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“Quando sulla Terra le acque si prosciugarono, la gente disse:“la fine dell’umanità è prossima”. Ciascuno allora si preoccupò della propria sorte, trascurando ogni pensiero sull’immensità dell’universo, deridendo anzi quei pochi che confidando in un futuro migliore salparono verso gli spazi immensi del cosmo alla ricerca di altri mondi. Li chiamarono avventurieri a caccia d’illusioni, fuorilegge senza scrupoli, pazzi. La nostra storia risale a tanti anni fa, al lontano 2977.
Gli abitanti della Terra, in quei tempi lontani, vivevano in un clima di prosperità; pazienti e puntuali, numerosi robot emigravano su altri pianeti per ricavarne le più svariate risorse e trasportarle sulla terra. Il governo forniva gratuitamente alla popolazione tutto il necessario e nessuno aveva più bisogno di lavorare; per prevenire agitazioni e sommosse, il governo faceva trasmettere in ogni abitazione radiazioni ipnotiche, manipolando opportunamente le onde radio televisive. Di conseguenza, quasi tutti i terrestri erano mantenuti in uno stato di serenità incosciente.”

Così, nel 1976, comincia Capitan Harlock, manga di fantascienza creato da Leiji Matsumoto, dal quale nel 1978 è stato tratto un anìme.
Questa non vuole essere una disamina sul fumetto o la serie televisiva: serve a prendere spunto per una riflessione. E cioè come l’arte (in questo caso l’animazione, in altri casi la scrittura) possa essere un modo per mostrare a strada che certe scelte possono portare. In Capitan Harlock, come si vede dall’introduzione, le persone vivono indifferenti rispetto a quello che gli sta attorno e la loro avidità ha fatto sprecare tutte le risorse del pianeta: i mari sono stati prosciugati e molti beni vengono attinti da altri pianeti, perché ormai la Terra non è più produttiva. Oltre all’avidità, vivono in un perenne stato di accidia, non hanno più stimoli e bisogni: hanno tutto pronto, non devono nemmeno lavorare perché le macchine hanno sostituito l’uomo nei lavori più comuni. Vinti dalla noia, passano l’esistenza con il solo pensiero di come vincerla.
Come ormai sempre più spesso sta accadendo nella nostra realtà. Il livello di tecnologia non è al livello di quello mostrato nell’animazione e la gente ha bisogno di lavorare per mantenersi, ma, almeno nell’occidente ricco, ha più tempo libero e spesso non sa come impiegarlo; questo, unito a un calo di stimoli e mete da raggiungere (tutto si è standardizzato, compresi i sogni e desideri) ha portato a uno stato di noia e apatia che si cerca di vincere in ogni modo possibile. Dipendenze del passato si sono rafforzate (alcool, droga, gioco), altre sono sorte (sesso, internet), il tutto per sedare, anestetizzare, il malessere presente negli animi delle persone. Nell’anìme si parla di radiazioni ipnotiche mandate attraverso il segnale televisivo; non siamo a questo punto, ma una certa tipologia di trasmissioni televisive ha un certo potere sedante, più che altro appiattente, che abbassa il livello dell’energia e della consapevolezza delle persone, conformizzandole su uno stesso piano.
Fantascienza? Forse.
Ma anche Verne e Mary Shelley ai loro tempi erano considerati dei visionari. Influenzati dalle scoperte della scienza dell’epoca, realizzarono opere che trascesero la scienza stessa, quasi fossero casi di preveggenza; si trattava invece di un livello di consapevolezza tale che gli ha permesso di vedere oltre il recinto del loro periodo. Si può dire che Verne ha “predetto” lo sbarco sulla Luna e lo scandagliare gli abissi marini con decenni di anticipo. Mary Shelley ha “predetto” i trapianti di organi: in un qualche modo il ridare la vita a ciò che è morto, il Potere che da sempre l’uomo ricerca, il creare la vita. Chi aspetta un trapianto non può forse, anche se è brutale dire così, essere considerato un morto che ancora vive, perché condannato a morire anzitempo se non riceve un organo nuovo? E il trapianto non è per lui una possibilità di vita? (certo su questo argomento ci sarebbe aprire un’altra riflessione di questione morale su come sono nati i trapianti, e gli orrori sopportati per giungervi, e le speculazioni che ci sono dietro, ma non è l’argomento che si vuole trattare ora).
