inerzia, perché così fanno tutti; anche se possono sembrare dei carnefici, non sono altro che vittime come Sato, costrette ad arrancare in una vita che non gli dà alcuna soddisfazione, solo pesi da portare, non facendo altro che dare mazzate che spingono sempre più in basso. Eppure, è proprio quando si è nella disperazione più cupa, quando si è a terra completamente e si pensa d’aver perso tutto, che si trova quell’impulso a reagire e a cambiare modo d’affrontare la vita. Non c’è il finale felice delle favole, perché questo nella realtà non avviene mai, perché la vita è qualcosa di dolce e amaro allo stesso tempo, ma si raggiunge una certa serenità, un equilibrio che permette d’andare avanti trovando la felicità delle piccole cose che rendono più sopportabile le asprezze della società attuale.
Una piccola perla da non perdere, un’altra dimostrazione, come sempre più spesso sta avvenendo, che l’animazione non è solo intrattenimento per bambini e adolescenti.

L’Ultimo Potere – Secondo Atto – XIV Ceneri (parte 3)

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«In un mondo di fantasia…» La voce da bambino lo precedeva di una decina di metri, una nenia che veniva ripetuta sempre con lo stesso tono, come se si stesse cantando un brano di una canzone; l’uomo girovagava per la città sotterranea senza una meta, senza guardare dove andava, attento solamente a non andare a sbattere contro niente e nessuno. Guerriero aveva provato a comunicare con lui, senza ottenere risultati: l’altro ero chiuso in sé stesso e non si faceva avvicinare in nessun modo.
Una musica soffusa lo raggiunse facendolo voltare. In un ripostiglio illuminato solo dal riverbero di uno schermo piatto, un giovane se ne stava con lo sguardo fisso su quello che doveva essere stato un televisore o un monitor di un qualche elaboratore; salvo il tempo per andare a fare scorta di cibo, se ne stava sempre a guardare le immagini che scorrevano sullo schermo. Anche quando dormiva lasciava acceso il terminale.
Passando accanto alla porta aperta di quel piccolo mondo, Guerriero aveva lasciato che la curiosità prendesse il sopravvento, soffermandosi a guardare per capire cosa ci fosse di tanto eccezionale da vedere sullo schermo. Quelli che vedeva su di esso erano esseri umani disegnati con colori vividi; aveva sentito parlare da Vecchio di qualcosa di simile: lo aveva definito cartone animato. Sorpreso dalle figure, lo avevano rapito facendogli perdere per qualche minuto ogni contatto con la realtà.
Allarmato, si era riscosso dallo stato in cui era caduto, rendendosi conto di aver abbassato ogni difesa. In altre circostanze una simile disattenzione gli sarebbe costata cara, ma lì nessuno faceva caso a nessuno. Prestando più attenzione, era ritornato a fissare il monitor, limitandosi a guardare le immagini, dato che il linguaggio che sentiva gli era sconosciuto. Da quel che poteva capire da esse, la trama girava attorno a un gioco dove si doveva far passare una sfera in un cerchio posto a una certa altezza; il tutto si svolgeva tra due gruppi che correvano su un campo rettangolare. Un gioco strano e ancor di più gli abiti che indossavano le figure umane, che lasciavano scoperte gambe e braccia. Tuttavia doveva ammettere che era divertente, specialmente grazie al personaggio dai capelli rossi.
Non sembrava però che il ragazzo davanti allo schermo si divertisse. Se ne restava con gli occhi fissi, senza nessuna espressione: anche la cosa più divertente e bella del mondo, se vista tante volte poteva perdere il suo fascino. Tuttavia era pronto a scommettere che non si trattava solo di questo: era di fronte all’ennesimo caso d’individuo che si aggrappava a qualcosa cercando una parvenza di normalità, di sicurezza. Come tutti lì sotto: a poca distanza da lui un ragazzo e una ragazza se ne stavano rannicchiati sotto una grossa tubatura rivestita di vernice d’argento, abbracciati uno all’altra.
