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The Sky Crawlers

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the sky crawlersThe Sky Crawlers è un film di fantascienza di Mamoru Oshii del 2008. Ambientato in una Terra alternativa, presenta un’ambientazione che ricorda quella della Seconda Guerra Mondiale per quanto riguarda il modo di vestire, i mezzi usati; più o meno la tecnologia è quella di quel periodo storico, salvo il fatto che l’ingegneria genetica è più avanzata al punto d’aver dato vita ai kildren, adolescenti che non invecchiano mai, rimanendo in eterno in questo stato. L’unico modo per loro di morire è di essere uccisi in combattimento ed è per questo che vengono usati per pilotare aerei da guerra.
Una guerra che è in mano a compagnie private che combattono per gli stati che li assoldano attraverso i kildren. Una guerra che ha eliminato le altre guerre, dove la sete di sangue è sedata da un conflitto bellico che è diventato un gioco, uno show televisivo. Uno spettacolo crudele, che sembra ripetersi all’infinito, con i suoi protagonisti che vivono in un presente che non cambia mai, che si perpetra nella ripetitività dei gesti: una scelta, quella del regista, che non è casuale e che serve per comprendere appieno ciò che s’intuisce già dall’inizio (vedere una delle prime scene, quando Yuichi Kannami arriva alla base aerea, e quella subito dopo i titoli di coda).

Visivamente ottimo, come ottima è la colonna sonora, spettacolare nelle scene dei combattimenti aerei, inizialmente può spiazzare per i volti inespressivi dei kildren, ma presto si capisce che la scelta è funzionale alla vita che conducono. La loro è un’esistenza priva di passato, non ricordano nulla di ciò che è stato. Non hanno futuro, il loro scopo è solo quello di combattere ancora e ancora. Hanno solo un presente sempre uguale, facendo trascorrere una giornata dopo l’altra in attesa dell’ennesimo combattimento, sapendo che potrebbe essere l’ultimo. O forse no. Di certo vivono come se non ci fosse un domani, partecipando a una finzione dove tutti sanno (o quasi) ma non vogliono dire come stanno realmente le cose.
The Sky Crawlers non è un film adrenalinico, ma una pellicola introspettiva che si prende il suo tempo per far giungere il suo messaggio allo spettatore. Scoprire la natura dei kildren, il legame che c’è tra loro e il Professore (un pilota della compagnia privata Lautern che abbatte uno dietro l’altro quelli della Rostock, praticamente imbattibile, riconoscibile dal suo aereo con una pantera disegnata sopra), il legame tra Yuichi e Kusanagi, il perché tanti appaiono così tristi quando guardano i kildren (emblematico quando la meccanica della base parla di “vite spezzate”).
Per chi o cosa combattono i kildren? Perché uccidono? Queste sono le domande che pone Suito Kusanagi mentre è a cena con Yuichi Kannami, entrambi kildren, entrambi parte dello stesso gioco. La risposta di Yuichi (i più non ci pensano, lo ritengono un mestiere come un altro) può sembrare cinica e brutale, ma fa capire come il combattere, l’uccidere, sia divenuta talmente un’abitudine da essere considerata come una cosa normale, che non colpisce più di tanto, dove vince il più forte e si possono far aumentare i profitti. La guerra è vista come un business, un fare interessi economici, dove conta ottenere profitto e non si guarda il costo di vite umane, perché a morire sono soltanto i kildren, sono gli unici a pagarne il prezzo. Ma in fondo che prezzo può essere, quando si scopre qual è la loro natura? Eppure un prezzo c’è ed è spaventoso, perché si perde la propria identità, il proprio equilibrio e Kusanagi lo sa bene: si va incontro a un dolore spaventoso, che solo con l’assenza di sentimenti si può provare a resistere. Ma una vita priva di sentimenti è una vita di disperazione, dove è meglio andare incontro alla morte, se solo si potesse scegliere: sì, perché i kildren non sono padroni della propria vita, ma sono nelle mani di multinazionali che dispongono di loro come vogliono per i propri interessi e anche il morire è qualcosa che non può essere concesso perché va contro il profitto. Una disamina dura, come lo è quella di Kusanagi sull’umanità e sulla guerra.

“Nella sua storia, l’umanità non ha mai voluto né potuto eliminare la guerra perché è la sua esistenza a dare senso e realtà alla vita degli esseri umani. Avere sempre delle guerre in corso in qualche parte del mondo ha una sua specifica funzione: quella di alimentare l’illusione di pace della nostra società. Ma la guerra deve essere reale, non può sembrare una finzione. Leggere delle guerre del passato non basta. La narrazione rischia di trasformarle in favole e annullarne l’effetto. Se la gente non vede morti veri in televisione, se la sofferenza non viene mostrata, se la guerra non la tocca da vicino e le fa paura, la pace non può essere mantenuta. E il suo stesso significato viene dimenticato. La gente ha bisogno della guerra per sentirsi viva. Proprio come noi ci sentiamo vivi quando combattiamo nei cieli. E poiché la nostra guerra è un gioco che per sua stessa natura non deve finire mai, come tutti i giochi ha bisogno di regole. Per esempio, deve esserci un nemico che non può essere sconfitto. “

Un bellissimo dialogo che fa capire tante cose; tra le tante, la decisione nel finale di Yuichi di combattere contro il Professore e abbatterlo, credendo così di porre fine a una guerra destinata a durare per sempre, figlia di una società che così pensa di aver risolto un problema che l’umanità si porta dietro da quando è nata. Un ribellarsi contro un destino già scritto e poter scegliere la propria via.

“Hai sempre la possibilità di cambiare la strada che percorri ogni giorno. Anche se la strada è la stessa, puoi vedere cose diverse. Non è abbastanza per vivere? O invece…non può essere abbastanza? Anche se la strada è la stessa, puoi vedere cose diverse. Non è abbastanza…per continuare a vivere?”

Yuichi sembra avere trovato la risposta al suo vivere. E può essere una risposta anche per quella parte di umanità che ripete costantemente il solito modo di passare la vita: andare al lavoro, in ferie, mettere al mondo figli, crescerli. Se ci si pensa, non sono poi tante le differenza tra il modo di vivere dei kildren e quello dell’umanità (il non crescere e ripetere sempre i soliti gesti).

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