Robocop, dopo Terminator, è una delle figure robotiche più conosciute e iconiche degli anni 80. C’è una grossa differenza tra i due: il primo esteriormente è un robot in tutto e per tutto ma ha una mente umana con i corrispettivi sentimenti, il secondo invece sembra dall’aspetto un essere umano come tanti ma sotto la pelle è completamente una macchina. Piccola curiosità: per interpretare il ruolo di Robocop inizialmente si era pensato ad Arnold Schwarzenegger ma a causa della sua massa muscolare fu scartato per non dover rifare il costume iniziale del cyborg.
Premessa importante: il successo di questo personaggio e di tutto il merchandise che ne è conseguito (serie animate, giocattoli, videogiochi) è dovuto al primo film della serie, quello del 1987 diretto da Paul Verhoeven. La storia è ambientata in un futuro prossimo in una Detroit dominata da crimine, violenza, corruzione e la multinazionale OCP; proprio quest’ultima prende le redini del dipartimento di polizia con lo scopo d’immettere il robot di sua progettazione ED-209 per eliminare la delinquenza della vecchia Detroit, così da poterla demolire e costruire l’innovativa Delta City, una megalopoli utopistica. Le cose però non vanno come sperato e il robot, causa un malfunzionamento durante una dimostrazione, uccide trivellando di colpi di mitragliatrice un consigliere comunale. Nasce così una feroce competizione interna alla OCP per trovare una soluzione: a Dick Jones, progettista di ED-209, si contrappone Bob Morton, che propone il suo progetto cyborg, Robocop.
Proprio in questo periodo Alex Murphy, poliziotto con un forte senso del dovere, inizia a lavorare con la nuova collega Anne Lewis. Purtroppo, il primo giorno di lavoro insieme è nefasto: i due si scontrano con la banda di uno dei più potenti e feroci malviventi della vecchia Detroit. Mentre Anne riesce a salvarsi, Murphy viene massacrato brutalmente a colpi di fucile. Inutili sono i soccorsi: Murphy muore sotto i ferri. Ciò che resta del suo corpo viene preso dalla OCP (essendo che la polizia è gestita dalla miltinazionale, ora è di sua proprietà) e Bob Morton può attuare il suo progetto cyborg: le parti mutilate (praticamente tutte, si salva solo il volto, parte del cervello e poco altro) sono sostituite con parti meccaniche rivestite di una corazza di titanio e kevlar. Grazie a un computer integrato nel cervello, oltre ad avere una mira precisa al millimetro, può registrare audio e video da usare come prove contro i criminali. Nasce così Robocop e le sue operazioni sono un successo tale che Bob Morton viene nominato vicepresidente della OCP.
La cosa non piace a Dick Jones che farà uccidere Morton da Boddicker, il supercriminale al suo soldo, nonché assassino di Murphy (è stato lui a dargli il colpo finale in testa).
Quello che però nessuno ha preso in considerazione è che nel cervello di Murphy siano rimasti i ricordi della sua vita precedente e che stiano lentamente ritornando alla luce. Anne Lewis è l’unica che si accorge che Robocop altri non è che Murphy, riconoscendo il gesto che il cyborg fa con la pistola quando la deve rinfoderare e che era tipico del suo collega. Murphy/Robocop arresta uno dei suoi assassini e pronuncia (di nuovo) una frase divenuta iconica nel mondo del cinema: “Vivo o morto tu verrai con me.” Poco dopo distrugge un gruppo criminale che produce droga e lì arresta Boddicker, che per avere salva la vita gli rivela di lavorare per Dick Jones.