Dovunque guardasse non vedeva altro. La dimenticanza che sembrava pervadere quel luogo era soltanto una parvenza nascondente un disagio sopito come un animale pericoloso e che a tutti i costi si voleva far continuare a dormire. Quella gente non aveva dimenticato: non voleva ricordare. E forse non avevano tutti i torti.
All’improvviso s’accorse di non essere l’unico a fissare i due abbracciati assieme. Dietro il pilastro più vicino si scorgeva un ragazzo alto, magro, l’occhio spento e rassegnato, che accarezzava con lo sguardo la coppia. Come un cane bastonato si trascinò lontano da loro, andando a sdraiarsi su un divano di stoffa grigio-marrane, sformato e con molle sbilenche che fuoriuscivano da guanciali e schienali. Allungando il braccio verso la sedia vicina, la trascinò davanti ai cuscini su cui era sdraiato, sistemandola con cura. Aprì il mobiletto sopra lo schienale e da un ripiano estrasse un piccolo riscaldatore elettrico color beige. Un sottile ronzio si levò nell’aria mentre dall’apertura posta sul davanti appariva una lieve incandescenza; con cura lo sistemò sulla sedia, voltandosi verso lo schienale e rannicchiandosi in posizione fetale, in modo che il flusso di calore investisse completamente la schiena.
Guerriero rimase a fissarlo perplesso. Che fosse in qualche modo malato?
Per quanto logico fosse il ragionamento, lo scartò. Niente in quel posto apparteneva alla normalità, nemmeno i gesti più banali e scontati: anche il riscaldatore era un oggetto feticcio, qualcosa cui aggrapparsi. Ma che cosa rappresentava?
«Quello è Jasper.» Disse una voce alle sue spalle. «Fa sempre così, sia con il caldo sia con il freddo. Il più è farci l’abitudine. Ma anche se sei nuovo, dovresti averlo ormai capito.»
Guerriero si voltò, ritrovandosi a fissare un individuo dai capelli e dalla barba bianchi, entrambi corti.
«Non credevo che delle persone abitassero ancora nella città di sopra.»
«Non vengo dalla città: ci sono solo passato.» Rispose Guerriero sulla difensiva.
«Capisco.» L’uomo fece un cenno d’assenso. «E come vanno le cose di sopra? Noi di giù non saliamo mai su.» Rise della rima involontaria.
«Ormai è tutto deserto.» Disse Guerriero senza mostrare alcuna enfasi.
«Ah, tutto deserto.» L’uomo non mostrò alcuna sorpresa. «Naturale che finisse così.»
«Perché dovrebbe essere naturale?» Chiese Guerriero sospettoso. «E’ per via dei Posseduti, dei Demoni?»
«E’ possibile.» Azzardò l’altro con una scrollata di spalle.
«Non mi sembri convinto.»
«Infatti non lo sono. Siamo venuti ad abitare quaggiù prima dell’avvento di quegli esseri. Oh, sappiamo che cosa sono, anche se non ci abbiamo mai avuto a che fare: le voci circolano e arrivano sempre, in qualsiasi posto.»
«Quindi non siete scappati con la loro venuta?»
«No, no.» L’uomo sorrise. «Noi siamo venuti via dall’inferno prima della loro venuta, se vogliamo, si può dire che gli abbiamo lasciato il posto: eravamo stanchi di vivere lassù, non ci andava più bene l’esistenza di sopra.»
«E siete venuti qua sotto.»
L’uomo fece spallucce. «Un posto valeva l’altro. Purché fosse lontano da dove eravamo cresciuti, purché non vi avessimo più a che fare. Qua sotto nessuno veniva a cercarci: tanto ci bastava.»
«E perché?»
«Perché c’eravamo rotti le palle, ecco perché.» Il sorriso dell’uomo si fece sardonico. «Perché continuare a vivere nel mondo di sopra era da pazzi, perché lo stile di vita era sempre più inumano.»
«Allora siete scappati.»
