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Jonathan Livingston e il Vangelo

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Jonathan Livingston e il Vangelo

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Jonathan Livingston e il VangeloJonathan Livingston e il Vangelo, a differenza degli altri lavori che ho realizzato, non è un’opera di narrativa ma di saggistica. L’idea è nata diversi anni fa, quando ancora stavo lavorando a Strade Nascoste – Storie di Asklivion: rileggendo Il gabbiano Jonathan Livingston di Richard Bach è risultato evidente che proponeva lo stesso messaggio del Vangelo. Il messaggio originale intendo, quello di libertà, non quello che alle volte viene piegato per favorire il tornaconto di qualcuno  (non per niente Papa Francesco si sta impegnando perché la Chiesa ritrovi questo spirito, dato che troppe volte si è allontanata da un cammino che ha proposto cose ben diverse da quelle riportate nel Vangelo). Non è stata una cosa pensata o programmata: è qualcosa che è nato sul momento. In poco tempo è stato facile associare i brani di Il gabbiano Jonathan Livingston a quelli equivalenti del Vangelo e sviluppare un breve commento che mostrasse il significato insiti in quei pezzi. La stesura della struttura di come si presenta ora Jonathan Livingston e il Vangelo è stata realizzata in pochi giorni: si trattava di una bozza per sapere in che direzione far andare il progetto. Il progetto però non è stato sviluppato subito.
Perché?
Quello che si ha ora davanti non era stato pensato per essere un libro: doveva servire come spunti di riflessione. Inoltre, nel periodo in cui ho realizzato la bozza, come già scritto, stavo portando avanti altri lavori e quindi tempo ed energie erano impiegate altrove. La verità però è anche un’altra: i tempi non erano maturi per sviluppare approfonditamente Jonathan Livingston e il Vangelo. O forse è più appropriato dire che io non ero maturo a sufficienza per un’opera del genere. Nonostante ci fossero già delle basi, avvertivo che mancava ancora qualcosa per poter realizzare un lavoro soddisfacente e quel qualcosa era esperienza di vita, che avrebbe portato a far sviluppare la consapevolezza necessaria per scrivere un simile libro. Così, solo dopo qualche anno, quando stavo iniziando a dare il via al ciclo di I Tempi della Caduta, ho effettuato la prima stesura. Anche dopo le prime revisioni, mentre aspettavo risposte agli invii di sinossi e lettere di presentazioni, ho continuato ad approfondire e sviluppare certi argomenti trattati: le esperienze fatte, la crescita personale da esse conseguite, hanno portato ad ampliare il lavoro. In questo hanno contribuito anche le letture che ho fatto e quanto scritto sul sito che gestisco, Le Strade dei Mondi: come ho avuto modo di scrivere su Jonathan Livingston e il Vangelo, da tutto e da tutti si può imparare e si può crescere.
Anche se dal numero di pagine può non sembrare, Jonathan Livingston e il Vangelo è stato un lavoro lungo, che ha dovuto saper attendere, perché per poter giungere a compimento era necessario che i tempi arrivassero a maturazione. Tutte le cose hanno i loro tempi, bisogna solo saper aspettare, anche se nella società di oggi, sempre di corsa, che vuole tutto e subito, questo modo di fare è inconcepibile: è uno dei mali della società. Una società sempre protesa al materialismo, che non ne vuole sapere di riflessione e meditazione, di calma, vedendole come cose inutili, delle perdite di tempo. Eppure, se non ci si ferma a riflettere e non si assimilano le lezioni che la vita ha da dare, dandogli il tempo di cui si necessitano, si ripetono errori già visti.
Jonathan Livingston e il Vangelo è questo: la condivisione di riflessioni fatte sulla vita e quello a cui è correlata partendo da due opere che hanno tanto da dare perché sono libri sacri. Sì, anche Il gabbiano Jonathan Livingston può essere considerato tale, dato che un libro è sacro perché ha la capacità d’insegnare e arricchire chi legge le sue pagine, a prescindere del riconoscimento dato da un’autorità religiosa. Un insegnamento valido indipendentemente dal tempo in cui è scritto e dalla nazionalità di chi lo realizza, che permette a una persona di migliorare la propria vita.
Ma l’opera scritta non prende spunto solo da essi: per il suo sviluppo hanno dato il loro contributo altri libri, per non parlare di film, ma anche opere teatrali, canzoni e fumetti. Stephen King, Guy Gavriel Kay, George Orwell, Patrick Suskind, sono alcuni degli autori le cui opere sono servite per mostrare certi aspetti della vita. Almeno, questi sono alcuni di quelli che sono serviti a me: con tutto quello che è stato scritto nel mondo, ce ne sono tanti altri da cui prendere ispirazione e imparare. Ma non bisogna fermarsi ai libri, perché c’è sempre da apprendere, da tutto: piante, fiori, bambini, animali, fiumi, monti. Tutto può aiutare a trovare se stessi. In fondo, Jonathan Livingston e il Vangelo è stato scritto per questo. E far capire che di maestri ce ne sono tanti, a partire da se stessi e che forse è il più importante, e il più difficile, da riconoscere.