Leiji Matsumoto ha previsto, come altri prima di lui d’altronde, l’influsso sedante della televisione sulle persone. Ha mostrato politici occupati solo a divertirsi e a pensare di essere eletti, senza preoccuparsi di fare politica, ovvero organizzare e far funzionare al meglio ogni ambito della società per un maggior numero di persone possibili. Questo è il liet motiv attuale e la fotografia fatta più di trent’anni fa da tale autore rispecchia perfettamente il nostro tempo.
La gente, conformizzandosi ai modelli proposti dal tempo, non si preoccupa più dei problemi, non si prende più responsabilità, occupata a non vivere e a seguire vicende sportive e talk show, provando emozioni attraverso gli altri e non in prima persona. Attori troppo belli sono gli unici eroi, cantavano gli 883 negli anni ’90, una canzone che indicava la caduta di valori e ideali.
Pochi, davvero pochi hanno il coraggio di essere sé stessi, di vivere veramente e prendersi responsabilità verso l’esistenza.
Di tutto questo è esempio anche una vicenda presente nella Storia Infinita di Michael Ende. Bastiano, il protagonista delle vicende del libro, incontra gli Acharai, esseri vermiformi che vivono nel buio per la vergogna di mostrare il loro corpo, timorosi di offendere la vista di chiunque li veda. Vivono nel tormento e nel dolore, piangendo in continuazione. Un’esistenza triste e dannata, capace tuttavia di creare con le lacrime versate costruzioni di bellezza straordinaria. Oltre a essere un simbolo che la vera bellezza non è quella che appare, ma quella capace di costruire (e che nella sofferenza si possono trovare risorse stupende), sono anche un emblema di quelle generazioni che con sudore e fatica hanno ottenuto uno stile di vita migliore, perché senza sacrifici e impegni non si ottiene nulla (l’opposto di quelle che sono venute dopo, che hanno sperperato e rovinato tutto). Arrivati a questo punto, i tempi sono pronti per il cambiamento.
Bastiano, impietosito dalla condizione degli Acharai, i Perpetui Piangenti, avendo il potere di dare realizzazione a ciò che desidera, decide di cambiare la loro sorte, di renderla migliore (la stessa intenzione delle generazioni sopra citate, che purtroppo si scoprirà essere un male, anche se mossa da buone intenzioni). Le creature s’addormentano e al risveglio sono diventati gli Uzzolini, i Sempre Ridenti: esseri con ali da tarma colorate, vestiti con straccetti a quadri, a righe, tutti di misura sbagliata, messi insieme a caso. Niente era al posto giusto e dappertutto c’erano toppe. Le faccette erano dipinte come quelle dei clown, con nasi tondi e rossi o becchi ridicoli e bocche esagerate (cito alcuni brani del libro).
Una felicità finta; perché se è vero che la sofferenza è qualcosa di duro, è altrettanto vero che è un sentimento sincero. Mentre spesso, come la società dimostra, la felicità è qualcosa d’effimero, d’illusorio. Ed è così che si vive: nell’illusione. Come gli Uzzolini, si porta una maschera che simula felicità: una maschera dietro cui ci si nasconde per non essere se stessi, per non mostrarsi come si è realmente.
Questa è la generazione sorta dopo quella che tanto si è data da fare per ottenere qualsiasi cosa, che ha tentato di dare il meglio per chi veniva dopo. Ma se non si conosce il valore del conquistare con le proprie forze, tutto è destinato a essere perso. Lo insegna la storia, dove i successori di chi ha fatto grandi conquiste non hanno saputo mantenere quanto ottenuto perché non hanno consapevolezza di cosa si deve affrontare e superare per arrivare a certi punti.
Nel grande come nel piccolo.
Così gli Uzzolini (la nuova generazione nata dalla vecchia) non solo non sono capaci di costruire nulla, ma non sanno nemmeno mantenere, anzi distruggono quanto con tanti sforzi è stato costruito; sguaiati e sciocchi, pensano solo a divertirsi, rovinando quanto toccano.
Così è il presente che si vive.

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