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Il magazzino dei mondi 2

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Skyward

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Skyward di Brandon SandersonSono passati più di due anni dall’ultima nuova uscita italiana di Brandon Sanderson (era il settembre 2016 che usciva Calamity, terzo libro della serie degli Eliminatori). Doveva toccare a Edgedancer e Le ombre (romanzo appartenente alla seconda serie di Mistborn), ma nella primavera del 2018 Fanucci diede comunicazione che non avrebbe più pubblicato opere dell’autore, dato che non sarebbe più stato il suo editore italiano.
E’ trascorso circa un anno da quel comunicato e le acque si sono mosse: dal 27 marzo è possibile trovare nelle librerie e sugli store, Skyward, opera di fantascienza pubblicata in Italia da Armenia, non legata a nessuna delle sue opere precedenti. Il tema alla base dell’opera è ben conosciuto: la voglia di volare dell’uomo. Protagonista della storia sarà Spensa, una ragazza con il desiderio di diventare una pilota ed essere ammessa all’accademia di aviazione di Detritus. Ecco la quarta di copertina (a questo link è possibile leggere l’anteprima).

Spensa ha un sogno, diventare pilota di caccia stellari… proprio come suo padre. Ma è proprio l’ombra del padre, tacciato di tradimento e sparito nel nulla dopo un’ultima battaglia con i Krell alieni, che le impedisce di realizzare il suo sogno e rivelare a tutti il suo dono. Le cose, però, stanno per cambiare. Sul pianeta Detritus, tutti i ragazzi della sua età si addestrano alla guerra contro quegli alieni sanguinari che hanno distrutto le loro case e li tengono ostaggi sul loro stesso pianeta. Ma un giorno, lassù in cielo, le cose prenderanno un nuovo corso. Spensa capirà che la realtà non è quella che tutti credono e anche suo padre, in realtà…

Il pianeta dei venti

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Il pianeta dei venti, immagine del racconto presente sul supplemnto del numero 15 di ROBOTIl pianeta dei venti (The storms of Windhaven) è un racconto del 1975 realizzato da Lisa Tuttle e George R.R. Martin. In un pianeta composto da isole e sferzato dai venti, si è sviluppata una civiltà dai sopravvissuti di un’astronave precipitata su di esso e mai più riuscita a ripartire; dopo conflitti interni che hanno rischiato di portare alla rovina, chi è rimasto ha imparato dagli sbagli del passato, costruendo un sistema di leggi che non facesse rivivere gli errori commessi. Tra queste, vi è quella che impone che le ali siano tramandate al primogenito di ogni famiglia che le detiene. Le ali altro non sono che strutture meccaniche che consentono a chi le indossa di planare per lunghi periodi sulle continue e forti correnti ventose presenti sul pianeta, e sono l’unico mezzo che permette di comunicare alle isole tra loro, dato che i mari sono abitati da pericolose creature, rendendo difficile effettuare lunghe traversate.
Proprio le ali sono al centro della vicenda che vede come protagonista Maris, figlia adottiva di un Volatore: dopo che per anni ha provato l’ebrezza del volo, visto il raggiungimento dell’età adulta del fratellastro, si vede costretta a cedergli le ali che tanto ha amato e di cui tanto ha avuto cura. Dinanzi a un sistema rigido, di stampo medievaleggiante, con i Volatori che si ritengono una classe superiore e migliore di tutto il resto della popolazione (chi non è come loro viene etichettato spesso con disprezzo come terricolo), costringendo i figli a seguire una strada anche se non è quella che vogliono, la ragazza si ribella, rubando le ali e facendo indire un consiglio per far mutare le cose. Con la sua determinazione e le sue parole, riuscirà a cambiare un sistema secolare, con le ali che passeranno d’ora in avanti a chi è davvero meritevole d’indossarle: un merito che dipende dalle proprie capacità e non dall’ereditarietà.
Il pianeta dei venti è una storia di fantascienza, con l’elemento fantascientifico limitato al nominare navi stellari con le quali gli antenati della popolazione attuale sono giunti sul pianeta, di cui quello che rimane sono solo pezzi della vela usata per imbrigliare i venti stellari e ora utilizzati per le ali. Una storia dove ben viene mostrato l’amore per il volo e il senso di libertà che scaturisce nel librarsi in alto, dando realizzazione a uno dei più grandi desideri dell’essere umano; quella libertà che fa lottare contro tradizioni ingiuste, liberando gli individui da costrizioni pesanti come macigni.

