Welcome to the NHK (la sigla NHK fa riferimento alla tv pubblica e omonima società di trasmissione Nippon Hōsō Kyōkai, che però nell’opera diventa l’acronimo di “Nippon Hikikomori Kyōkai”, ovvero “Associazione degli hikikomori giapponesi”, dato che infatti il protagonista elabora la teoria per cui il business degli anime, dei manga, dei videogiochi e dei gadget, facilmente identificabile con la società NHK, è responsabile del fenomeno degli hikikomori, fornendo un universo parallelo in cui rifugiarsi, più bello e semplice della vita reale), l’anime tratto dall’omonimo romanzo realizzato da Tatsuhiko Takimoto, può non fare una gran impressione dopo la visione della prima puntata, data la comicità un po’ esasperata, molto da caricatura.
Eppure, nonostante un inizio non dei migliori, è un’opera da non lasciare perdere, che con l’avanzare della storia che vede come protagonista Tatsuhiro Satō, acquisisce profondità e maturità; non potrebbe essere diversamente, dato il tema trattato: l’hikikomori è un disagio molto diffuso in Giappone, una patologia alienante e inabilitante, che rende le cose più semplici e comuni come montagne insuperabili per chi ne è colpito. Un’opera che va ad analizzare questa patologia e la società giapponese in cui i fatti si sviluppano, mostrando una realtà fatta di molte ombre, affrontandola con un tocco delicato, ma incisivo. Una realtà che parla di solitudini che faticano a creare un dialogo tra loro.
E’ proprio la solitudine, l’incapacità di comunicare in una società che sacrifica l’individuo per la comunità, dove il sistema d’essere produttivi ed efficienti causa un malessere che porta a scompensi, disadattabilità, depressione, a fare ricorso ad alcool e psicofarmaci per rendere sostenibile una situazione che altrimenti sarebbe intollerabile. Un sistema così duro, insensibile, spietato che spaventa certi individui al punto da farli rinchiudere in casa per anni, tagliando i ponti con l’esterno, eliminando completamente i contatti umani, sviluppando nella propria mente una realtà alternativa dove non esistono dolori, ostacoli, cattiverie, frustrazioni.
Isolamento.
E’ questo che significa il termine hikikomori: stare in disparte, ritirarsi dal mondo. E’ questo l’atto di rinchiudersi in una stanza, il simbolo esteriore di una chiusura interiore, il ritirarsi in una camera segreta dove il mondo esterno, gli altri, non possono arrivare. I rapporti sociali diretti sono rifiutati e sostituiti con quelli della rete internet (chat, videogiochi online), compensati rifugiandosi nel mondo immaginario dei manga (una dipendenza, più che un hobby, come lo è invece per gli otaku, termine con il quale vengono definiti in Giappone gli appassionati del mondo dei fumetti e dei giochi di ruolo), un modo per sopperire alla mancanza di contatti con il mondo esterno.
Uno stato della persona non certo facile da superare e dal quale uscire, ma anche un segnale dell’ inquietudine del mondo, del disagio che esso possiede e che trasmette alle persone contaminandole, rendendole più deboli, più fragili: in un mondo sempre più di corsa, che non sa fermarsi e ascoltare, il numero crescente d’hikikomori, di persone che non vogliono avere a che fare con la società, dovrebbe essere un campanello d’allarme per riflettere su una situazione che presenta parecchie lacune. Il voler interrompere la comunicazione con gli altri da parte di questi individui è un monito di perdita d’umanità da parte dell’essere umano: perché quando si preferisce vivere in un mondo immaginario piuttosto che nella realtà, significa che la responsabilità non è solo di chi è diventato hikikomori perché non ha saputo trovare altro modo di reagire, ma un certo peso l’hanno anche le persone che erano in contatto con lui.
