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L’Ultimo Potere – Atto Primo – VII Il guerriero della strada (parte 2)

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L’aria nella strada era immota. I raggi solari filtravano opacamente attraverso la pesante cappa d’umidità, battendo fiocamente sui vetri spezzati dei grattacieli.
Con la schiena appoggiata all’angolo del muro, se ne stava nell’ombra a scrutare l’incrocio delle strade sottostanti. Spostò il peso del corpo da un piede all’altro. Un’ultima occhiata per assicurarsi che la via fosse sgombra e poi scese sulla carreggiata. Scivolando per vicoli stretti e cumuli di macerie, arrivò al centro commerciale per vie traverse, evitando spiazzi aperti. Addossato al pilone di un portico diroccato, s’accertò che non ci fossero movimenti nelle vicinanze del parcheggio.
Uno scatto e si trovò di fronte alle serrande abbassate del centro commerciale. Camminando acquattato perché la sua immagine non venisse riflessa sui vetri scheggiati e crepati, percorse il lungo marciapiede fino all’angolo. Mucchi di cestelli con le ruote erano arrugginiti e ribaltati uno sull’altro: un ammasso contorto che somigliava a gigantesche ragnatele che si erano arrotolate su se stesse.
Attraversando il passaggio tra bancali marci e anneriti, arrivò alla pesante porta metallica che fungeva da ingresso secondario. Il pezzetto di legno era in bella vista sulla superficie scura del marciapiede, a diversi metri dal punto in cui era stato appoggiato alla porta.
Serrò le labbra con forza. Qualcuno era entrato.
Lentamente scostò l’uscio con la canna del fucile, sporgendosi oltre lo stipite per scrutare il corridoio. Calcinacci erano caduti dalle pareti e dal soffitto, lasciando ampi spazi grigi dove si erano staccati. In mezzo alla sottile polvere sparsa sul pavimento spiccavano le impronte.
«Maledizione.» Sussurrò chinandosi a esaminare la forma del piede artigliato.
Alzò lo sguardo, scrutando oltre la fine del corridoio: le tracce sparivano dietro le prime scansie. A quanto pareva si erano disinteressati delle porte laterali a pochi passi da lui.
Prese in considerazione l’idea di tornare sui suoi passi e approvvigionarsi in un altro momento. Certo, esisteva la possibilità che le tracce, benché fresche, risalissero a qualche giorno prima, ma la sensazione di disagio lo stava avvisando che erano all’interno del centro commerciale proprio in quell’istante: molto strano che si fossero mossi durante le ore diurne, solitamente si muovevano di notte, data l’avversione per la luce solare. O la loro fame era divenuta insopportabile, costringendoli a uscire dalle ombre e gettarsi alla disperata caccia di cibo, oppure qualcosa di pericoloso li aveva costretti a trovarsi un nuovo rifugio.
E se si erano scelti quel posto come covo, per lui era un problema.
Attraversò il corridoio fino ad arrivare a quanto rimaneva delle doppie ante della porta, sfondate da tempo, quando le masse spinte dalla fame e dal bisogno avevano preso d’assedio i centri commerciali, portando via tutto quello che poteva aiutarli alla sopravvivenza.
Guardò a destra e a sinistra, assicurandosi che la via fosse sgombra prima di procedere verso il fondo dell’edificio, tenendosi lontano dalla luce filtrante dalle vetrate.
Camminando rasente al muro, scrutò gli spazi tra le scansie vuote e contorte, lunghi canaloni ingombri di cartoni sfasciati e sacchi di plastica trasparente e polverosa. Il controsoffitto era crollato in più punti e lunghe lampade al neon penzolavano nel vuoto, sostenute da un unico filo metallico.
Il silenzio era come un deserto risuonante d’echi di memorie passate, spettri invisibili che facevano passare il loro alito sul freddo metallo e il cemento scrostato.
Con passo felpato aggirò una massa di rotoli di carta igienica caduti a seguito del cedimento dei ganci di una scansia. Abiti di bambini e biancheria intima femminile erano sparsi sugli scaffali come se un forte vento fosse entrato all’interno dell’edificio.
Non era così l’ultima volta che era stato da quelle parti.
Un suono ovattato, liquido, giunse da poco distante: sembrava il verso di qualcuno che stesse bevendo a collo da una bottiglia di plastica. Con l’arma spianata, si sporse oltre la copertura del pilastro bianco.
Una pozza ambrata si stendeva sul pavimento nello spazio tra le scansie, un lucore denso che scivolava lentamente a espandersi fin sotto i piedi metallici, alimentato dal rivolo mieloso della grossa tanica d’olio riversa con il fianco squarciato su una mensola sverniciata. La massa del liquido lucido era perturbata da strisciate: una lunga traccia d’impronte, dello stesso tipo trovato all’ingresso, s’allontanava in direzione delle vetrate.