Christine - La macchina infernale

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Christine La macchina infernale di Stephen KingChristine – La macchina infernale è un romanzo di Stephen King, pubblicato nel 1983. Ormai la storia praticamente tutti la conoscono: un giovane acquista una vecchia Plymouth Fury del 1958, chiamata Christine dal suo vecchio proprietario, e la rimette in sesto, facendola diventare la sua ossessione. Presto cominciano ad accadere cose strane e tutti quelli che hanno preso di mira il giovane e la sua auto fanno una brutta fine. Cominciano a esserci dei sospetti sul giovane ma ha sempre un alibi di ferro; presto è chiaro che è Christine a vendicarsi da sola di chi gli si è messo contro.
Forse, quando è uscita, la storia ha avuto un certo impatto, ma ora dopo tanti anni e tante storie horror passate al cinema, non colpisce più di tanto che un’auto posseduta da forze soprannaturali vada in giro a uccidere chi le ha fatto dei torti (è vero che in America le case sono costruite in maniera diversa che in altre parti del mondo, ma lascia un po’ perplessi che un’auto demolisca un’abitazione per eliminare una persona). Christine – La macchina infernale è un romanzo horror, ma non spaventa come tanti si potrebbero aspettare dal maestro dell’horror (etichetta che spesso stravolge l’idea che ci si può fare dei lavori di King), tuttavia è una storia ben sviluppata, che fa riflettere: questo è il suo punto forte (non certo il sorprendere, dato che già il titolo spoliera e non poco qual è la natura del romanzo).
Su cosa fa riflettere?
Sull’attaccamento alla roba e come può divenire un’ossessione, al punto da far prendere la mano e far smarrire se stessi. Il giovane Arnie Cunningham perde la testa dietro una vecchia auto al punto da passare quasi tutto il tempo con lei a ripararla e guidarla; i rapporti con amici, ragazza, genitori si deteriorano al punto da saltare. Arnie cambia personalità, non è più lui, sembra essersi trasformato in un altro, come se fosse posseduto (il che, in effetti, è proprio quello che accade nel libro). King con questo personaggio mostra bene come un’ossessione, una dipendenza, possa cambiare una persona fino a farla divenire irriconoscibile; attraverso Arnie viene mostrato il lento scivolare lontano dalla normalità, il prendere sempre più la mano dell’ossessione che fa vivere sempre peggio chi ne è stato colpito. Ciò che è causa dell’ossessione diventa il centro della propria esistenza, l’unica ragione di vivere: ogni pensiero, ogni azione, è focalizzata su di essa, finché ci si ritrova soli a combattere contro il proprio demone personale e a soccombere, perché si sono allontanati dalla propria esistenza coloro che potevano aiutare.
Certo, in Christine – La macchina infernale Roland D. LeBay, l’ex proprietario della macchina, gioca un ruolo importante nella vicenda, anzi, si può dire che è l’artefice di tutto. Ma se si osserva bene, lui è l’incarnazione dell’ossessione, il demone che possiede Arnie e lo tormenta, fino a farlo diventare schiavo, perché è questo quello che succede quando si lascia prendere piede a un’ossessione. E non ce la si può fare da soli per uscire da quello che è un incubo (chi vive un’ossessione prova un disagio che lo fa star male, oltre a risucchiargli ogni energia): prima che sia troppo tardi, occorre un aiuto esterno per potersi liberare di essa. Così è con tutte le ossessioni e le dipendenze: alcool, droga, gioco. Occorre essere aiutati per uscire dal pozzo buio in cui si è finiti.
Va aggiunto che in Christine – La macchina infernale, King mostra bene lo scontro generazionale tra figli e genitori nel passaggio che porta verso l’età adulta: il conflitto che nasce tra Arnie e soprattutto sua madre (esempio di persona che vuole tenere tutto sotto controllo e programmare la vita degli altri) è molto forte e davvero ben scritto.
Non sarà un’opera al livello di It e Il miglio verde, ma Christine – La macchina infernale è una lettura che merita.