Murphy si reca alla OCP per arrestare Jones, ma una direttiva primaria del pc collegato al suo cervello gli vieta di muoversi o fare del male a chi lavora per la multinazionale; Jones gli manda contro prima un ED-209 e poi un’elite della SWAT; Murphy, aiutato da Lewis, riesce a scappare, rifugiandosi nella vecchia acciaieria dove è stato ucciso e dove chiuderà una volta per tutti i conti con la banda dei suoi assassini. Ma la sua giustizia non finirà qui: torna alla OCP, irrompendo durante una riunione dei dirigenti, mostra il video dove Jones confessa i suoi crimini ed eliminandolo dopo che è stato licenziato e aveva preso come ostaggio il presidente.
La violenza senza tante censure, l’allegoria, la critica e la satira feroce di Verhoeven, unita a una società crudele, cinica, capitalista e senza rispetto, resero Robocop un successo, oltre a farlo divenire un cult per gli amanti del genere. Robocop però non era solo un film d’azione, è l’uomo che vince sulla macchina, è il mantenere la sua umanità anche quando di umano c’è rimasto poco, specie all’interno di una società così cupa e opportunista. Weller, che ha interpretato Murphy/Robocop, ha fatto un buon lavoro con questo personaggio, e Verhoeven ha dato il suo classico tocco, rendendo la pellicola un piccolo must da vedere.
Dopo il successo avuto con Robocop, è stato quasi giocoforza fare un seguito: Peter Weller e Nancy Allen (Anne Lewis) sono stati confermati nel cast, così come Dan O’Herlihy nel ruolo del presidente della OCP, mentre alla regia non c’è più Paul Verhoeven, sostituito da Irvin Kershner. Va detto subito che Robocop 2 (1990) non ha la stessa forza del predecessore, tuttavia ha degli aspetti apprezzabili. La città di Detroit è sempre in preda a violenza, corruzione ed è sempre più nelle mani della OCP che vuole portare avanti il progetto Delta City, oltre a dare il via alla creazione di un nuovo Robocop (finora i tentativi non sono andati a buon fine, dato che i soggetti scelti rigettano la loro nuova condizione); in aggiunta a tutto ciò, nelle strade circola una nuova droga, la Nuke, messa in circolo da Cain, un nuovo pericoloso criminale. Sarà proprio Cain, ridotto in fin di vita da uno scontro con Robocop, il soggetto per la realizzazione del nuovo cyborg, ma le cose andranno storte, dato che Robocop II, tenuto sotto controllo tramite cariche di Nuke, impazzisce alla presentazione di un nuovo grattacielo e fa una strage. Solo l’intervento di Robocop potrà fermarlo.
Interessante il contrasto tra Murphy che ricorda e ama ancora la sua famiglia e il sapere che non potrà più stare con loro (bello il dialogo che ha con la moglie), benchè non molto approfondito; molto bello lo scontro finale tra i due cyborg, che sicuramnte rende giustizia a quello che non si è visto nel primo Robocop (il modo in cui Murphy elimina ED-209 è sbrigativo, ma ha un suo senso e rappresenta in un qualche modo Verhoeven ). Di certo manca la vena pungente di Verhoeven, ma Robocop 2 svolge il suo lavoro d’intrattenimento, dando anche qualche buona scena (come quella di Murphy che rimane vicino al più giovane membro della banda di Cain in punto di morte).
Sinceramente, ci si poteva fermare qui. E invece, tre anni più tardi (1993), ecco Robocop 3. Robert John Burke prende il posto di Weller mentre Nancy Allen rimane (anche se il suo personaggio non resterà a lungo); di idee ormai se ne è a corto e si vede. Oltre alla OCP, ora a Detroit c’è la multinazionale giapponese Kanemitsu Superprodotti per realizzare il progetto Delta City; al loro soldo c’è un gruppo di mercenari che con la forza sfratta le persone dalle loro case. I cittadini si ribellano e formano bande di resistenza. Dapprima Robocop esegue gli ordini della OCP di dare la caccia ai ribelli, ma dopo la morte di Lewis, si unisce a loro. Per ravvivare una storia ormai povera di spunti, vengono immesso androidi samurai e Robocop viene fatto volare.