(Alla pagina download è possibile scaricare un’anteprima gratuita dell’opera.)

Battle Royale

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Battle RoyaleBattle Royale, romanzo del 1999 di Khousun Takami e tuttora sua unica opera, è stato un successo da milioni di copie vendute sia in Giappone, sia a livello internazionale; da esso sono stati tratti due film (Battle Royale e Battle Royale: Requiem) e due serie manga (Battle Royale e Battle Royale II – Blitz Royale). Da molti è stato apprezzato, ma è stato anche criticato: per la violenza delle vicende che narra, per la sua brutalità, ma anche per il giudizio che ha dato del sistema giapponese. Naturalmente questo non è piaciuto al paese natale dello scrittore, come ben si capisce dalla condanna fatta dalla Dieta Nazionale del Giappone al primo film; in molti paesi è stato censurato. Che cosa ha scatenato tanto clamore? Cosa è stato scritto per essere censurato così duramente da alcuni e osannato da altri come capolavoro?

La storia è ambientata nel 1997 nella Repubblica della Grande Asia dell’Est (una versione totalitaria del Giappone), una nazione governata da un sistema nazionalsocialista guidato da un’autorità esecutiva chiamata il Dittatore (il fascismo vittorioso, come viene definito da uno dei personaggi). Di questo sistema non si sa molto di più, alcuni lo reputano addirittura un’invenzione e che il governo sia diverso da quello mostrato; quello che non è un’invenzione è la repressione verso tutto ciò che non è approvato dal regime. Non esiste una religione di stato. I contatti con le altre nazioni sono estremamente limitati. Molti libri e molta musica (specie il rock) sono vietati: solo quanto approvato dal governo (tutto inneggiante a esso) è accettato. L’accesso alla rete internet è praticamente vietata (la rete dati presente nel paese è solo una parvenza di quella reale). Il sistema è rigido, ma lascia qualche spiraglio per dare l’illusione di libertà.
I protagonisti sono i quarantadue studenti della classe terza B della scuola media dell’istituito Shiroiwa, città di Shiroiwa, provincia di Kagawa. Mentre sono in viaggio in pullman per quella che dovrebbe essere una gita scolastica, vengono narcotizzati e prelevati da uomini in divisa da combattimento. Si risvegliano in un’aula scolastica, dove fanno conoscenza con il nuovo professore Kinpatsu Sakamochi (il loro è stato brutalmente ucciso per essersi opposto a quanto sta per essere fatto ai suoi alunni), che, sorridente, li informa che la loro classe è stata selezionata per il Programma di quell’anno. Il Programma è molto semplice: gli studenti sono costretti a combattere tra loro e a uccidersi finché non rimane un solo sopravvissuto. Se si rifiutano di combattere, vengono tutti uccisi; al loro collo è stato messo un collare che segue i loro spostamenti e che può esplodere se cercano di toglierselo, se fanno qualcosa che non va e se si trovano in zone dove non devono accedere. Se qualcuno non muore entro ventiquattro ore, tutti vengono uccisi. Per costringerli a uccidere, il “gioco” ha un limite di tempo, oltre al fatto che durante il suo svolgimento, con il passare delle ore , alcune aree diventano vietate e sostare o passare in esse fa esplodere il collare. A ognuno è dato uno zaino con una mappa, una bussola, acqua, cibo e un’arma scelta casualmente, per non fare favoritismi: si va dalle armi da fuoco a quelle bianche, a quelle totalmente inutili (come freccette e forchette).
I ragazzi, che scoprono di trovarsi su un’isola, sono catapultati in un incubo che stravolge la loro normale esistenza. Quelli che erano amici e compagni diventano nemici da cui difendersi e da uccidere. Improvvisamente si trovano coinvolti in un gioco disumano architettato da un sistema governato dalla pazzia; un Programma apparentemente senza senso, perché non si riesce a capire che giovamento possa trarre la nazione dalla morte di tanti giovani. Paura e panico s’impossessano di loro: di chi si possono fidare? Conoscono davvero chi gli è stato al fianco per diversi anni? Possono riporre in lui fiducia o verranno colpiti appena abbasseranno la guardia? Questo è il punto fondamentale del gioco, su cui tutto ruota: si cercherà di mantenere la propria umanità o si preferirà la sopravvivenza?
C’è chi cercherà di ribellarsi al sistema, provando a trovare un modo per sfuggire al Programma e salvare il numero più alto di loro; ma c’è anche chi decide di partecipare, eliminando chiunque per poter sopravvivere.
In un frangente letale e brutale, la vera personalità di ogni studente verrà a galla. C’è chi si rivelerà essere uno spietato serial killer, chi un codardo, chi cercherà di proteggere chi ama, chi rinnegherà i legami di amicizia, chi impazzirà, chi deciderà di togliersi la vita prima di conoscere l’orrore e la perdita di chi ama, chi vorrà vendetta contro il governo che ha voluto questo assurdo gioco.