Vita senza fine

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Si costrinse ad aprire gli occhi. Li richiuse subito dopo, promettendosi di non aprirli mai più; quello spettacolo andava oltre la sua soglia di sopportazione.
Avrebbe voluto sprofondare nel terreno, farsi accogliere dall’abbraccio della terra, con il suo odore umido, con il tocco delle sue radici. Ma questo non era possibile, perché tutto era cemento; con esso gli abitanti di quel mondo avevano ricoperto ogni centimetro quadrato del pianeta. Palazzi che s’innalzavano ovunque verso un cielo sempre grigio, che non faceva mai vedere né il sole né le stelle.
Grigio, grigio ovunque. Non c’era un solo sprazzo di verde, nessuna traccia di alberi, fiori: erano stati spazzati via in nome del progresso, ritenuti inutili e superati. Se si riusciva a respirare era grazie ai giganteschi macchinari che generavano ossigeno e depuravano l’aria.
“Sono finito in un mondo di pazzi” si ripeté per l’ennesima volta.
La città cominciò a svegliarsi. La gente prese a riversarsi nelle strade per raggiungere gli uffici dove avrebbe trascorso la meccanica e indaffarata giornata lavorativa, simile agli automi che stavano prendendo piede nelle grosse industrie e che avrebbero sostituito a breve la manodopera umana. Presto l’umanità non avrebbe avuto più bisogno di lavorare e avrebbe avuto a disposizione tutto il tempo del mondo, potendo realizzare così il suo grande sogno: starsene sdraiata su comode e grigie poltrone a sognare i sogni generati dalle macchine da lei programmate. Il nirvana tanto agognato.
“Vivere in un mondo di sogni, dove tutto è perfetto e non esistono patemi e sofferenze…” non era forse stato quello il fine che anche lui e i suoi compagni avevano a lungo inseguito, per i quali si erano dati da fare? Per il quale erano morti?
Un brivido gli percorse la schiena. No, loro non erano come quelle persone: non erano dei pazzi capaci di stravolgere quello che toccavano. Loro avevano agito per il bene di tanti, non per scopi egoistici come facevano gli abitanti di quel pianeta. Loro…
Strinse i pugni. Ora restava soltanto lui. Ma se fosse riuscito a sopravvivere ancora un poco, tutti i loro sforzi sarebbero stati ripagati e nulla sarebbe stato vano.
Però, quanto sarebbe stato bello potersi lasciare andare, poter…
Una fiammata rossa divampò nella sua mente.
Lui era vicino, molto vicino. Era di nuovo sulle sue tracce.
Si costrinse a riaprire gli occhi su quel mondo privo di colori, fatto di spigoli e lati taglienti.
Doveva restare in vita. Era l’ultimo. Di tutti quelli che avevano cominciato quel progetto, era l’unico che non era caduto sotto i suoi colpi. Aveva bisogno solo di un altro po’ di tempo. Ancora un poco e tutti i tasselli sarebbero andati a posto.
Riprese a muoversi, tenendosi sempre nell’ombra.
Era così vicino all’obiettivo. Aveva viaggiato per tanti mondi e tempi, scappando come un ladro, vivendo come fuggitivo, sfuggendo alle trappole che il suo predatore sempre gli tendeva. Una vita d’inferno, senza amici, senza affetti. Ma adesso che il Fulcro dell’Energia Primordiale era a portata di mano, tutti i suoi sacrifici sarebbero stati ripagati.
Senza guardarsi indietro, attraversò vicoli e vie secondarie, dove il traffico era ancora scarso, salvo qualche netturbino che con il suo macchinario puliva i marciapiedi. Presto la fiammata rossa svanì dalla mente. Sicuro di aver distanziato il suo predatore, si diresse senza indugio verso la piazza che aveva scorto dalla cima del grattacielo più alto.
La raggiunse quando ormai l’oscurità stava calando. Era deserta, senza nessuno in vista.
“Finalmente, dopo tutti questi anni…”
«Hai impiegato del tempo per arrivare: credevo non saresti più venuto.»
Lentamente si voltò. Lui. Il predatore. Avrebbe dovuto immaginare che lo avrebbe aspettato al varco. La fretta l’aveva tradito. Ma ormai era alla fine. Basta scappare. Basta avere paura.
Sospirò prima di mettere le mani in tasca con fare rassegnato. «Smettila di nasconderti nell’ombra. Voglio vedere il volto di chi mi ha dato la caccia per tutto questo tempo.»
«Se questo è il tuo ultimo desiderio.» Il predatore entrò nel cerchio di luce dei lampioni.
Nulla di quello che aveva davanti corrispondeva a quanto si era immaginato. Un volto che non aveva età, con la barba e i capelli striati di grigio: sembrava una persona come tante. Eppure non c’erano dubbi: era l’Assassino d’Ombra. Il volto che tutti i suoi compagni avevano visto prima di morire.
“Ma io non morirò. Non ora che ho trovato il Fulcro. Non ora che sono così vicino alla realizzazione del nostro sogno.”
Estrasse una mano dalla tasca e lanciò la biglia che aveva tenuto stretta tra le dita.
La deflagrazione fu tremenda, divellendo strati di cemento e asfalto. Una cortina nebbiosa di detriti si posò sulla zona.