L’uomo fece uno schiocco con la lingua. «Ci siamo ritirati perché sentivamo che non avevamo più un posto in quella che era considerata civiltà: un’esistenza aberrante a cui abbiamo deciso di smettere di partecipare. Ci siamo ritirati perché odiavamo quella società.»
Guerriero abbracciò con lo sguardo i macchinari funzionanti. «Eppure continuate a usare ciò che quella società ha lasciato. Se la odiaste veramente, non vorreste avere a che fare con qualsiasi cosa che venga da lei o l’abbia solo toccata.»
«Sarebbe un atteggiamento da sciocchi non sfruttare la tecnologia. In fondo noi non ce l’abbiamo con essa, ma solo con le persone che l’avevano creata per i loro tornaconti. Si sono dati tanto da fare e poi non l’hanno potuta sfruttare: cosa che facciamo noi, proprio quelli che avevano scartati. Davvero buffa a volte la vita.»
«Perché scartati?»
L’uomo, che doveva arrivare a malapena alla sessantina d’anni, rise di gusto. «Vigeva una legge nella società in cui sono nato: un individuo è qualcuno solo se utile, solo se può arricchire il sistema. Altrimenti è fuori del giro, come se non esistesse. Puff, dimenticato.» Con la mano fece il gesto di qualcosa che esplodeva. «Si diventava emarginati, invisibili. E tutto per creare cose come quelle che vedi. Alla fine, la macchina che doveva aiutare a vivere meglio, fece ruotare tutta l’esistenza attorno a essa, schiavizzando chi l’aveva creata: costruzione, mantenimento, manutenzione. Noi abbiamo sovvertito la legge: sfruttiamo le macchine fino a esaurimento e quando non servono più le buttiamo. Facciamo come facevano loro.»
«E così trascinate l’esistenza senza fare niente, solo per vendetta.»
Il sorriso dell’uomo svanì. «All’inizio è stato così, ma le generazioni che sono cresciute qua sotto non lo sapevano: hanno ripetuto quello che vedevano fare. E molti dei primi hanno dimenticato. Ormai pochissimi ricordano il motivo che ci ha spinto a vivere in questo modo. Siamo i resti di una società che si è irrimediabilmente bruciata: siamo le ceneri del mondo che è stato. Guardaci e capirai che è la verità.» Allargò le braccia per abbracciare tutto quello che era lì sotto. «Viviamo cercando di non fare nulla d’utile, abitando in ambienti trasandati, non facendo niente per migliorare la nostra condizione, facendo accavallare i giorni nell’immobilismo e nella decadenza, muovendoci solo per trovare da mangiare e ricercare oggetti che attirino la nostra attenzione: piccole fiammelle che rischiarano l’esistenza grigia e apatica, reminiscenza del calore umano di cui siamo stati privati e che non siamo più riusciti a trovare. E che ormai non è possibile più avere. La razza umana è morta. Morta dentro.» Si toccò il petto. «Siamo soltanto ceneri.»
«Non potrete vivere per sempre in questa maniera. Prima o poi tutto questo finirà.»
L’uomo scrollò le spalle. «Tutto ciò che ha un inizio ha anche una fine. Sappiamo che questo avverrà, ma non c’importa: ormai abbiamo lasciato andare. Non faremo più come i nostri predecessori, non ci consumeremo in un’unica, intensa fiammata. Meglio bruciare in fretta che spegnersi lentamente, è stato il motto che tanto li ha guidati. Ma non è il nostro, siamo andati all’opposto e non certo per ripicca: semplicemente abbiamo riflettuto e siamo giunti alla conclusione che non vale la pena darsi da fare. Lo scopo della vita è morire e visto il fine del dissolversi in cenere, ogni sforzo è vano.»
Guerriero strinse gli occhi. «Dite che niente ha importanza, che siete come un masso che continua a rotolare per inerzia lungo una discesa e che si fermerà quando l’energia che l’ha messa in moto si estinguerà.» Guardò le persone che aveva intorno. «Eppure il comportamento dimostra che non vi siete rassegnati del tutto al destino scelto. Il vostro spirito di sopravvivenza, pur se sepolto in profondità, non è morto e vi tiene ancorati alla realtà, anche se sono delle sciocchezze, come gli oggetti a cui molta gente si attacca.»