Battle Royale è un romanzo crudo, che non risparmia al lettore violenza e brutalità, ma che in mezzo a tanto orrore è capace di mostrare momenti toccanti e delicati. Molto intenso e coinvolgente, non si compiace della violenza che mostra, ma la propone freddamente. Khousun Takami mostra come la spietatezza degli adulti e del sistema che hanno creato entra nel mondo degli adolescenti e li costringe a fare delle scelte che non vorrebbero prendere, a competere tra loro, a sopraffarsi l’uno con l’altro per far prevalere il migliore: con questo romanzo l’autore denuncia la logica mortalmente competitiva della società giapponese che viene inculcata nella popolazione fin dalla scuola. Battle Royale non è un capolavoro come dichiarato da alcuni e questo non certo per il messaggio che lancia, ma per certe azioni dei protagonisti e per come sono realizzati i personaggi, che possono apparire stereotipati: l’otaku, il personaggio viziato e sprezzante perché di famiglia ricca, il ribelle, il sognatore, l’introverso, l’anima gentile, l’opportunista, l’omosessuale, il playboy, il genio. Lascia un po’ perplessi il fatto che i ragazzi imparino a sparare con le armi da fuoco così velocemente senza averle mai usate prima (è vero che nello zaino ci sono anche le istruzioni su come utilizzarle, però alcune perplessità rimangono). Anche il giocare sui luoghi comuni può far pensare il lettore più navigato: il personaggio ribelle, bello, atletico e sportivo, che suona con la chitarra, di cui un po’ tutte le ragazze sono innamorate; l’antagonista genio, esperto nel combattimento, nelle armi, capace di riuscire benissimo in tutto, ma che è completamente privo di sentimenti; il professore psicopatico che ride anche nelle situazioni più crude, che passa dalla calma all’esplosione di rabbia e violenza in un amen, rimanendo tranquillo anche quando uccide due ragazzi per dare dimostrazione che non si tratta di uno scherzo. Nonostante quelle che per alcuni possono essere delle pecche, l’opera di Takami è qualcosa di notevole, capace di colpire davvero con forza per la denuncia che fa e nel far sentire vicini i personaggi.
Quindi Battle Royale è una storia estrema per fare scalpore e attirare l’attenzione su un sistema che si vuole criticare? Non solo: lancia un messaggio sulla fiducia, dando una logica a un gioco brutale che in apparenza non ha un senso; tutto allora appare sotto una nuova luce, facendo capire lo spietato ragionamento che si nasconde dietro le scelte di un regime e come possa continuare a funzionare senza che nessuno si ribelli a esso. Perché senza la fiducia nei propri simili non ci si può unire e creare un movimento capace di opporsi a una dittatura: se nella gente s’insinua il sospetto che non ci si può fidare di nessuno, allora si è ottenuta una vittoria schiacciante, a cui nessuno mai si opporrà. E per ottenere questo, gli individui vanno spezzati nel momento di maggior vulnerabilità, quando sono giovani, il periodo in cui si hanno maggiori speranze e ideali: se si riescono a eliminare questi elementi, non resta spazio che per rassegnazione, sfiducia, opportunismo ed egoismo. Tutte cose che non vanno a far altro che rafforzare il regime e a mantenere ferrea la presa sulle persone, che non vedono possibilità di cambiare le cose, restando ferme a subire, anche se trovano tutto ingiusto, convinte che nessuna ribellione possa andare a buon fine, che non ci possa essere nessun cambiamento.
Battle Royale è un romanzo distopico diverso da Il Signore delle Mosche (l’opera di William Golding non è qualcosa di ragionato, programmato, ma mostra il risveglio del lato più primitivo e brutale dell’uomo quando si trova a non avere regole) e 1984 (qui la tirannia è molto più sottile e psicologica, meno diretta: la gente sparisce, ma non viene stuprata o uccisa al minimo cenno di ribellione; è un lavoro più meticoloso e inconscio, dove la violenza è presente ma è più psicologica che fisica); a differenza di Hunger Games, non c’è un lieto fine: il regime non è ribaltato, continua con la sua forza, non è indebolito. E chi è sopravvissuto può al momento solo scappare, anche se promette che cercherà di vendicarsi. Come dice la frase finale del romanzo che cita la canzone Born to run di Bruce Springsteen “un giorno, non so quando, raggiungeremo quel luogo in cui davvero vogliamo andare. E cammineremo nella luce del sole, ma fino ad allora, piccola, i vagabondi come noi sono nati per correre, baby we were born to run.” (1)