L’Assassino d’Ombra spazzò via la polvere dagli abiti, lanciando uno sguardo sulla preda che tanto a lungo aveva inseguito. Le vesti stracciate rivelavano le ossa spezzate che uscivano da sotto la pelle delle gambe; le braccia avevano subito la stessa sorte nel tentativo di proteggere il volto.
Con calma si avvicinò all’umano, inginocchiandosi accanto a lui e scostando con fermezza le mani sanguinanti e straziate che cercavano di fermarlo. Trovò subito il Sigillo. Alla luce dei lampioni, la pietra nera non mandò nessun riflesso.
«Noi… volevamo togliere la sofferenza dal mondo… niente più lacrime… niente più disperazione… Così noi…» disse in un rantolo l’umano.
«Avete pensato d’imprigionare l’essenza della morte, di portarla nel Fulcro dell’Energia Primordiale per utilizzare la sua forza e rendere il Sigillo indistruttibile, in modo che la Nera Signora non potesse più camminare per i mondi» concluse per lui l’Assassino d’Ombra. «Una vita senza fine.»
«Sì» l’umano tossì sangue.
«Avete creduto che donando l’immortalità, tutti sarebbero stati felici.» L’Assassino d’Ombra scosse il capo. «Invece, così facendo, avreste solamente donato pazzia.»
«Non…»
«Nessuna mente umana è concepita per vivere in eterno» lo interruppe l’Assassino d’Ombra. «Guarda questo mondo. La sua tecnologia ha allungato l’esistenza dei suoi abitanti, ma chiami vita il loro modo di vivere? Ho visto come li guardavi e l’orrore che si dipingeva sul tuo volto, consapevole di quello che avevano fatto. Voi avreste ripetuto lo stesso errore, se non anche peggiore.» Scosse il capo. «Vivere tanto a lungo è una maledizione.»
«Io… noi… non volevamo più perdere nessuna persona cara… non volevamo più…»
«Soffrire. Ma essere immortali non significa essere protetti dal dolore.» Strinse la mano che impugnava il Sigillo e lo infranse. Uno sbuffo nero si levò nell’aria. «La morte non è sempre un male» con la mano libera chiuse gli occhi all’umano che aveva smesso di respirare e soffrire.
Quando si rialzò in piedi, lei era accanto a lui.
«Salve, Madama» la salutò.
«Hai agito bene» disse la Nera Signora.
«Ho fatto quanto era giusto fare.»
La Nera Signora assentì, volgendo lo sguardo sull’ultimo dei maghi che aveva cercato di eliminarla dal corso dell’esistenza. «Una storia vecchia come il mondo. I mortali anelano sempre all’immortalità.»
L’Assassino d’Ombra abbozzò un triste sorriso. «Senza sapere del dono che hanno tra le mani.»
«Tutti desiderano quello che non possono avere. Un Immortale come te dovrebbe saperlo.»
L’Assassino d’Ombra rimase in silenzio.
«Io sono al di fuori del Tempo, lo regolo a mio piacimento, senza limiti. Ho un grande potere, ma per quanto grande, non posso darti quello che tu desideri, perché ci devono essere cose destinate a durare per sempre.»
Quando l’Assassino d’Ombra si voltò, lei se n’era andata, riprendendo il compito a cui era stata sottratta tanto a lungo.
“Tutti abbiamo una strada da seguire. Ma alle volte è così lunga da percorrere.”

I Cristalli dell’Occhio della Mente

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La Scatola Magica di Landover, libro dal quale è estratto il brano sui Cristalli dell’Occhio della Mente… era disperatamente attaccato al suo cristallo personale. Nelle occasioni in cui riusciva ad ammetterlo a se stesso, occasioni che capitavano sempre più di rado, si preoccupava del fatto che quella sua attrazione sconfinasse addirittura in una forma di assuefazione. Era come se fosse stato completamente coinvolto dal cristallo fin dalla sua prima occhiata all’interno delle sue luminose profondità.
Ma che cosa gli veniva mostrato di tanto intrigante, non una sola volta, ma ogni volta che vi guardava dentro? Egli vedeva se stesso, se stesso come era stato una volta, un uomo con lineamenti e caratteristiche da uomo, senza più quel corpo da cane che si ritrovava. Si trattava del desiderio più grande della sua vita, il sogno che avrebbe sempre desiderato veder realizzato, e quando scrutava nelle profondità sfaccettate del cristallo dell’occhio della mente, il suo sogno si realizzava. Poteva rimanere lì a guardarsi per tutto il tempo che desiderava, e quel tempo diventava sempre più lungo ogni giorno che passava. Non solo riusciva a vedersi in forma umana, ma provava anche le sensazioni; ricordava perfettamente come era stato prima che Questor Thews invocasse il suo sfortunato incantesimo e lo riducesse in quello stato in cui si trovava.
Si trattava di un passatempo incredibilmente gradevole, e Abernathy non sembrava mai averne abbastanza. Non era esattamente come tornare a essere colui che era stato in precedenza, ma era la cosa più prossima che avesse mai sperimentato. Era incredibilmente soddisfacente, e doveva il tutto a Horris Kew.
Anche in quel momento, mentre si avvicinava alle torreggianti porte di Rhyndweir e spasimava per un bagno e per un boccale di birra fredda, non riusciva a fare a meno di pensare anche al suo cristallo e al tempo che avrebbe passato in sua compagnia nella sua stanzetta solitaria.
(1)