Passano ventuno anni e si arriva così a fare un remake del primo film e devo essere sincero, mi ha detto meno della terza pellicola, anzi, mi ricordo davvero pochissimo di trama, ho in mente solo alcune scene e il finale; c’è la solita corruzione, la multinazionale che fa i suoi interessi, ma niente di nuovo e soprattutto niente cinismo e satira, che tanto bene avevano fatto al primo film.
Quindi, meglio lasciar perdere gli ultimi due film e vedere il primo e magari anche il secondo se proprio si vuole, che tutto sommato non è da buttare via.
Non si poteva non affrontare la saga di Alien dopo quella di Predator, dato che si sta parlando di due delle razze aliene più famose in campo cinematografico fantascientifico (almeno se si resta nell’ambito orrorifico, perché altrimenti bisognerebbe citare anche ET).
Cominciamo con il primo, iconico Alien (1979) di Ridley Scott, quello che ha fatto conoscere lo xenomorfo e che ha lanciato la carriera di Sigourney Weaver interpretando il ruolo di Ellen Ripley.
In un futuro non molto lontano (2122) l’astronave da trasporto Nostromo giunge sul satellite naturale di un pianeta sconosciuto dopo aver ricevuto un misterioso segnale di soccorso. Lì troveranno un relitto extraterrestre e si scoprirà che il segnale di soccorso è in realtà uno di allerta, ma purtroppo ormai è troppo tardi: uno dei membri dell’equipaggio viene assilito da un parassita alieno uscito da un uovo, che gli si avvinghia al volto. Ogni tentativo di liberarlo è inutile e l’uomo finisce in uno stato comatoso. Si riprende quanto il parassito muore e si stacca da lui; tutto sembra tornare alla normalità, ma dal petto dell’uomo, colto improvvisamente da convulsioni, esce fuori una creatura aliena, che in brevissimo tempo crescerà e si svilupperà, cominciando a cacciare e uccidere tutti i membri dell’equipaggio. Solo Ripley si salverà, riuscendo alla fine a eliminare il mostro e tornare verso la Terra con la navetta di salvataggio in stato di ibernazione. Si arriva così ad Alien – Scontro finale (1986), il film che ho preferito della serie: alla regia c’è James Cameron che dà un’impronta da “arrivano i marines” e in effetti è proprio così. Dopo più di cinquant’anni la navetta di Ripley viene raccolta per caso e la donna scopre che non solo è ritenuta responsabile della distruzione della Nostromo (con relativa sospensione della sua licenza di volo), ma che il planetoide dove ha incontrato l’alieno è stato terraformato e colonizzato; naturalmente nessuno crede alla storia dell’alieno. Almeno fino a quando i contatti con la colonia cessano improvvisamente; a quel punto la storia di Ripley comincia a essere presa in considerazione, ma la donna rifiuta di unirsi alla spedizione di soccorso. Tuttavia, stanca dei continui incubi con l’alieno protagonista e decisa ad affrontare le sue paure, accetta di unirsi alla squadra di marines inviata a indagare (iconica la battuta tradotta in italiano “qualcuno ha detto “salviamo i coloni“, lei ha capito “vi diamo i coglioni” e si è arruolata subito“); assieme a loro ci sono anche un rappresentante della compagnia per cui lavorava Ripley e un androide, nuovo modello di quello che già era con la donna nel precedente viaggio e che aveva creato problemi. Arrivati sul planetoide, trovano la struttura disabitata e in un laboratorio, tenuti sotto vetro, i famosi parassiti alieni; solo una bambina è riuscita a sfuggire al triste destino di tutte le altre persone: si è dinanzi all’inizio della fine. Gli xenomorfi decimano i marines in un’imboscata, sopravvivono solo una manciata di essi, l’androide, il rappresentante della compagnia e la bambina da poco salvata. Privati della