 

  1. Battle Royale, Oscar Fantastica 2016, pag.613.

Sicurezza stradale o entrate di bilancio?

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telelaser, strumento usato per la sicurezza stradaleÈ sotto gli occhi di tutti che le norme del codice stradale sono diventate più rigide, come è evidente che i controlli si sono fatti più serrati: è proliferato il numero dei semafori photored, degli autovelox, sono aumentati i controlli di vigili, carabinieri e polizia con telelaser, sono aumentate le zone di traffico limitato. Non solo, in molte zone sono stati abbassati i limiti di velocità: in aree extraurbane si è passato dai 90 km/h a 70 Km/h, dai 70 km/h ai 50 km/h, mentre in certi centri abitati dai 50 km/h si è arrivati ai 30 km/h.
Tutto questo è avvenuto perché purtroppo in tanti non rispettano le norme (semafori rossi bruciati, limiti di velocità ampiamente superati), tanti circolano senza avere l’auto assicurata, credendo di poter fare tutto quello che vogliono. Purtroppo, per colpa di alcuni, poi ci rimettono tutti, al punto che viaggiare in auto può divenire causa di ansia e patemi.
Ma è davvero solo una questione di sicurezza stradale quanto sta avvenendo?
Purtroppo no.
È anche una questione di soldi e di bilanci.
È tristemente noto che non solo lo Stato, ma anche gli organi di governo periferici, specialmente i Comuni, tappino i buchi di bilancio con le multe, specie dopo i tagli fatti negli ultimi anni. Scandalosi sono stati gli episodi dei semafori photored truccati (la luce gialla troppo breve), o degli autovelox dati in gestione ai privati, diretti beneficiari di parte degli introiti. Tutto questo non sorprende, dato che siamo nell’Era dell’Economia, ma fa sorgere indignazione quando si erogano erogare multe perché si è superato di 1-2 km/h il limite di velocità (es. 51 km/h dove 50 km/h è il limite) o vedere applicare da parte degli enti un differente metro di giudizio (es. agenti comunali che fermano alcuni che parlano al cellulare mentre guidano e altri no).
Quello che dà fastidio a tanti cittadini, oltre a subire danni da questo modo di agire, è l’essere presi in giro, perché in realtà la sicurezza stradale è solo un pretesto, quello che conta è di fare il più possibile cassa.
Purtroppo si vive in un sistema che diventa sempre più invivibile per le persone e tutto ciò sta stancando e disgustando.