Quello sopra citato è un brano tratto La Scatola Magica di Landover, quarto libro della serie Landover realizzata da Terry Brooks, in cui si parla degli effetti che hanno i Cristalli dell’Occhio della Mente sulle persone. Questi piccoli oggetti magici creano in chi guarda la visione di ciò che più desiderano; si tratta di un’illusione, ma resa quasi reale, che fa nascere una forte dipendenza in chi la usa, al punto che non si farebbe altro che passare le giornate immerse in essa. Occupandosi solo di questo, è logico che tutte le altre attività ne risentono, tant’è che nel regno di Landover tutto si ferma.
Non è strano trovare analogie tra questo brano e la realtà. Si può vedere che una parte della tecnologia, quali sono tv, pc, smartphone e tutto ciò che è legato alla rete, non è che una sorta di Cristalli dell’Occhio della Mente; certo, essa non crea visioni dove si realizzano i desideri più personali e voluti degli individui, tuttavia realizza molte illusioni in cui la gente passa molto tempo. Questo solitamente viene chiamato passatempo e a tutti piace svagarsi un po’ per ricaricarsi, rilassarsi, staccare un poco dai problemi e dallo stress; non c’è nulla di sbagliato. Tuttavia, ci sono persone che si immergono troppo in esse, al punto che se non sono sempre connesse alla rete, non riescono più a vivere bene, anzi, ci stanno quasi male. Senza esagerare, si può dire che ne sono diventate schiave, proprio come succede con tutte le dipendenze. Tutto questo, logicamente ha delle conseguenze e non solo nell’immediato, ma anche a lunga scadenza: i rapporti sociali si degradano, si perde la manualità nel fare le cose, si ha una regressione dell’intelligenza, della capacità di giudizio.
La tecnologia è un mezzo, qualcosa di neutrale: solo chi lo utilizza lo può rendere qualcosa di positivo o negativo. Occorrerebbe essere consapevoli di tutto ciò, senza far scaturire dipendenze e cose ancora peggiori, perché quello che più conta è la vita: se ce la si fa rovinare per cose che non sono importante, che senso essa ha?
Sognare, fantasticare è bello, ma non se fa perdere contatto con ciò che è importante. Purtroppo siamo immersi in una società piene di Cristalli dell’Occhio della Mente, e spesso nemmeno ce ne accorgiamo.

