Alla fine, il potere distrugge sempre se stesso.
Questa semplice e penetrante frase sarebbe sufficiente a mostrare l’essenza di Venti di Morte. E non si tratta affatto di una riduzione, ma di cogliere l’essenza del settimo romanzo della saga Malazan di Steven Erikson. Un romanzo che mostra piani su piani che si sovrappongono e si scontrano in un continuo ribaltamento, in un costante usare ed essere usati, manipolare e venire manipolati. L’intreccio tessuto è una rete fitta e complessa, dove occorre avere la pazienza di saper aspettare, come l’archeologo che toglie con calma uno strato alla volta per giungere al reperto che gli permetterà di svelare i segreti di una civiltà scomparsa; attraverso questo modo di fare viene alla luce la formazione avuta dallo scrittore canadese, dimostrando come archeologia e antropologia abbiano avuto influenza nel modo scrivere e creare la trama.
La forza e la bellezza degli scritti di Erikson è che viene calata in un contesto fantastico la Storia che l’uomo ha forgiato sulla Terra dalla sua nascita, dopo averla spogliata di nomi, date, contesti specifici, lasciando solo ciò che è veramente importante: l’insegnamento che essa ha da dare alle generazioni future perché possano evolvere, imparare dall’esperienza altrui e non commettere più gli stessi errori. Perché la Storia non è altro che la conoscenza dell’animo umano, con le sue luci e le sue ombre, impegnata a mostrare i suoi lati più sordidi o quelli più eroici, dove si muore, ci si sacrifica per proteggere gli altri, dove anche in mezzo al sangue e al fango e alla violenza si è capaci di gesti gentili.
Questi sono alcuni dei temi più risaltanti della saga Malazan e di Venti di Morte di cui ho parlato più in dettaglio nella recensione della seconda parte del romanzo realizzata per FM.
Leave a Reply