navetta di sbarco che li avrebbe riportati sull’astronave, l’esiguo gruppo si trova bloccato all’interno della struttura e Ripley scopre che il rappresentante della compagnia ha mentito: aveva mandato i coloni inconsapevoli della presenza delle uova e voleva trafugare due xenomorfi adulti per usarli come armi biologiche. Non bastassero gli alieni che gli danno la caccia e r tradimenti interni, il reattore della struttura sta per implodere, scatenando così una reazione nucleare. Mentre l’androide si reca alla torre di trasmissione per riallineare la parabola e chiamare la seconda navetta dell’astronave, il gruppo cerca di resistere all’assalto degli alieni. Solo Ripley, un marine e la bambina sopravvivono, ma quest’ultima viene rapita da uno xenomorfo; lasciato il marine ferito alle cure dell’androide sopraggiunto con la navetta, Ripley si arma con tutto quello che ha a disposizione e scende nelle profondità della struttura, dove c’è il covo degli alieni con le loro uova e naturalmente la gigantesca regina. Ripley distrugge tutto e riesce a raggiungere la navetta che li riporta all’astronave. Sembra tutto passato ma, sorpresa, la regina è riuscita a seguirli salendo sulla navetta; col marine fuori combattimento, l’androide troncato in due dalla regina, l’unica che può affrontare la minaccia è Ripley: armata di esoscheletro elevatore da carico, affronta la regina in uno degli scontri finali più iconici dei film di fantascienza (un altro dello stesso impatto emotivo che mi viene in mente è quello tra Luke Skywalker e Dart Fener in Il ritorno dello Jedi anche se c’è da dire che pure quello in L’impero colpisceancora è allo stesso livello; sì lo so, non c’entra niente ma serve per rendere l’idea del livello dello scontro). Sconfitta la regina (come nel primo film l’alieno viene gettato fuori dall’astronave), Ripley si iberana con gli altri per rientrare sulla Terra.
Per me Alien poteva finire con questi due film, ma naturalmente il botteghino e i fan l’hanno avuta vinta sul buon senso e ci si è dovuti sorbire Alien³ (1992) e tutti gli altri seguiti. Ma se gli altri seguiti li ho visti sopportandoli ben sapendo che non erano all’altezza dei primi due, Alien³ è stato il film che mi ha fatto lanciare un bel WTF. Causa cortocircuito dell’astronave che la sta riportando a casa, Ripley e i suoi compagni in ipersonno vengono espulsi con un modulo di salvataggio e finiscono su una colonia penale; sopravvive solo Ripley, mentre tutti i suoi compagni muoiono. Questa è stata a mio avviso una delle scelte di sceneggiattura peggiori che potessero essere fatte e perciò Alien³ è il film che meno ho apprezzato della serie, ricoscendo la pur sembra buona prova data dalla Weaver. Si scoprirà che da un uovo deposto dalla regina sull’astronave (ma non aveva perso il condotto ovopositore strappandoselo sulla struttura per inseguire Ripley e la bambina prima dello scontro finale?) era nato uno xenomorfo che aveva causato il cortocircuito motivo dell’incidente alla nave; si scoprirà anche che la compagnia sapeva tutto quello che accadeva sulla nave, che con del personale arriva sulla colonia penale per ottenere lo xenomorfo e usarlo per i suoi fini. Come da copione, c’è la solita fuga disperata dall’alieno feroce, quasi tutti muoiono, questa volta pure Ripley, che si sacrifica gettandosi nel metallo fuso (alla Terminator 2) per far sì che l’embrione alieno che porta dentro di sé non finisca nelle mani della compagnia. Il finale di per sé non è stato malvagio benché ricordasse tanto quello di Terminator 2, ma la scelta fatta all’inizio mi ha indispettito così tanto da farmi giudicare la pellicola come meritevole di bocciatura totale.