Tutti contro tutti

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Tutti contro tutti.
È quello che sta accadendo adesso nella nostra società.
Prendiamo a esempio l’Italia. Il governo è nel caos, i partiti di opposte fazioni si attaccano continuamente, si scagliano l’uno contro l’altro come tanti cani famelici. Ma anche all’interno dei vari partiti ci sono lotte tra le varie correnti in un continuo scambio di colpi. Inutile dirlo, tutto questo non fa per niente bene al paese, che è sempre più spaccato e va sempre più alla deriva; non bastasse questo, un simile modo di fare influenza la gente, facendole reputare che questo modo di fare sia normale e accettabile, e pertanto lo mette in pratica anche nella propria vita.
A livello mondiale è la stessa identica cosa. Trump attacca un po’ tutti e tutti attaccano poi Trump. L’Italia è contro la UE e l’UE va contro l’Italia. Non parliamo poi della Corea del Nord, della Turchia o dell’Iran. Una situazione che ricorda quello che avveniva prima dello scoppio della Prima Guerra Mondiale.
Il caos sta dilagando. Se per caso c’è qualcuno che cerca di mettere ordine e porre fine a sprechi e a sistemi che hanno perso la loro vera natura, viene attaccato senza pietà, proprio com’è successo a Papa Francesco, che sta cercando di riportare la Chiesa al vero senso evangelico, smantellando gerarchie e colpendo chi si è arricchito materialmente invece di aiutare a evolvere spiritualmente.
battle royal, un incontro di wrestling: ottimo esempio di tutti contro tuttiQuesto tutti contro tutti, ricorda tanto un tipo d’incontro del wrestling professionistico, la Battle Royal (Koushun Takami ha usato un termine molto simile, Battle Royale, per titolo del suo unico e famoso romanzo, di cui parlerò in un altro articolo); pochi però si stanno rendendo conto del livello di esasperazione raggiunto con questo modo di fare e di come ci si stia apprestando ormai all’esplosione. Le cause sono evidenti, ma si sono volute ignorare; non ci si lamenti dopo però di quello che accadrà o ci si domandi del perché è avvenuto.

Recensione L'Ultimo Potere e L'Ultimo Demone

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L'Ultimo DemoneSul blog Sole e Luna c’è la recensione a L’Ultimo Potere e L’Ultimo Demone. Sì, in un unico articolo si parla dei due libri ed è anche giusto che sia così, dato che le due opere sono strettamente legate tra loro (come già scritto in un altro pezzo, in origine dovevano essere un volume unico, ma per sviluppare meglio le vicende, e far sì che i vari intrecci  non si accavallassero in maniera poco chiara, ho preferito effettuare una separazione).
Ringrazio Annalisa Sutto sia per la recensione, sia per la segnalazione dei refusi.
Mi fa piacere quando mi si segnalano cose che mi permettono di migliorare il testo; mi fa molto meno piacere invece aver commesso degli errori, ma anche da questo c’è da imparare ed è un bene (mi verrebbe da dire che è naturale imparare dagli errori, ma meglio non dare mai le cose per scontate). Accade che rileggendo spesso un proprio testo sorga una certa assuefazione a esso e per quanto attenti, qualcosa scappa: questo però non deve accadere e pertanto l’attenzione deve essere ancora maggiore. I refusi non mi piacciono quando li trovo nei libri di altri autori, figurarsi in quelli che ho realizzato io. Da questa esperienza ho imparato diverse cose: se si vuole un risultato ottimale, non si devono portare avanti due lavori allo stesso tempo (ci sono autori, es. Brandon Sanderson, che riescono a lavorare su più fronti, ma è anche vero che hanno anche un entourage numeroso che li aiuta, il che fa molto la differenza) e questa è una cosa che non ripeterò più in futuro. Inoltre, bisogna stare attenti a quello che fa Word e controllare tutto della formattazione del testo, anche quando si pensa che sia a tutto a posto; sì, perché diversi refusi trovati nel testo erano parole (o parti di parole) con una diversa grandezza di carattere. Devo ancora capire com’è successo, ma in diversi casi, Word, invece di usare grandezza di carattere 12 per il font Times New Roman, ha usato 11; una cosa che con questo programma non ci si accorge visivamente a video (sono praticamente grandi uguali), ma che ben si vede quando si fa la conversione del file rtf o doc in epub. Qualcuno potrebbe dire che sono inezie, ma non sono d’accordo, perché è fastidioso durante la lettura avere parole (o parti di parole) più piccole. Questo non mi era mai successo, ma ora so come evitarlo e far sì che non si ripeta. Una revisione approfondita di L’Ultimo Demone verrà quindi fatta di nuovo, ma intanto una veloce è già stata effettuata, eliminando i refusi già individuati e gli errori di formattazione, e negli store ora è presente una versione più corretta di quella precedente.
Ora una piccola riflessione. Fa piacere ricevere complimenti, ma se penso a quello che ho scritto, non ritengo di aver realizzato qualcosa di originale, creato dalla mia fantasia, perché esso è basato sull’osservazione della realtà che stiamo vivendo. Mi piacerebbe che quanto fatto sia frutto di fervida immaginazione, invece si tratta di riportare nelle vicende di I Tempi della Caduta quanto sta accadendo ogni giorno. Per quanto tanti inneggino all’ottimismo, al pensiero positivo, di positivo c’è ben poco: la follia sta sempre più prendendo piede nelle persone, ci sono casi sempre più eclatanti di violenze gratuite, omicidi mossi da motivi futili. La dignità umana perde sempre più valore, viene sempre più calpestata in nome del profitto e del denaro. Gli estremismi crescono, idem l’arroganza e la prevaricazione, sta diventando tutto un tutti contro tutti; il caos sta prendendo piede, anzi sta dilagando. Le istituzioni se ne fregano delle persone non tutelandole, lasciando che le cose degenerino. Le persone sono sempre più senza controllo.
Vorrei tanto aver inventato le cose; invece ho raccontato la realtà, solo cambiandole l’abito.