1. Terry Brooks. La Scatola Magica di Landover. Arnoldo Mondadori Editore 1994, pag.161

Si è liberi di fare solo la prima scelta

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Nascosto dietro la siepe, osservava i bambini giocare nel cortile della scuola. Vederli correre dietro una palla, sentire le loro urla gioiose… per anni erano state una fonte di gioia, anche nei momenti più bui. Come lo erano state le ore in classe a insegnargli la matematica, la storia, la geografia.
Un lieve sorriso si dipinse sul volto. La sua ora preferita era quella d’italiano, specie quando faceva inventare ai piccoli delle storie, oppure si metteva a leggere delle favole; allora nell’aula calava un silenzio magico ed era quasi possibile sentire i sogni dei bambini nascere e prendere forma. In quegli occhi sbarrati e attenti scorgeva mondi senza fine, pieni di vita e speranza; mondi dove tutto era possibile e la vita era una distesa dalle scelte infinite.
Scelte infinite…
Posò una mano sulla tasca dove teneva la lettera.
“Si è liberi di fare solo la prima scelta: tutto il resto è una conseguenza.”
Non ricordava dove avesse letto quella frase, ma era stato quando non aveva ancora raggiunto la maggiore età. Allora l’aveva ritenuta una baggianata, ma adesso… adesso vedeva la verità in essa celata. Soprattutto, ne sentiva il suo peso.
Il sorriso scomparve dalle labbra.
A fatica si allontanò da quella piccola oasi di pace e felicità, ben sapendo che non avrebbe più insegnato. Non dopo quello che doveva fare. Come avrebbe potuto insegnare valori come la speranza, la fiducia negli altri, non avendole più nel cuore? Come poteva rapportarsi con qualcosa di puro come la mente di quei piccoli, senza contaminarla con quello che sarebbe diventato?
A passi lenti percorse il lungo viale che attraversava il parco, sedendosi su una panchina e aspettando l’orario di apertura dei negozi. Quando giunse, si alzò in piedi e, sempre senza fretta, si diresse verso il fioraio. Anche se il suo cuore era pieno di malinconia per la vita che stava lasciando, in esso c’era una grande calma nata dall’accettazione. In fondo, aveva sempre saputo che quel giorno sarebbe venuto; sapeva che, se avesse avuto risposta alle domande che tanto si era posto e che tanto l’avevano tormentato, non sarebbe più stato lo stesso. Però era stato bello percorrere una strada diversa da quella necessaria, vivere credendo negli altri e nel ritenere che tutti avessero diritto ad avere un’altra possibilità.
Raggiunto il negozio di fiori, entrò e comprò dei crisantemi. Mentre il commesso preparava i due mazzi, restò a guardare fuori dalla porta a vetri.
“Una volta che avrò varcato questa soglia, non potrò più tornare indietro. Se voglio, sono ancora in tempo per…”
«Ecco la sua ordinazione» disse il commesso avvicinandosi e porgendogli i mazzi.
«Grazie» rispose prendendo i fiori.
L’attimo era passato. Non era più tempo per tornare indietro. Forse non c’era mai stato. Forse non l’aveva mai voluto.
L’ombra degli olmi lo accompagnò per tutto il tragitto verso il cimitero.
I passi sul ghiaino risuonarono lievi tra le lapidi, come se volessero essere una carezza di conforto per chi non era più di quel mondo.
Si fermò dinanzi a una delle tombe più lontane, fissando la foto dell’amico scomparso e leggendo l’incisione sulla lapide.
La tua determinazione sarà sempre nei nostri cuori.
Anche in punto di morte, quando non restava altro che pelle e ossa del suo corpo, aveva mantenuto le sue convinzioni granitiche.
«Marco, tu puoi credere che sia solo un caso, ma la mia morte non è qualcosa di naturale: è qualcosa di voluto.»
«Matteo…»
«No, ascoltami bene. Almeno tu devi farlo. I miei genitori, mia moglie, le istituzioni: nessuno vuole credermi. Ma tu, se sei mio amico, devi farlo.»
Nonostante non riuscisse ad alzare nemmeno la testa dal cuscino, i suoi occhi erano pervasi da una forza spaventosa.
«La malattia che mi ha divorato è la conseguenza di scelte volute e spregiudicate. A quel bastardo non importa nulla della sicurezza dei lavoratori, importa solo di guadagnare più soldi possibili, non conta a quale prezzo.»
«Matteo…»
«I materiali con cui lavoriamo sono cancerogeni. Dovremmo avere delle protezioni, ma per risparmiare non ce le danno. “Non c’è nulla di pericoloso” non fanno che ripetere. Ma la realtà è un’altra.» Fece una pausa per riprendere fiato. «Puoi non credermi, ma vedrai che ci saranno altre morti nella ditta. E saranno tutte come la mia.»
«Perché mi dici questo?»
«Qualcuno deve fermare quell’imprenditore infame.»
«C’è la giustizia.»
«Quella non è giustizia. Non quando le leggi sono scritte da gente come lui. Nessuna istituzione farà nulla, perché lui è parte del sistema che hanno creato. Serve qualcuno che non si è fatto condizionare dal suo modo di fare. Come te.»
«Io…»
«So che ritieni che tutti meritino una seconda possibilità, ma per certe persone non vale, perché non cambieranno mai, non importa quante opportunità gli saranno date. Devi fermarlo per me e per le vittime che verranno dopo di me.»

Corrugò la fronte. Allora non aveva creduto alle parole di Matteo e l’amico lo sapeva. Sapeva che non si sarebbe mosso né per l’amicizia che li legava, né per la giustizia che veniva invocata da chi non era ascoltato.
… Devi fermarlo per me e per le vittime che verranno dopo di me.»
«La violenza non è la risposta a tutto.»

Matteo aveva sorriso. Un sorriso duro, di chi sapeva dove si sarebbe dovuto spingere per ottenere quello che voleva, non importava quale sarebbe stato il prezzo da pagare.
L’amico sapeva ciò che lui avrebbe fatto e che cosa avrebbe sacrificato. Eppure non aveva esitato un solo istante. “Che razza di sistema è questo, se è capace di stravolgere gli individui fino a questo punto?”
«Facciamo un patto. Se dopo di me, in quella ditta ci saranno altre morti, saprai che ho ragione, e allora dovrai agire. Se accetterai di farlo, andrai da mia moglie, che ti darà una lettera dove ho scritto chi è stato la causa della morte di Claudia.»
«Claudia si è suicidata.»
«Questo è quello che è stato fatto credere.» Il respiro di Matteo si era fatto affannoso. «So che ti sei tormentato per tutti questi anni per avere una risposta sulla sua morte: se la vuoi, sai cosa devi fare.»
«Chi ti dice che io accetti solo per saperlo e poi non agisca come vuoi tu?»
Matteo sorrise. «Ho detto a mia moglie di darti la lettera solo due anni dopo la mia morte. Avrai modo di verificare se ho detto la verità.» Chiuse gli occhi. «E quando l’avrai vista, non avrai più bisogno di essere convinto ad agire. Allora, accetti il patto?»
Dopo alcuni secondi, gli strinse la mano.