Naturalmente dopo una morte non può che esserci che una resurrezione, almeno così insegna il cinema perché the show must go on e quindi nel 1997 arriva Alien – La clonazione: il titolo rivela già praticamente tutto. Dopo duecento anni dai fatti di Alien³, Ripley viene clonata dopo vari tentativi per recuperare l’embrione della regina xenomorfa che portava nel corpo e rinasce potenziata, divenendo praticamente un super essere (domanda: perché aspettare due secoli per far rinascere la protagonista se si voleva così fortemente l’embrione alieno?). Non solo: recupera anche le memoria della Ripley originaria, al punto da essere quasi una reincarnazione. Non sto a dilungarmi sulla trama perché il copione già lo si conosce: saltano fuori i famosi alieni, c’è la solita strage di umani, Ripley è l’eroina del film. Vengono messe alcune novità (la regina aliena che oltre a deporre uova può partorire, l’alien bianco), ma non c’è la stessa atmosfera, la stessa adrenalina dei primi due film; meglio del suo precedessore ma ci voleva davvero poco.
Passano alcuni anni e si arriva ai due Alien vs Predator, di cui ho già parlato nel precedente articolo.
Per ridare vita al franchise, Ridley Scott torna alla regia nel 2012 e nel 2017 con Prometheus e Alien: Covenant. Sigourney Weaver non fa parte del cast. Devo essere sincero: ho visto questi due film solo una volta e mi ricordo davvero poco, ma una cosa mi ricordo bene: non mi hanno dato niente, al punto da pensare che Ridley Scott faceva meglio a non averli girati.
Quest’anno è uscito Alien: Romulus ma, dati i precedenti, non l’ho visto; forse lo recupererò se farà un passaggio in televisione.
Consiglio finale? Da vedere sicuramente i primi due film, il resto è solamente il ripetersi di un copione già visto e conosciuto. E alle volte è un ripetersi pure mediocre (vedasi terzo film).
Predator, come Alien, è diventato un personaggio cult nel mondo del cinema. E come Alien, Predator è un alieno e anche lui ha avuto una saga cinematografica abbastanza lunga, dalle fortune alterne.
Non si più che cominciare dal primo, iconico Predator del 1987, il migliore di tutta la serie e, se si deve essere sinceri, ci si poteva fermare con questo film perché tutto era stato detto e mostrato (o quasi). Inutile dire che avere nel cast figure del calibro di Arnold Schwarzenegger e Carl Weathers abbia aiuto non poco questa pellicola ad aver fortuna; il merito però non è tutto loro: dietro al successo c’è anche una buona regia che ha saputo creare la giusta atmosfera e suspense. La trama è abbastanza semplice: una squadra di militari va in missione di salvataggio in un paese del Sudamerica per recuperare un ministro precipitato con l’elicottero nella giungla. Si scoprirà che la missione non è quella per la quale sono stati ingaggiati, ma i veri problemi sono altri: i membri della squadra iniziano a essere uccisi senza poter vedere chi li ha colpiti. Inizia così una caccia dove non si capisce chi è davvero la preda e il predatore. Solo Dutch (Schwarzenegger) e una guerrigliera catturata sopravvivono all’invisibile nemico, che si rivelerà essere un alieno dotato di un equipaggiamento con un’avanzata tecnologia che gli permette di mimetizzarsi perfettamente con l’ambiente in cui si trova e di vedere all’infrarosso. Capiti i punti deboli del nemico (non può individuarlo se si cosparge di fango), Dutch prepara il campo di battaglia per sconfiggere il pericoloso nemico: seguirà uno scontro finale dove l’uomo ha la meglio sull’alieno, che prima di morire si fa esplodere.
Con il successo avuto, inevitabilmente non potevano che esserci dei seguiti, che però non potevano essere all’altezza del primo. Motivo? Una volta rivelata la sorpresa, si sapeva già con chi si aveva a che fare e tutta la suspense e l’atmosfera cessavano di essere, si aspettava solo di vedere quando il Predator si sarebbe rivelato. Per questo motivo Predator 2, del 1990, non si è avvicinato minimamente al suo predecessore e non solo perché Schwarzenegger non faceva parte del cast; benché abbia apprezzato Danny Glover in altre pellicole (la serie di Arma Letale), in questo film non convince, ma non è colpa sua: è tutto il film che non va.