«Un buon discorso.» Ammise l’uomo guardandolo con attenzione. «Ma si vede che non conosci l’ambiente.»
«Credo invece di capire abbastanza bene la vostra situazione e se fosse davvero come dite, vi sareste già tolti la vita o trovato un modo per farla finita alla svelta; invece eccovi qua. Perché allora non provate a ricostruire una nuova società, diversa da quella precedente? Avete tutto quello che vi occorre.»
«Darci da fare?» Rise amaro l’uomo. «Abbiamo visto cosa ha creato il “darsi da fare”.» Sputò per terra. «E poi chi ci ha preceduto ha creato talmente tanta roba da farci campare di rendita. Quello che doveva essere l’essenziale, è stato prodotto in tale quantità da divenire superfluo: c’è troppo di tutto. Perché dovremmo dannarci, quando c’è già tutto quello che ci serve, pronto per essere usato?» Scrollò il capo. «Maledetti loro e la loro ossessione d’essere efficienti e produttivi; il dover fare a tutti i costi qualcosa d’utile per aumentare il benessere della società. Guarda!» Allargò le braccia come se volesse abbracciare i cumuli d’oggetti che s’alzavano fino al soffitto del magazzino. «Non hanno fatto che continuare a produrre, non si sono mai accontentati. Volevano di più, accumulando ingordamente: non gli bastava mai quello che avevano, dovevano aumentare la ricchezza giorno dopo giorno, in un’ascesa che non doveva mai avere fine. Sciocchi!» Sbottò seccato. «La montagna che si sono creati gli si è rovesciata addosso e li ha travolti; preoccupati di avere sempre più cose, non hanno saputo apprezzare quello che avevano ottenuto, finché non l’hanno perso. Guarda tutto quel darsi da fare, la cupidigia e l’avarizia, che cosa gli ha portato: sono altri a godersi i frutti delle loro fatiche. Ma in un mondo in rovina, dove tutto è stato perso, che cosa vuoi che importi la ricchezza? Possediamo di tutto, ma che cosa può fregarcene? Abbiamo perso noi stessi. Siamo soltanto cenere, sparsa nel grigiore dei quattro venti. Noi siamo i figli dei figli dell’era dell’economia e malediciamo i nostri genitori per averci dato un mondo del genere. Loro e la falsa ideologia in cui credevano.»
«Che ideologia?» Chiese Guerriero.
L’uomo lo guardò con sorriso sardonico. «Sei giovane e conosci solo questa rovina di mondo; per te questa è la realtà, ma ce ne sono state altre. La madre di quella in cui vivi era ricca, ma anche frivola e crudele: non guardava in faccia a nessuno e per imbellettarsi e vestirsi sempre più sontuosamente non si curava di camminare sulle carni di chi si era spezzato la schiena per arricchirla. Era bella, ma senz’anima. Identificava il suo essere con ciò che aiutava a vivere: il potere, la notorietà, la ricchezza. Vi era attaccata così fermamente, che era arrivata a credere che senza queste cose la vita non potesse esserci. La sua mente rifiutava di comprendere che erano solamente degli accessori, che l’esistenza poteva andare avanti senza di essi: la sua paura era che scomparsi questi elementi, se ne sarebbe andata anche lei. Così ne fece la sua ossessione e pensò che per sconfiggere la sua paura avrebbe dovuto avere una ricchezza che non aveva fine. Era talmente forte che si trasformò in un credo a cui aderirono milioni di fedeli: popolazioni intere fecero propria la sua ideologia, creando una società spietata, dove le persone scalzavano, schiacciavano e sacrificavano il fratello per salire sempre più in alto nelle grazie della signora. Fu una competizione mortifera: gli individui si scannavano tra loro per avere sempre di più. E alla fine persero tutto.» Si massaggiò gli occhi, come se ricordare avesse portato una grande stanchezza. «Questa è la storia che ti ha preceduto e che ha portato al mondo in cui vivi. Nessuno te ne ha mai parlato?»