Passando a un argomento più leggero per ridere un po’ (perché non ci si può sempre deprimere con una realtà sempre più preoccupante), nella recensione si parlava di trovare magari nuova vita per le opere scritte in una trasposizione cinematografica. E visto che sognare e fantasticare non costa nulla (almeno per il momento 😀 ), sarebbe tanta roba se i film su L’Ultimo Potere e L’Ultimo Demone avessero come regista George Miller: sarebbe la persona per me appropriata, dato che proprio i suoi primi tre film su Mad Max hanno contribuito a ispirare i lavori che ho realizzato. Miller saprebbe dargli un’impronta adrenalinica che renderebbe molto bene le vicende narrate (vedere Mad Max: Fury Road); questo limiterebbe la parte più introspettiva, ma si sa che se ben fatte le immagini possono rendere ugualmente bene la parte cartacea (e qui mi viene in mente 5 cm per second, che non c’entra niente con tutto questo, ma è perfetto per far cogliere allo spettatore i sentimenti dei protagonisti con poche immagini). In uno scambio di mail, Annalisa invece vedeva meglio Guillermo del Toro o Shyamalan. Di del Toro ho visto (alla regia) La spina del Diavolo, Pacific Rim, i due su Hellboy,  Blade II, il bellissimo Il labirinto del fauno; sempre di del Toro, ma qui è solo co-sceneggiatore, ho visto la trilogia su Lo Hobbit. Di Shyamalan (sempre alla regia) ho visto il bellissimo Il sesto senso, Unbreakable-Il predestinato, The Village, E venne il giorno (un consiglio: se siete depressi, vedete quest’ultimo in un altro momento) (voce fuori campo: consiglia quello che ha parlato di un mondo dove tutto è rosa e fiori) ( 😀 ).
Tra questi tre la scelta non sarebbe facile (anche se alla fine rimarrebbero Miller e del Toro) ma di sicuro ci sarebbe un regista su cui sarebbe preferibile non puntare, trovandomi d’accordo con una battuta che ho sentito, mi sembra di Guillermo del Toro, ma non sono del tutto sicuro (mi si corregga se sbaglio): “Non chiedete a Peter Jackson di fare la trasposizione cinematografica di un libro: ne farà una trilogia.” Nel mio caso sarebbero sei film, meglio sarebbe allora fare una serie tv (ma da non fare sceneggiare a George Martin, che non prenda idee per andare avanti con Le cronache del ghiaccio e del fuoco 😀 ).