Passano così quattordici anni e si fa un crossover facendo incontrare le due razze aliene più pericolose e famose viste al cinema: nasce così Alien vs Predator (2004). Si scopre che i Predator usano gli Alien per dimostrare il loro valore in battute di caccia: in un’isola sub-antartica sorge una piramide aliena dove è ibernata una regina Alien. Una squadra viene mandata a esplorare e naturalmente finisce nello scontro tra le due razze, venendo massacrata. Soltanto una donna tra umani e Predator riesce a sopravvivere allo scontro con gli Alien. Non un disastro come film, ma che non raggiunge nemmeno lontanamente il livello né del primo Predator né dei primi due capitoli della serie Alien.
Di Aliens vs. Predator 2 (2007) non posso dire nulla, dato che non l’ho visto, ma la visione del primo non mi ha mai invogliato a recuperarlo.
Si arriva così al 2010, venti anni da Predator 2 e c’è da dire che con Predators si è avuto un miglioramento rispetto al secondo capitolo della saga; certo, non siamo al livello del primo, ma il film ha un buon ritmo. Dall’ambientazione metropolitana si ritorna alla giungla, anche se si tratta di una giungla aliena: un gruppo disparato di persone esperte nell’uso delle armi e nell’arte dell’uccisione viene rapito e portato su un pianeta artificiale, che altro non è che una riserva di caccia dei Predators. L’incontro con un uomo sopravvissuto per anni sul pianeta fa scoprire che ci sono delle divisioni tra gli alieni, che si combattono tra loro. Seguiranno solite cacce tra uomini e alieni, ci sarà anche un traditore tra le fila umane, ma due personaggi riusciranno a sopravvivere, benché ancora intrappolati sul pianeta, dove giungono altri esseri umani per una nuova caccia.
Passano altri otto anni e arriva The Predator, che purtroppo fa passi indietro rispetto al precedente: lo si può mettere al livello di Predator 2. Evitabile.
Si arriva così a Prey, ultimo film (finora) della serie e prequel del primo film. Molto prequel, dato che è ambientato nel 1719, tra gli indiani d’America; inutile soffermarsi sulla trama, dato che il copione è sempre lo stesso. Tuttavia il film è gradevole e si lascia guardare, anche se ormai non c’è più l’effetto del primo Predator, perché ormai gli alieni sono stati fatti vedere in tutte le salse.
In conclusione, dando un giudizio personale, da vedere sicuramente Predator, poi recuperare Predators e Prey; il resto meglio lasciarlo perdere.
Nel precedente post parlavo di come si è perso il senso della misura, e in un certo qual modo si può dire lo stesso per Qiddiya City, dove ci sarà il primo quartiere al mondo dedicato interamente ai videogiochi. Tuttavia, è ingiusto fare un paragone tra questo quartiere e Comedian: perché se è una boiata pazzesca pagare più di sei milioni di dollari per una banana (e alla fine dei conti non si ha nessun tornaconto), con Qiddiya City si parla di ingenti investimenti che però sono volti a creare introiti ancora maggiori, perché quanto legato al mondo dei videogiochi è un business enorme, molto più grande di mercati come quello dei libri o del cinema. Quindi c’è un senso nell’aver voluto creare un quartiere totalmente dedicato ai videogiochi. E non si può negare che tutto questo non sia affascinante: anche se i tempi in cui videogiocavo sono finiti da un pezzo, se succedesse (cosa alquanto improbabile) di ritrovarmi in quel luogo, mi perderei nel guardare e visitare tutti gli intrattenimenti realizzati, perché si deve ammettere che quello che è stato creato è qualcosa di meraviglioso.