Anche se non parlano, se non comunicano direttamente, gli hikikomori stanno comunque effettuando una comunicazione; la mancanza di reazioni, i silenzi e l’ozio sono forme di dialogo, poiché portano con sé un significato e un messaggio. E’ attraverso il comportamento di Tatsuhiro Satō che viene mostrato come la vita è simile a una tartaruga che ritrae zampe e testa dentro il guscio, ammazzando il tempo con internet, tv, musica e videogiochi. Un’alienazione che è possibile solo grazie alla tecnologia, facendo di essa il centro della propria vita, rimanendo incollato sempre a una sedia davanti a uno schermo fuorché il tempo per dormire e per fare una passeggiata la sera al parco vicino a casa quando non c’è nessuno, per cercare di dimostrare a se stesso che non è un hikikomori. Ma la mancanza di contatti sociali lo rende vulnerabile agli altri, capace di farsi sfruttare con facilità, dato che il suo restare chiuso nel guscio creato lo ha privato di quell’esperienza che permette di rapportarsi con le persone e sapersi difendere; incapace di farsi valere e rispettare, si lascia condizionare e si fa trascinare in situazioni dalle quali spesso risulta difficile uscirne, se non grazie all’intervento altrui. Sato non ha carattere, non ha fermezza, si potrebbe definire un debole: è questa sua sorta di debolezza, questa sua passività, il subire senza che niente abbia veramente importanza, che lo porta ad accettare il “progetto” di Misaki Nakahara, un’adolescente misteriosa che da tempo lo osserva e che lo ha scelto perché considerato il candidato ideale per il programma di recupero che ha ideato per gli hikikomori (in realtà Misaki è una persona sola come Sato, che lo aiuta perché in questo modo sta aiutando se stessa, perché ha bisogno di sentirsi utile in qualcosa, ha bisogno di qualcuno che abbia bisogno di lei e così facendo ricevere quelle attenzioni di cui necessita e che non ha avuto all’interno di una famiglia che ha visto sfaldarsi pezzo dopo pezzo).
Stessa cosa succede quando rincontra Kaoru Yamazaki (scoprendo che è il suo vicino di casa dopo dei mesi che la vecchia conoscenza si era traferita nell’appartamento adiacente il suo), venendo coinvolto da lui nella realizzazione di un videogioco; un tentativo quello di Yamazaki di sfuggire dalla vita decisa per lui dalla famiglia, di costruirsi una propria esistenza senza doveri e oneri che non sente propri, di trovare nella sua passione per i fumetti e i videogiochi un modo per guadagnare e non dover seguire le orme dei genitori. Un’esperienza che lo ha reso cinico, vedendo gli altri come sfruttatori, dove non ci sono sentimenti, ma solo l’usare il prossimo per il proprio interesse; un’esperienza che lo ha reso incapace di credere che nelle persone ci possa essere del buono, che lo possano apprezzare per quello che è. Incapace anche d’accettare che la sorte, che tanto spesso gli ha causato ferite e delusioni, non riuscendo a realizzare sogni e aspettative, gli possa riservare qualcosa di positivo.
Ancora peggio potrebbe andare con Hitomi Kashiwa e Megumi Kobayashi, entrambe sue compagne di classe al liceo.
La prima, con la quale frequentava anche un club di letteratura e dalla cui frequentazione poteva nascere una relazione se si avesse avuto da entrambi le parti un po’ più di coraggio, lo trascina con un gruppo in quella che Satō ritiene essere una vacanza, mentre invece risulta essere il gesto di persone che hanno deciso di chiudere in maniera drastica con la società e la vita che conducono: gente che ha perso il lavoro, la famiglia, che non riesce a comunicare con nessuno lo stato che sta vivendo, non riuscendo a trovare più nessun interesse per la vita.
La seconda, rappresentante della sua classe liceale, riallaccia i rapporti con lui grazie al contatto virtuale avuto con il fratello, sfruttando la conoscenza passata e la sua condizione d’hikikomori per farlo entrare nel giro del multi-level marketing, così da estinguere i debiti contratti con la società per cui vende i prodotti, nella quale è entrata a seguito di lavori per i quali non era stata pagata e che aveva accettato per pagarsi l’università e mantenere il fratello (anch’esso vittima della società come altri e a lungo incapace di reagire in maniera appropriata).
Con questi due personaggi viene rappresentata, nascosta dietro indifferenza e cinicità, una disperazione profonda nel non vedere la fine del tunnel nel quale sono finiti, continuando ad andare avanti solo per inerzia, perché così fanno tutti; anche se possono sembrare dei carnefici, non sono altro che vittime come Sato, costrette ad arrancare in una vita che non gli dà alcuna soddisfazione, solo pesi da portare, non facendo altro che dare mazzate che spingono sempre più in basso. Eppure, è proprio quando si è nella disperazione più cupa, quando si è a terra completamente e si pensa d’aver perso tutto, che si trova quell’impulso a reagire e a cambiare modo d’affrontare la vita. Non c’è il finale felice delle favole, perché questo nella realtà non avviene mai, perché la vita è qualcosa di dolce e amaro allo stesso tempo, ma si raggiunge una certa serenità, un equilibrio che permette d’andare avanti trovando la felicità delle piccole cose che rendono più sopportabile le asprezze della società attuale.
Una piccola perla da non perdere, un’altra dimostrazione, come sempre più spesso sta avvenendo, che l’animazione non è solo intrattenimento per bambini e adolescenti.
[…] è stato poi realizzato un manga nel 2005 e nell’anno successivo un anime, di cui ho fatto la recensione poco tempo fa. Come sempre accade con le varie trasposizioni, qualche piccola differenza […]