 

L'ultimo lupo

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L'ultimo lupoL’ultimo lupo è un film del 2015 di Jean-Jacques Annaud, basato sul romanzo Il totem del lupo di Jiang Rong. La storia è ambientata nel 1967, durante la Grande rivoluzione culturale, e vede come protagonista Chen Zhen che, assieme a un altro studente come lui, viene mandato dal governo cinese nelle zone interne della Mongolia per insegnare a una tribù nomade a leggere e a scrivere in cinese. Il giovane rimane affascinato dal saggio capo della tribù Bilig, dal modo di vivere dei suoi membri, dalla libertà dei grandi spazi aperti, ma soprattutto dai lupi, queste fiere e selvagge creature, nonché astute, dalle quali, secondo i mongoli, Gengis Khan ha imparato l’arte della guerra. La tribù vive in armonia con loro, temendoli e rispettandoli allo stesso tempo, ma presto tale equilibrio viene rotto dall’uomo civilizzato e dal suo progresso, dal desiderio incontrollato di arraffare e prendere più di quanto è necessario. Privati delle gazzelle di cui si cibano, ai lupi per sopravvivere non resta che attaccare gli allevamenti umani.
Gli uomini che dirigono la provincia non capiscono che sono stati proprio loro con la loro ingordigia, con il desiderio di arricchirsi, a causare questi attacchi, ma reputano come unici responsabili i lupi, decidendo così di sopprimere le loro cucciolate per farne diminuire il numero. Il capo tribù si oppone, perché sa che i lupi mantengono l’equilibrio, dato che senza di loro crescerebbe troppo il numero degli erbivori che andrebbero a indebolire e danneggiare la steppa, ma a nulla vale la sua protesta. La caccia è spietata, come è spietato il modo in cui i piccoli vengono uccisi: questo non fa che inasprire la rabbia dei lupi e li renderà ancora più feroci e risoluti. Dinanzi alla brutalità e all’insensibilità della gente che governa la provincia, Chen Zhen salva un cucciolo di lupo, decidendo di allevarlo in segreto. Quando verrà scoperto, la tribù nomade non la prenderà bene (il capo lo accuserà di aver reso schiavo un dio, facendogli capire come lui non ha capito nulla dell’animale e come con il suo modo di fare stia calpestando la sua dignità); incredibilmente troverà un alleato nel responsabile della produzione della provincia, che nella spiegazione del giovane (studiare il nemico se si vuole sconfiggerlo, il miglioramento della specie) vedrà le teorie che insegnava all’università e darà il suo consenso a portare avanti quello che viene considerato un esperimento.
Chen Zhen, nonostante le buone intenzioni, continua a non capire il piccolo lupo e come quello che sta facendo sia contro la sua natura, portando avanti un rapporto conflittuale, dove ben si vede la possessività dell’uomo civilizzato e il suo voler imporre il proprio modo di fare, reputandolo l’unico corretto. Lentamente però il ragazzo si accorge come il progresso, la cosiddetta civilizzazione sta distruggendo il paradiso terrestre in cui per secoli hanno vissuto i mongoli seguendo poche ma sagge regole. La caccia ai lupi prosegue spietata, fino a quando l’intero branco non viene tutto abbattuto; toccante è la scena in cui il capobranco, ultimo rimasto, dopo essere fuggito ai cacciatori, ormai in punto di morte per la stanchezza, si volta a fronteggiare per l’ultima volta gli uomini, mostrando la sua fierezza e la sua dignità mai dome.
Scosso dall’episodio, ma anche dal massacro perpetrato dagli uomini, Chen Zhen ritorna alla tribù, dove racconta al morente capo tribù che tutti i lupi sono morti; prima di spirare, il vecchio Bilig gli dice che ne rimane ancora uno, il suo. Chen Zhen sa che deve liberare il lupo, ma ancora non riesce a staccarsene perché gli manca il coraggio. Sarà la donna di cui è innamorato a farlo per lui.
È nel loro ultimo incontro che il giovane finalmente capisce quanto gli ha insegnato Bilig e soprattutto riesce a capire il lupo.
Film dalla bella fotografia, che si può dire anche di formazione, è senza dubbio di stampo ecologista, promuovendo il rispetto della natura e riscoprire un modo più sano ed equilibrato di vivere con essa. L’ultimo lupo è un film per chi è affascinato da questi stupendi e fieri animali, troppo spesso cacciati nei secoli, e troppo spesso diffamati da dicerie che di vero non hanno assolutamente nulla, ma che dimostrano solo la paura e l’ignoranza dell’uomo verso ciò che non conosce. Una paura e un’ignoranza che spesso supera la deficienza totale.

