E’ capitato a chiunque, almeno una volta nella vita, di desiderare una dimensione dove poter rifugiarsi da una realtà in cui ci si sente estranei, fuori posto. Un luogo che non sia di questo mondo, un posto segreto dove poter trovare pace e protezione, dove incontrare tutto quello che la realtà non è capace di dare. Un luogo magico, dove il tempo non ha valore e ci si sente sicuri, apprezzati, lontano da ciò che fa soffrire, fa provare delusione, rammarico, amarezza.
Un sognare che non costa nulla e che alle volte può essere pure terapeutico, può far giungere a delle scoperte: “rivelazioni” che possono essere di aiuto nella risoluzione di problemi, di ansie. Ciò che però occorre ricordare è che, per quanto malvolentieri lo si debba fare, occorre tornare dal mondo dei sogni perché la vita non può essere vissuta solo nell’immaginazione. Per quanto possa essere bello un sogno, prima o poi occorre tornare alla realtà. Per quanto possa essere piacevole, come tutte le cose finisce e può arrivare a non essere più come le prime volte, a non dare quelle sensazioni che hanno fatto stare così bene, ma ci si ritrova a essere insoddisfatti, a trovarsi a disagio come indossare un paio di scarpe troppo piccole per i propri piedi: l’ambiente trovato così idilliaco all’inizio comincia ad andare stretto e si sente una spinta che porta altrove. Razionalmente non si riesce a capire questa emozione che viene dal profondo, dall’inconscio, ma si tratta del cambiamento, della vita che matura e allunga i suoi rami verso l’alto, verso la crescita.
E’ quello che succede a Hugh e Irene, i protagonisti di La Soglia, romanzo di Ursula Le Guin. L’autrice americana non scrive nulla di nuovo: nel corso dei tempi si è scritto di tutto, in ogni modo, e non è possibile realizzare qualcosa di originale. Ma scrive un buon romanzo, ben caratterizzato, capace di mostrare con lucidità le ombre della realtà in cui vivono i protagonisti; scrive una storia che sa cogliere molto bene aspetti della vita e situazioni che si è trovati a vivere, ad affrontare.
Hugh, ventunenne che si ritrova a non avere una vita al di là del lavoro di cassiere perché ha a che fare con una madre apprensiva, condizionata da sindrome d’abbandono, che le fa vivere in maniera possessiva, di dipendenza il rapporto col figlio, e anche condizionante, dato che crea limitazioni e sensi di colpa.
Irene invece non ha legami saldi con la famiglia e anzi le sta lontano per non subire le avance sessuali del patrigno.
Due solitudini che non hanno un posto nel mondo, che non hanno veri legami con qualcuno, ma cercano solamente un modo per non farsi schiacciare dal senso d’inutilità che hanno, dal non senso che ha la loro vita e che incontrano una ragione d’esistenza per caso, quando trovano un varco per un’altra dimensione. Una dimensione crepuscolare, dove non c’è giorno e notte, dove il tempo passa in maniera più lenta rispetto alla Terra; una terra fatta di boschi dove scorrono torrenti dall’acqua fresca e cristallina, dissetante come nessuna acqua aveva mai fatto.
Una scelta voluta quella di ambientare la storia in un simile scenario, perché il bosco è un luogo d’iniziazione, il luogo dove nella tradizione, nelle favole, i giovani venivano mandati per affrontare le prove e poter così divenire adulti: è il simbolo dello smarrirsi, dove occorre trovare (o ritrovare) se stessi.
Ed è questo che fanno i due protagonisti. Trascorsa una vita senza sapere quale ruolo hanno nel mondo, senza sentirsi parte di esso, ma più che altro senza sapere cosa vogliono esattamente o avere il coraggio di fare quello che desiderano, Hugh e Irene si ritrovano a percorrere lo stesso percorso: dapprima con riluttanza, diffidenza e anche risentimento, ma poi iniziando a comprendersi, a capire che sono complementari, che l’uno ha bisogno dell’altra, non solo per entrare e uscire da quel mondo crepuscolare (Hugh può accedervi tutte le volte che vuole, ma ha difficoltà a trovare la via del ritorno, mentre per Irene è l’opposto), ma anche per affrontare la vita, le esperienze. Un modo, attraverso i due giovani, per far vedere che è importante saper sognare, ma che è altrettanto importante sapere quando uscirne per vivere la realtà e non perdersi in un mondo immaginario fino a divenire un disadattato. Perché non è nella fuga che si trova la soluzione, ma solo nell’andare incontro alle difficoltà, alle paure.
E’ per questo che Hugh e Irene intraprendono un lungo cammino che ricalca quello che ben si conosce nelle storie: il viaggio verso la montagna (il luogo della prova, dell’ascesa che porta alla grandezza, alla vastità) dove si dovrà affrontare impugnando la spada (strumento magico che dissolve e annienta gli spiriti del male) il drago (il guardiano della Soglia, custode di tesori), che vive all’interno della grotta (il luogo fenomenico, oscuro, nel quale entrarvi per poi tornare a uscire alla luce trasformato, più forte, più consapevole perché si è trovato il vero Io nascosto). Un’esperienza che li farà crescere, che li farà andare avanti e uscire dalla dimensione crepuscolare che è la loro vita, facendogli incontrare quell’amore che renderà luminosa e meritevole d’essere vissuta la vita.
Ma il libro com’è? Dalla descrizione temo di trovarci un qualcosa di un po’… didascalico, stile un film di Nanni Moretti.
E’ un libro valido. Non ci ho trovato nulla di didascalico; il finale non è nulla che non si sia già visto e forse il momento risolutivo poteva essere sviluppato meglio, ma rimane un’opera valida, la cui lettura è consigliata.