Spostandosi dietro lo scheletro arrugginito di grosse impalcature crollate, attraversò un cimitero di frigoriferi ed elettrodomestici abbandonati: file e file di cubi e parallelepipedi lasciati a prendere strati e strati di polvere. Una lunga scia di schermi neri e grigi lo sovrastava, coprendo un buon quarto della parete; una montagna che lo scrutava severa e minacciosa a ogni passo che faceva.
Superato il bancone dalla superficie sbrecciata e dalle ante di vetro frantumate, arrivò alla porta d’acciaio blindata. Sulla placca metallica erano evidenti lunghe strisciate parallele lasciate dal ripetuto graffiare, arrivate a intaccare anche l’intonaco dalla parte della serratura.
Tenendo un occhio sull’ambiente circostante, s’avvicinò al tastierino numerico, il sottile display che emetteva una leggera luminescenza verdognola. Sistemò il fucile sulla spalla e aprì il coperchio plastico posto alla base della tastiera; estrasse dalla tasca all’altezza del cuore un piccolo palmare e collegò i fili rossi e neri che spuntavano dal piano anteriore alle boccole del rispettivo colore situate sul lato sinistro della scheda elettronica. Inserì il flat che spuntava dal lato posteriore nel connettore posto subito a destra delle boccole. La luce rossa sul display lampeggiò per alcuni secondi prima di diventare verde; in risposta sullo schermo della scatola fissata al muro comparve la scritta d’accesso. Un leggero scatto e le maniglie cedettero, scostando di un paio di centimetri la porta blindata dall’intelaiatura che la sorreggeva. Un’ultima occhiata nei paraggi e si lasciò scivolare al suo interno.
L’oscurità lo accolse con un gelido saluto. L’aria puzzava di chiuso, il fiato si condensava in piccole volute di fumo. Avvicinò la porta senza chiuderla, così da far sembrare tutto come sempre, sperando che nessuno si avvicinasse per controllare con più attenzione.
Con una mano rimise al suo posto il palmare, con l’altra sfilò dalle cinghie dello zaino una piccola torcia. Ripreso in mano il fucile, sistemò negli appositi fermi la piccola fonte di luce; le dita corsero sulla levetta con la superficie zigrinata e un fascio luminoso andò a colpire la parete al suo fianco. Con passi misurati prese a muoversi nel magazzino privo di finestre.
Montagne di scatoloni impilati uno sopra l’altro, avvolti in strati di cellofan, affiancavano ripiani metallici verniciati di verde, carichi di casse di legno recanti la scritta fragile. Sul lato sinistro del magazzino erano parcheggiati in una fila ordinata muletti giallo indiano, le benne abbassate rasenti al terreno.
Superato il primo blocco di scansie, si ritrovò di fronte a un gigantesco portone a più ante che scorreva su stretti binari intasati da sporcizia e feci di topo. Ringhiere e rotoli di recinzioni metalliche erano impilate lungo la parete a formare una lunga catasta che si protraeva fino al fondo della prima parte del magazzino.
Spostò il fascio di luce attraverso le lunghe fila di pacchi e scatoloni abbandonati a un destino di deterioramento e decomposizione. Si fermò davanti all’ingresso della seconda parte del magazzino: un’aria ancora più fredda dell’ambiente in cui si trovava era in attesa di posarsi su di lui.
Un fenomeno che non riusciva a spiegarsi: oltre la linea nera tratteggiata sul pavimento, dove un tempo appoggiava la serranda ora bloccata a diversi metri dal suolo, la temperatura calava di colpo di diversi gradi. Eppure quella parte dell’edificio non era una zona frigorifera e nemmeno c’erano condizionatori a mantenere costanti certe condizioni ambientali. Come non riusciva a spiegarsi che le tenebre di quella zona fossero più dense e la luce delle torce faticasse a fenderle: il buio pareva stringersi attorno al fascio luminoso, con l’intenzione di schiacciarlo e ricacciarlo indietro, quasi si trattasse di una presenza sgradita e rivoltante. Quelle tenebre erano gelose dello spazio che custodivano: nell’aria aleggiava il sospiro persistente della xenofobia, dove tutto ciò che non era oscurità non era ben accetto.
Si strinse attorno al collo il bavero della giacca ed entrò. Avvertì subito l’insinuante oppressione che gli faceva presente quanto fosse sgradita la sua presenza: una sensazione che lo attaccava da tutte le parti, una pressione claustrofobica che gli attanagliava ogni membra e gli serrava la gola. Affrettò il passo, raggiungendo le scansie che contenevano il cibo in scatola e quello sottovuoto. Con masse rapide e decise prese a riempire lo zaino che aveva portato sulle spalle, stipando tutto con cura, in modo da sfruttare al meglio lo spazio e trasportare quante più cibarie gli era consentito, lasciando posto sufficiente per le bottiglie d’acqua da prendere dal ripiano a fianco.
Quando anche le tasche laterali furono riempite, s’assicurò che ogni laccio, cerniera e gancio fosse assicurato per non perdere nulla di quanto prelevato. Controllò un’ultima volta la lista che aveva fatto per accertarsi che quanto serviva fosse stato preso.