Parlando di deficienza, è di poco tempo fa il primo sì del governo italiano al Piano Lupo, un piano che prevede l’abbattimento selettivo di tali animali (al momento rinviata). Per chi non avesse seguito negli anni la questione dei lupi, questa specie è stata sull’orlo dell’estinzione nel nostro paese, rimanendone poco meno di un centinaio di esemplari. Dopo tante lotte e sforzi,  il numero dei lupi è tornato a crescere, ma non a prosperare: in tutta Italia, al momento, ce ne saranno circa 1500. Ora, perché si ritorna ad additare il lupo come sterminatore di animali d’allevamento, come distruttore dell’economia di contadini e allevatori, si vuole riprendere la caccia. Una caccia che sarà uno sterminio, perché è così che andrà, dato che in Italia le cose sfuggono di mano e si reputa di fare tutto quello che si vuole perché tanto nessuno controlla. A nessuno però è venuto in mente che a uccidere le bestie da allevamento potrebbero non essere i lupi, bensì cani inselvatichiti? Quei cani che vengono abbandonati d’estate da gente che vuole andare in ferie e che per poter sopravvivere devono risvegliare l’istinto del predatore? Il danno come è sempre è l’uomo a farlo, è lui la causa dei mali, ma a farne le spese sono altri, in questo caso i lupi. E se si vuol guardare a chi fa veramente danno, si vada a cercare un altro tipo di lupo. Tradotto: i cacciatori.
A chi prende certe decisioni, sarebbe da far vedere L’ultimo lupo e se non capisce il messaggio che ha da dare, spiegare chiaramente e brutalmente che la causa dei mali e dei danni è solo e soltanto l’uomo.

Vendetta o ricerca di giustizia?

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È di pochi giorni fa la notizia dell’uomo che ha ucciso chi aveva investito la moglie causandone la morte. Un gesto avvenuto a mesi di distanza dal tragico decesso, un atto di vendetta.
simbolo della giustiziaMa è davvero stato un atto di vendetta o si è trattato di una ricerca estrema di giustizia?
Un’azione da condannare e per la quale l’uomo andrà punito, ma di cui era consapevole, sapeva a cosa sarebbe andato incontro, infatti si è costituito immediatamente.
A questo punto è normale chiedersi perché si giunge a simili gesti. La disperazione, il dolore, la rabbia. Una rabbia che non è solo rivolta verso chi è stato causa della perdita di un caro, ma anche verso un sistema che non tutela le persone, che non fa giustizia, per la quale i colpevoli rimangono a piede libero o cavandosela con poco.
Purtroppo questo è uno dei tanti problemi dell’Italia: le persone non si sentono tutelate dalle istituzioni, anzi, spesso le istituzioni non fanno che creare problemi alle persone comuni; quando dovrebbero applicare la giustizia o lasciano correre oppure i tempi sono talmente lunghi che chi ha sbagliato gode ancora di libertà e può anche scamparla. Il brutto del nostro paese è che la legge spesso non viene applicata, i colpevoli di atti gravi in diversi casi la passano liscia, mentre chi cerca di rispettare le regole si ritrova a subire e a vedere chi dovrebbe essere in galera girare tranquillamente come se niente fosse.
L’uomo in questione è colpevole del gesto commesso, ma sono ugualmente colpevoli le istituzioni: anche loro sono la causa d’essere arrivati a questo punto.
In un sistema dove furbi, corrotti, delinquenti se la cavano con poco o niente, non deve sorprendere se c’è chi poi decide di farsi giustizia da solo, dato che chi dovrebbe applicare la giustizia non lo fa. Le persone si stanno sempre più stancando di vedere certe cose (es. imprenditori e politici che continuano a fare la vita di sempre nonostante i reati commessi) e in loro stanno montando sentimenti che prima o poi esploderanno in qualcosa di poco piacevole. I segnali ci sono, ma non si vogliono vederli.
Quando si capirà che tante cose in Italia non funzionano, che occorre un cambiamento perché così non si va per niente bene, non sarà troppo presto, anzi, forse sarà troppo tardi.

Il merlo

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