Oltre che meraviglioso, ha pure un senso la sua realizzazione, visto che sarà sede di eventi dedicati al gaming e soprattutto agli Esports, tornei di grande risonanza che attirano migliaia di giocatori e soprattutto tantissimi sponsor con i loro forti investimenti. Turismo, pubblicità: quanto fatto a Qiddya City, renderà moltissimo in fatto di guadagni e per questo si è investito così tanto.
Tuttavia, non si può evitare di fare una riflessione: è logico che s’investa pensando al guadagno. Ed è altrettanto logico che si guardi dove si possa guadagnare di più. Però fa pensare come si pensi più al superfluo che al necessarrio. Sia chiaro non si sta puntando il dito a chi crea tutto questo: la cosa dipende anche molto dalle persone, visto quanto giocano, quanto spendono in tutto ciò che è legato ai videogiochi. Imprese e imprenditori investono poi di conseguenza in base alla domanda. E con i videogiochi di domanda ce n’è in abbondanza.
Però è stridente vedere quanti miliardi vengono investiti per i videogiochi e quanto poco in confronto viene investito per la ricerca, per non parlare dei tagli che vengono fatti alla sanità (chissà perché viene in mente l’Italia); si fa molto meno per contrastare la povertà, le differenze sociali, gli interventi da effettuare in zone colpite da calamità naturali. Va bene svagarsi e divertirsi, ma queste cose dovrebbero venire dopo che si è pensato alle priorità; avrà anche un senso dare dei servizi a centinaia di migliaia di persone appassionate di videogiochi, ma si hanno decine di milioni di poveri (non si è voluto esagerare, ma sarebbe meglio parlare di centinaia di milioni) che hanno bisogno di beni essenziali come cibo, medicine, posti dove dormire.
Differenze sociali ce ne sono sempre state al mondo, c’è sempre stato chi poteva permettersi di tutto e chi non aveva niente. Tuttavia, l’umanità dovrebbe essere evoluta e aver capito che certe cose non andavano bene, che se l’uomo si considera essere superiore ed evoluto dovrebbe aver superato e risolto certe situazioni. Invece si è sempre a parlare di condizioni vecchie come il mondo, a dimostrazione che certe misure non sono state ancora colmate e forse non si vuole colmarle.
In tanti hanno sentito parlare della banana di Cattelan, Comedian, la banana attaccata a una tela con un pezzo di nastro adesivo e venduta per 6,2 milioni di dollari. Come ben si sa, una banana è qualcosa che non dura molto e infatti l’acquirente dell’opera d’arte ha ricevuto un kit (un rotolo di nastro adesivo, una banana, il certificato di autenticità e le istruzioni per l’installazione) per realizzarla a casa sua. L’acquirente ha detto che sarà felice di mangiarsela (cosa che ha già fatto) e ha dichiarato che: “Non si tratta di una semplice opera d’arte, ma di un fenomeno culturale che unisce i mondi dell’arte, dei meme e della comunità delle criptovalute” e ha aggiunto anche “che mangerà questa banana “come esperienza artistica unica, per avere un posto sia nella storia dell’arte che nella cultura popolare”.” (1)
La cosa ha fatto discutere e in tanti hanno detto la loro. Qualcuno ha definito Cattelan un genio e da un certo punto di vista, lo si può definire tale, visto che con una spesa minima (si può trovare un chilo di banane a poco più di un euro, un rotolo di nastro costa poco di più) ha avuto un guadagno senza precedenti (si può tranquillamente dire sei milioni di volte superiore). Si è detto che Comedian è un’opera d’arte perché è una creazione prodotta da un artista, spostando il focus dall’oggetto artistico tradizionale al concetto che rappresenta, sfidando la nostra comprensione di cosa sia l’arte. Non si tratta di una semplice banana attaccata al muro, ma di un gesto che mette in discussione il valore simbolico, culturale ed economico degli oggetti e si pone in maniera critica nei confronti dello stesso sistema che l’ha prodotta. Si tratta di un ready made, ovvero di un oggetto ordinario, quotidiano, persino banale, che viene però spostato in un contesto artistico (per esempio una galleria d’arte) e diventa quindi un’opera d’arte per decisione di un artista che è universalmente riconosciuto per essere, appunto, un artista. (2)