Guerriero scosse il capo. «Non c’è mai stato molto tempo per simili racconti: troppo impegnati a sopravvivere per guardare al passato e studiarlo. Farlo sarebbe significato morire nel presente.» Disse con indifferenza. «Ma forse le cose non sono tanto cambiate da allora: ognuno pensa per sé, cercando di arraffare quanto più possibile per vivere. Nel tempo che hai raccontato ci si azzannava l’un l’altro per vanagloria; adesso per sopravvivere. Cambia il fine da raggiungere, ma il risultato è sempre lo stesso: sopraffazione e follia. I due mondi sono gli stessi, rami cresciuti dal medesimo albero; hanno indossato semplicemente un abito differente. Proprio per questo non vi viene in mente di creare qualcosa di diverso?»
«Abbiamo perso la voglia, l’iniziativa. E anche se l’avessimo, a che servirebbe? E’ già stato fatto di tutto, non c’è nulla da scoprire. Se provassimo a fare qualcosa, faremmo sicuramente qualcosa di vecchio e riprenderemmo a far parte del sistema di prima. Noi abbiamo detto basta con il passato: non intendiamo riviverlo.»
«E vi accontentate di questo?»
«Non è poi tanto male. Abbiamo quello di cui abbiamo bisogno e viviamo senza patemi. Ti sembra poco, visto quello che c’è là sopra? Qua non dobbiamo guardarci sempre le spalle, non dobbiamo pensare a difenderci o a scappare. Non abbiamo assilli o patemi; non dobbiamo scervellarci per sapere se possiamo fidarci di qualcuno: siamo sulla stessa barca. Chi giunge qua ha rinunciato a ogni ambizione e aspettativa: si lascia vivere in un lento abbandonarsi, accontentandosi di quello che incontra. Vogliamo solo essere lasciati in pace.» Spiegò con calma. «Sei giovane e certe esperienze non le hai provate. Certo, avendo vissuto nel mondo di sopra hai imparato molte cose, specie sulla follia e sul lato peggiore delle persone. Ma questo non è sufficiente a far conoscere tutto; perciò, lascia che ti faccia una domanda.»
Guerriero assentì con il capo.
«Tu vieni da là sopra: hai mai visto dei caseggiati grandi come campi, squadrati, molto lunghi e privi di finestre? Di solito ci sono delle spianate ricoperte di simili edifici.»
Di nuovo Guerriero assentì.
«Quelle si chiamano industrie. La gente vi stava rinchiusa per ore a lavorare, facendo sempre le stesse identiche cose tutti i giorni della settimana.»
Un brivido di repulsione scosse Guerriero.
caseggiati grandi come campi, squadrati, molto lunghi e privi di finestreL’altro se ne accorse. «Dalla tua reazione noto che ce ne sono ancora e che le hai viste.» Grugnì soddisfatto. «Mi domandi perché non abbiamo intenzione di fare nulla? La risposta l’hai avuta sotto gli occhi. Una vita da reclusi, da schiavi e per che cosa? Per arricchire una sola persona che si gode i proventi del lavoro, dando agli altri una minuscola parte dei profitti dopo che hanno svolto una giornata di fatiche. Non ne vale la pena.» Scosse il capo. «Se c’impegnassimo di nuovo a creare qualcosa e ad averla tra le mani, si arriverebbe al punto che anche gli altri comincerebbero a desiderarla, a volerla anche per sé. Arriverebbero a sentirne il bisogno, a pensare che potrebbe essergli utile in un qualche modo. A questo punto ci sono due strade per riuscire a ottenere l’oggetto del desiderio. Si cercherebbe di rubarlo, magari arrivando a uccidere, innescando una reazione che porterebbe di nuovo a un periodo di violenza e sopraffazione. Oppure, cercando di seguire una via più civile, si cercherebbe di produrla in gran quantità. E per coprire grandi volumi, occorrerebbe effettuare una produzione in serie, coinvolgendo un gran numero di persone nel processo di lavorazione. Ma prima di arrivare alla produzione bisognerebbe ricercare il materiale di costruzione, costruire i macchinari per lavorarlo, trovare l’energia per far funzionare questi ultimi.» Le labbra si piegarono su un lato, in un sorriso sghembo. «Inevitabilmente tutto ricomincerebbe da capo. E sarebbe di nuovo schiavitù. A questa e alla violenza è preferibile quella che si chiama apatia; non ci va di sprecare la vita per accontentare altri, per un semplice capriccio. Non ci va di tornare in un inferno che abbiamo avuto la fortuna di lasciarmi alle spalle.»