S’inginocchiò, posando uno dei mazzi di fiori dinanzi alla lapide.
Erano trascorsi più di due anni dalla morte di Matteo. All’inizio non aveva voluto credere al discorso dell’amico: riteneva fossero le parole di un uomo disposto ad attaccarsi a tutto pur di trovare una ragione alla sua morte. Però c’era stata nei suoi occhi una convinzione tale che lo aveva fatto dubitare. Aveva preso a seguire le vicende della ditta dove l’amico aveva lavorato, sempre sotto i riflettori per le continue proteste dei dipendenti sulla mancata applicazione delle norme sulla sicurezza e per il licenziamento di alcuni di essi; ufficialmente, la causa del licenziamento era imputata al danneggiamento volontario di macchinari durante gli scioperi, ma lui aveva visto qual era la ragione che nessuno voleva ammettere. Quelle persone erano state licenziate perché si erano ammalate sul posto di lavoro come Matteo. Gli stessi segni della malattia, la stessa espressione disperata e arrabbiata.
«Ci ammaliamo per lavorare. Moriamo per poter dar da mangiare alle nostre famiglie. Questo però non è sufficiente: ci privano anche della dignità.»
Erano state le parole di un collega di Matteo che era andato a trovare in ospedale. Anche lui, come le altre persone licenziate, deceduto nel giro di pochi mesi.
Le morti però non si erano limitate solo ai dipendenti licenziati: altri si lavoratori di quella ditta si erano ammalati e poi si erano spenti in un letto di ospedale. Nonostante i fatti fossero conosciuti all’opinione pubblica, nessuna istituzione aveva agito; nessuno aveva espresso solidarietà nei riguardi delle persone ammalate e dei familiari delle vittime. Tutti erano rimasti indifferenti.
E mentre tutti se ne fregavano, chi era la causa di tanta rovina continuava a vivere, godendo e prosperando sul sangue altrui.
“Avevi ragione, Matteo. Nessuno ha fatto niente. E continueranno a non fare niente, facendola passare liscia a quel delinquente. Come sempre è stato.” Si alzò in piedi. “Mi spiace aver dubitato di te. Farò quel che devo, anche se non è facile. Dammi un po’ della tua determinazione.”
Tornò sui suoi passi, raggiungendo i portici e dirigendosi verso la zona più vecchia del cimitero. Mise i crisantemi nel vaso dinanzi alla tomba di Claudia, aggiungendoci dell’acqua. L’immagine dell’amica diciottenne e sorridente venne carezzata dai fiori mossi dalla brezza.
Restò immobile come una statua, respirando appena.
Per tutti quegli anni non aveva fatto che porsi domande sul perché avesse compiuto quel gesto estremo. Quando era giunta la notizia della sua morte, era rimasto sotto choc: non era riuscito a pensare a niente, non era riuscito a sentire niente, come se fosse all’interno di una bolla.
Le domande e i dubbi erano cominciati a giungere dopo il funerale.
Quei suoi silenzi… allora non aveva capito quanto fossero importanti. Credeva che il non sentirla più fosse dovuto al fatto che, finite le superiori e avendo preso strade diversi, i rispettivi impegni li tenessero troppo occupati per tenersi in contatto. L’aveva ritenuto qualcosa d’inevitabile, dovuto al crescere e frequentare ambienti diversi. Alcune volte s’incontravano nei corridoi dell’università, ma si scambiavano poche battute, come se non ci fosse più niente di cui parlare; negli ultimi tempi in cui si vedevano la trovava più fredda, più distaccata. Non era più la Claudia che conosceva, così sorridente, così chiacchierona; alle superiori, anche se si vedevano tutti i giorni perché nella stessa classe, si sentivano spesso per telefono. Anzi, ripensando a quel periodo, era sempre lei a chiamarlo.
Solo un anno dopo il suicidio, gli era venuto il dubbio che per lei, lui non fosse solo un amico. Le continue telefonate, il chiedergli consigli sui compiti anche se era tra le più brave della classe, il sorridergli sempre quando lo vedeva…
Il pensiero l’aveva lacerato.
“Se fossi stato io la causa del suo gesto? Se il non sentirci più, fosse stato per lei come la prova del non contraccambiare i suoi sentimenti? E se il mio non accorgermi di nulla l’avesse fatta sentire rifiutata?”
Più ci pensava, più gli sembrava il motivo del suo comportamento negli ultimi tempi in cui era viva. E lui era stato troppo preso dagli studi, troppo concentrato su se stesso, per capire quello che lei stava passando e dove l’avrebbe portata.
Quei pensieri, quelle domande, non avevano fatto che perseguitarlo, perché a essi non c’era risposta.
«E se ci fosse, che cosa saresti disposto a fare?» gli aveva domandato un giorno Matteo, quando ancora non lavorava in quella ditta.
«Tutto» aveva risposto dopo un lungo silenzio, convinto che conoscere la verità l’avrebbe liberato da un peso.
Invece era stata una pugnalata.
“Tutti questi anni tormentato dal senso di colpa, dal rimorso… convinto di essere responsabile della sua morte e invece… invece…”
La verità non l’aveva fatto stare meglio: gli aveva solo dato conferma dell’esistenza di un lato di sé di cui avrebbe fatto a meno di sapere. Ma in fondo, anche se non l’aveva mai voluto ammettere, anche se aveva sempre voluto evitare di confrontarcisi, prendendo strade che lo portassero il più lontano da esso, sapeva che c’era una parte di lui capace di tutto in certe circostanze.
Rimase a fissare il vento che carezzava i fiori sulla tomba di Claudia, la mano destra in tasca, stringendo la lettera che gli aveva dato la moglie di Matteo.