Senza più guardarsi indietro, ritornò alla porta. S’avvicinò all’uscio metallico con cautela, i passi che si erano fatti lenti e guardinghi, rimanendo a fissare il cerchio luminoso proiettato sulla lastra metallica: l’unica barriera che lo separava da quanto lo stava aspettando là fuori. Spense la torcia, la sganciò dal supporto e tornò a porla nella tasca dei pantaloni. Allungando una mano spinse la porta, facendola muovere un millimetro alla volta, fermandosi a ogni piccolo spostamento e mettendosi in ascolto, convinto di aver sentito qualcosa muoversi oltre il bancone; con spasmodica lentezza aprì uno stretto passaggio, quel tanto che bastava per permettergli di passare. Con rapida mossa la richiuse, attento a far scivolare la serratura all’interno della toppa dello stipite senza far rumore.
Si voltò verso il bancone, scrutando lo spazio tra le scansie. La luce era cambiata. Un’ombra era calata su tutto quanto, rendendo grigie le zone che poco prima erano state illuminate. I colori si erano spenti, resi cupi dall’adombramento che incalzava impietoso, le zone di penombra mutate in polle di nero denso.
Lo sguardo corse allo scorcio di vetrata che s’intravedeva dalla sua posizione: l’asfalto della piazza e il cemento dei palazzi erano più scuri. Una tempesta era in arrivo. Un elemento positivo: la scarsa visibilità, e possibilmente la pioggia, avrebbero coperto i suoi movimenti lungo le strade, rendendolo meno individuabile a occhi che erano in cerca. Se non fosse che si trovava ancora all’interno del centro commerciale.
«Maledizione.» Strinse i denti. «Proprio quello che ci voleva.»
La prospettiva di riattraversare il centro commerciale in quelle condizioni non gli piaceva per niente, ma doveva uscire da quel luogo. E pure in fretta.
Strinse gli occhi, cercando di scorgere movimenti nelle zone di buio più fitto.
Nulla.
I bastardi si stavano mimetizzando bene. O più semplicemente non erano dove stava guardando. Un angolo della bocca si torse in un’espressione contrariata. Odiava non sapere dove si trovava il nemico.
Doveva decidere alla svelta come muoversi. Camminare verso il fondo era da escludere: l’oscurità era troppo fitta e si sarebbe accorto di loro solamente quando lo avessero ghermito. Passare vicino alle vetrate lo avrebbe esposto alla vista di chiunque si trovasse all’esterno e all’interno. Rimaneva solo passare attraverso le scansie: avrebbe avuto una maggiore copertura, anche se avrebbe reso il percorso verso l’uscita più lungo. E più restava in quel luogo, maggiori erano le possibilità di fare sgradevoli incontri.
Uno sguardo lungo il corridoio e si gettò verso la scansia più vicina, schiacciando la schiena contro il metallo. Strisciando lateralmente, si sporse oltre l’angolo, scattando verso la copertura più vicina appena fu sicuro che la via fosse libera.
Uno sciacquio oleoso giunse alle sue spalle quando fu a metà strada. Appiattito contro il pilastro di cemento, scivolò verso l’incavo creato dalla scansia a fianco.
Un’ombra passò veloce lungo il corridoio, sparendo come era comparsa.
Un’altra guizzò davanti alle vetrate.
L’uomo strinse i denti, gettando lo sguardo alla sua destra. L’uscita era davanti a lui. Cinquanta metri e sarebbe stato fuori: una corsa veloce, questione di pochi secondi.
Un istinto repentino lo costrinse a gettarsi di lato, addossandosi contro una pila di pallet ammuffiti.
Una schiena gibbosa, piegata, irta di radi e spessi peli comparve oltre la linea della scansia posta in diagonale a sei metri da lui. Una cresta simile a coltelli ricurvi dondolava sulla pelle ricordando argilla crepata.
Un animale domestico dei Demoni. Un elemento del branco di sei elementi sguinzagliato alla ricerca e cattura di esseri umani.
Con passo dondolante, la massa sgraziata caracollò verso le casse allineate, svanendo sotto i suoi occhi quando passò in una zona d’ombra più scura: il preavviso che il cerchio d’attacco si stava per chiudere.
Si sporse oltre il bordo, gettando rapide occhiate dalla parte opposta dove era sparita quella grossa specie di cane da riporto. Imbracciò con forza il fucile, prendendo a correre nel corridoio che fendeva verticalmente il centro commerciale.
Vide la porta ingrandirsi ad ogni falcata, finché con un balzo la superò, ritrovandosi nel basso corridoio.
Si voltò con il fucile pronto ad accogliere la malcapitata bestia che avesse avuto la sfortuna di seguirlo.
La lunga scia di mattonelle beige era sgombra.
Indietreggiando, raggiunse l’uscita.
L’ultima cosa che vide prima d’incamminarsi sul marciapiede, fu una lunga coda da roditore che sbatteva contro un ripiano di metallo e lo faceva volteggiare nell’aria.
Il cozzare metallico lo raggiunse quando svoltò l’angolo della strada.