«Ma voi quaggiù avete già macchinari ed energia. Non mi sembra che vi abbiano reso la vita impossibile.» Fece notare Guerriero.
«Perché la maggior parte degli abitanti qua sotto ne ignora l’utilità e il funzionamento. È l’ignoranza che ci protegge.» L’uomo calcò con forza sull’ultima frase. «I vecchi fanno finta di non ricordare; i giovani non sanno. Molte delle cose quaggiù non vengono usate e le poche che lo sono, sono sfruttate finché non si rompono. Anche se c’è qualcuno che sa come ripararle, le lasciamo rotte, fingiamo di non poterci fare nulla perché altrimenti, se si accorgessero che alcuni di noi hanno la conoscenza, verrebbero costretti a usarla e saremmo di nuovo da capo: sarebbe di nuovo schiavitù, il sistema risorgerebbe. Ha fallito una volta ed è sufficiente: non vogliamo che ritorni. Abbiamo raggiunto una sorta d’equilibrio e vogliamo che rimanga. Non ce ne frega niente dello sfarzo, della gloria; non vogliamo rimirarci nelle nostre opere per alimentare il nostro ego, convinti di aver plasmato il mondo e di aver lasciato un’impronta indelebile nel tempo. Tutto finirà e sarà cenere alla cenere e polvere alla polvere, perché è questo ciò che spetta a ogni cosa.»
«Questa non è vita.» Mormorò Guerriero.
«Qualcuno ha forse detto che lo è?» Il sorriso dell’uomo era faceto. «Ma siamo stati messi da parte e lo abbiamo accettato; che le cose restino tali. Noi non abbiamo più parte alcuna nella storia.» L’aria divertita si smorzò, come se ogni energia fosse scemata. «Non è stata vigliaccheria rinunciare al mondo, ma una presa di coscienza. Ero giovane, ma già vedevo come andavano le cose: non mi servivano le parole d’altri per convincermene. Sono stato tra i fortunati a essere nato alla fine di quell’epoca: non ne ho avuto la vita rovinata. Come è stato per mio nonno: lui l’ha vissuta e non si è tratto di una bell’esperienza. Certo, i Demoni e i Posseduti non si manifestavano alla maniera attuale, ma esistevano anche allora. Meno potenti, meno appariscenti, ma il loro influsso era già forte, pur se non espanso come adesso; avevano la stessa capacità di rovinare la vita delle persone, di renderle infelici, di renderle oppresse.» Si lisciò la barba meditabondo. «Anche allora c’erano i Minosse e i Minotauri.»
«Minosse? Minotauri?»
«Esseri mitologici di un’era perduta, utilizzati come guardiani carcerieri di quello che nella mentalità comune era considerato inferno.» L’uomo scosse il capo. «La gente non s’è mai accorta che l’inferno era la vita che conduceva. Carceri, carceri ovunque: una serie infinita di prigioni. Ogni giorno ne uscivano da una per entrarne in un’altra. Ogni legame, ogni rapporto era una prigione: amicizie, famiglie, associazioni. Tutto era una parvenza per coprire uno sfruttamento perpetrato così a lungo da divenire un meccanismo automatico, un vivere quotidiano. Per questo dove siamo noi adesso, non vedrai mai cose del genere: perché non si ripeta quanto è successo in passato. Per questo non ci sono, o sono rari, legami famigliari, d’amicizie o quant’altro: in questo modo si sono eliminate le dipendenze e gli sfruttamenti. Ognuno è lasciato libero di fare e gestirsi come meglio crede, purché non danneggi un’altra persona.»