La porta si aprì.
«Sono a casa.»
Nel corridoio risuonò il tintinnio delle chiavi che venivano poggiate sul vassoio nell’ingresso.
L’interruttore scattò, ma nessuna luce si accese. «Papà, è saltata la corrente?»
«No, Salvatore, è saltata soltanto la sua testa.»
L’uomo sobbalzò. «Che cosa…»
«Non ti preoccupare per lui. Pensa invece a te stesso.»
Salvatore fece per avvicinarsi al telefono.
«I cavi sono stati strappati. E non cercare di prendere lo smartphone: renderai le cose solamente peggiori.»
Salvatore prese ad aggirarsi a tentoni nella sala buia. «Chi sei?»
«Il tuo Edmond Dantes, venuto a portare quella giustizia cui tanto a lungo sei scampato.»
«Io non ho mai fatto…»
«Nulla di male? Risparmiami le balle. Prima di morire, tuo padre ha confessato tutto. Di come ha fatto uccidere Claudia, inscenandone poi il suicidio, perché non ti denunciasse dopo che l’hai stuprata.»
«Claudia? Come fai…»
«Tu e tuo padre avete parlato di lei quando credevate che nessuno vi sentisse. Mai parlare di cose private sul posto di lavoro, nessuno te l’ha mai insegnato? Poco importa, ormai è tardi. Non farai mai più casini del genere, proprio come tuo padre.»
«Aspetta…»
Si sentì un cozzo e poi niente più.
Una luce fendette l’oscurità della sala. Marco fissò il cranio sfondato di Salvatore, il martello che teneva in mano gocciolante sangue sul parquet. Poi volse la torcia verso il fondo della sala, dove si trovava il corpo del padre di Salvatore legato su una sedia. Il sangue sui vestiti non proveniva solo dalla ferita alla testa, ma anche dalle parti del corpo dove il martello aveva lacerato la pelle.
Guardando il risultato di quello che aveva fatto per avere la confessione dell’omicidio di Claudia, avvertì un sapore sgradevole in bocca, come se avesse masticato delle cimici.
«Aveva ragione Clint Eastwood in quel film. È una cosa grossa uccidere un uomo: gli levi tutto quello che ha, e tutto quello che sperava di avere» mormorò.
Diede uno sguardo ai due cadaveri, ma distolse subito gli occhi, sentendosi vacillare.
Fece un lungo respiro, poi si costrinse di nuovo a guardare i loro volti.
Avevano rovinato la vita di Claudia. Quella di Matteo. Quella dei suoi colleghi.
E avevano rovinato la sua. Tutti quegli anni a colpevolizzarsi, a sentirsi responsabile di una morte in cui non aveva avuto nessun ruolo. Anni di tormento, anni sprecati. Anni che non sarebbero più tornati e che lo avevano segnato fino a farlo diventare quello che era. Fino a farlo diventare quello che aveva fatto.
«Uccidere un uomo è una cosa grossa, ma alle volte è l’unica cosa da fare.»