Si è detto anche che costa tanto perché è un’opera d’arte a cui viene attribuito un elevato valore economico. Il prezzo elevato di Comedian non definisce la sua natura artistica, ma è piuttosto un effetto del sistema dell’arte contemporanea. L’opera sarebbe arte anche se non costasse nulla, perché il suo valore risiede nel concetto che rappresenta. Il costo è, come detto, un riflesso del valore che il mercato attribuisce all’opera (2). E si aggiunge che il valore di Comedian non risiede nel materiale (una banana e del nastro adesivo) ma nell’idea e nel contesto in cui è stata presentata. Chi ha acquistato l’opera non ha comprato un oggetto fisico, ma un’opera d’arte rappresentata da un concetto, e ha acquistato il diritto di replicarlo. L’acquirente ha riconosciuto in Cattelan un artista capace di catturare lo spirito del nostro tempo, e il prezzo pagato riflette questo riconoscimento. Un altro fattore è il prestigio associato al possesso di un’opera d’arte concettuale famosa. Comprare Comedian significa non solo possedere un pezzo unico della storia dell’arte contemporanea, ma anche partecipare a un discorso culturale che va oltre l’oggetto in sé. È come acquistare un simbolo: chi possiede Comedian possiede un pezzo della conversazione globale sull’arte. (2)
Chi più ne ha più ne metta; il link citato nel punto 2 parla ampiamente della cosa, difendendo Comedian a spada tratta: è un punto di vista.
Il mio punto di vista su tale questione è come quello del ragionier Ugo Fantozzi in Il secondo tragico Fantozzi (vedere dal minuto 1 e 33 della clip).
6.2 milioni di dollari per una banana attaccata con adesivo a una tela sono una cazzata pazzesca. Trovo difficile trovare parole per descrivere l’imbecillità della cosa. Non so se è più da imfamare chi ha realizzato questa cosa, chi l’ha valutata o chi l’ha comprata. Tutto questo clamore, tutti questi soldi investiti per una cosidetta idea, per qualcosa d’astratto, sono un’assurdità senza senso e trovo ancora più senza senso chi cerca di proteggerla e giustificarla. Comedian non è un’opera d’arte: l’arte è un’altra cosa, non è questa roba. A pensarci bene, Comedian, non può neppure rappresentare un’idea, come è stato detto, perché non si sa neppure di che idea si tratta. Questa al massimo è una provocazione, ma una provocazione non la si vende a questo prezzo; Cattelan non è un genio e non va nemmeno considerato intelligente: se fosse intelligente, non l’avrebbe venduta, l’avrebbe definita qualcosa che non ha prezzo. Invece se n’è approfittato e gli approfittatori non meritano di essere considerati artisti. Con 6,2 milioni di dollari si potevano fare scuole, ospedali, sfamare senzatetto, ricostruire interi paesi colpiti da disastri naturali e invece li si mettono per un frutto che dopo qualche giorno marcisce. Se è da biasimare l’autore di questa cosa, ancora di più lo è chi l’ha comprato, che perché ha tanti soldi vuole dimostrare di averli, vuole fregiarsi di titoli senza senso. Tutto questo è assurdità e follia, è un insulto ai poveri, agli sfortunati, all’intelligenza, ai veri artisti. Perché se Comedian è un’opera d’arte allora opere come la Gioconda, la Pietà, la Cappella Sistina, cosa sono? E quanto possono valere? Se seguiamo la logica usata per Comedian, siamo dinanzi a qualcosa di fuori scala, assolutamente priva di prezzo perché di valore incalcolabile.
Pazzia. Tutto questo è soltanto pazzia. E non ci meravigliamo se il mondo scivola sempre più in basso.
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