«La gente non era libera neanche allora.» Mormorò cupo Guerriero.
«Non lo è mai stata: ha solo avuto la parvenza di esserlo. In realtà, appena si muoveva, si ritrovava incatenata da pesanti ceppi che ne limitavano i movimenti, che la soffocavano.» L’uomo fece una pausa. «E tutto a causa d’altre persone che non accettavano di avere a che fare con dei simili, ma che volevano considerarsi degli esseri superiori, volevano sentire il gusto di poter disporre a proprio piacimento della vita altrui. In ogni ambiente c’erano di questi guardiani-carcerieri, dotati di un piccolo frammento di potere che sfruttavano al massimo: figure angoscianti che angariavano con la sola presenza le persone con cui avevano a che fare.»
«Se era così tremendo, perché la gente non si è ribellata?»
«Perché non ne era più capace; perché ormai era diventata come un animale a lungo in gabbia: spezzato, incapace di vivere lontano dalle sbarre. Quando sei in pezzi, non sei più in grado di muoverti: vieni mosso dove e come vogliono gli altri.»
«Non ha senso.» Mormorò Guerriero.
«E invece ne ha. Non si è più se stessi, non si è più liberi. Credi che alla gente piacesse lavorare nelle fabbriche? Assolutamente no. Lo disprezzava. E allo stesso tempo pregava, desiderava di avere un posto di lavoro perché ne aveva bisogno per vivere, per mantenere la propria famiglia, per avere un posto nella società. Era un martoriarsi indicibile: desiderare di avere quello che si disprezzava, anche se faceva star male, anche se rendeva infelici, costretti ogni giorno a umiliazioni pur di sopravvivere in un mondo che sapeva d’inferno. Gli individui hanno cominciato a odiare gli altri individui, sempre di più. E poi hanno cominciato a odiare se stessi: non si riuscivano più a vedere come essere umani, ma come automi che facevano cose programmate. Alla fine non sapevano più che cosa erano e sono impazziti. Da quel punto è nato il mondo che ci sta sopra, il vero inferno, non quello dell’immaginario collettivo. O forse è stata proprio l’immaginazione a crearlo: che differenza fa?»
Guerriero guardò fisso davanti a sé. «Desiderare ciò che non si vuole. Che assurdità.»
«Il mondo che è stato, è stato assurdo. In ogni sua espressione. Per questo i Demoni e i Posseduti sono proliferati e si sono rafforzati, come se fossero stati in una cultura batterica, coltivati perché si moltiplicassero. Noi ci siamo ritirati sotto terra per non esserne contagiati, per restarne immuni.»
«E se ti fossi sbagliato?»
«Mi vuoi prendere in giro? Non ti bastano i risultati?»
«Tu non c’eri. Non hai prove a tuo favore: quanto è stato sarebbe potuto succedere lo stesso.»
L’uomo sorrise. «Non credi a una sola parola di quello che hai detto. Ma ti dirò cosa mi ha fatto prendere la decisione di scendere sotto terra. Mio nonno.»
«Tuo nonno.» Ripeté Guerriero come se fosse una parola astratta, priva di significato.
«Già. Era una persona pacifica, tranquilla, non ha mai perso la calma. Ma quando raccontava del periodo in cui aveva lavorato in quelle fabbriche, la sua voce cambiava: si faceva ansiosa. E sul suo volto vedevi l’umiliazione e la rabbia che aveva vissuto.» Scosse il capo. «Solo una cosa tremendamente sbagliata poteva far avere a un uomo una reazione simile.»
Guerriero fissò le montagne d’oggetti che lo circondavano. Dopo qualche istante s’allontanò dall’uomo senza dire una parola.