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I Talismani di Shannara

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I Talismani di Shannara di Terry BrooksI Talismani di Shannara è la degna conclusione che Terry Brooks ha dato al ciclo di quattro volumi degli Eredi di Shannara.
Tutti i compiti affidati da Allanon sono stati portati a termine.
Walker Boh, usando la Pietra Nera, ha fatto ritornare Paranor ed è diventato il primo dei nuovi Druidi, facendo entrare in sé l’esperienza lasciata da Allanon e dagli altri Druidi all’interno della fortezza: è diventato un individuo diverso da quello che viveva a Pietra del Focolare, ma è anche lo stesso, deciso a fare a modo suo e non come hanno fatto i suoi predecessori.
Par ha ritrovato la Spada di Shannara, ma ancora non sa come usarla, continuando a scappare dalle grinfie degli Ombrati e della Federazione che lo braccano senza posa nelle gallerie sotto Tyrsis.
Wren ha riportato gli elfi nelle Terre dell’Ovest grazie alla magia del Loden, sopravvissuta agli orrori di Morrowind e alla sua verità, divenendo la loro regina. Il prezzo che però ha dovuto pagare è stato altissimo: ha dovuto lasciare alle sue spalle la sua vecchia vita, ha visto la scomparsa degli ultimi familiari rimasti e soprattutto di Garth, l’amico e protettore che le era sempre rimasto al fianco.
Lo scontro finale si sta avvicinando, ma i tre non sono gli unici impegnati in questa lotta.
Ci sono Padishar Creel e i Nati Liberi decisi a contrastare in ogni modo la Federazione. C’è Morgan Leah, sopravvissuto a Eldwist e ai suoi mostri, che ha riavuto la spada di Leah di nuovo integra dopo essere stata spezzata nella lotta contro gli Ombrati durante la ricerca della Spada di Shannara (avvenuta nel primo libro), ultimo dono di Viridiana e ricordo di lei, che così sempre gli sarà al fianco. Ci sono Cogline e Bisbiglio, riemersi dalle mura di Paranor dopo essere stati salvati dalla magia che protegge le Storie dei Druidi. C’è Coll, riuscito a fuggire (o fatto fuggire) da Sentinella del Sud grazie all’oscura magia di un misterioso mantello.
Rimmer Dall però non è preoccupato di tutto ciò, sicuro della sua forza, della magia di cui dispone, convinto che i suoi piani faranno cadere gli Ohmsford e i suoi alleati. Walker è un Druido, ma ancora inesperto e perciò gli manda contro i Quattro Cavalieri dell’Apocalisse, in modo da minare la sua sicurezza e poi eliminarlo. Wren è determinata, ma ha subito troppe perdite e pertanto è vulnerabile; senza contare che i suoi elfi dovranno affrontare la temibile e smisurata armata della Federazione. Par è vicino a essere spezzato: ancora un ultimo colpo e il suo spirito sarà frantumato definitivamente e così il Primo Cercatore potrà finalmente mettere le mani su di lui e sulla sua magia.

Ricco di azione e combattimenti, I Talismani di Shannara dà compimento alla vicende che per tre libri sono ben stati portati avanti da Terry Brooks. Verità vengono finalmente svelate, missioni sono portate a termine, conflitti sono risolti. La caratterizzazione dei personaggi è ottima, anche per quelli secondari (Matty Roh compare solo in questo volume, ma subito cattura il lettore), avvincenti gli scontri tra l’esercito degli elfi e quello della Federazione, tra Walker e i Quattro Cavalieri, per non parlare di quelli che vedono in azione i Cavalieri Alati e i Roc ; tra agguati, salvataggi, sacrifici estremi, la narrazione prosegue fluida fino alla fine. L’unico appunto che può essere fatto a Brooks è la scelta di mostrare all’inizio del romanzo il punto di vista di Rimmer Dall e dei suoi piani: è vero che da tempo si sa che lui e gli Ombrati sono il nemico da sconfiggere, che farà di tutto per eliminare gli Ohmsford, ma far vedere subito i suoi piani per la parte finale della storia, toglie in parte suspense e sorpresa all’evolversi della trama, facendo già sapere cosa c’è ad attendere i protagonisti. Fosse stato immesso a metà libro, con le dovute modifiche, dato che si sarebbe trattato in questo caso di una riflessione su quanto stava avvenendo, si sarebbe ottenuto un effetto migliore.
Tolto questo, I Talismani di Shannara è un romanzo molto buono, che va degnamente a concludere un ciclo che può essere annoverato tra i migliori del genere fantasy.

Un giorno devi andare

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Un giorno devi andare, è il titolo del terzo film di Giorgio Dirittiun giorno devi andare e ben rappresenta lo spirito di questa pellicola. Una pellicola che narra della ricerca di se stessi, di ritrovare un senso nell’esistenza, di valori umani che diano una ragione di vita perché alle volte si fa l’incontro con un dolore che devasta, destabilizza, che non dà pace e allora si deve partire, verso luoghi nuovi, lontani dal conosciuto, perché è proprio nel conosciuto che si annida il dolore. Una ricerca dove nessuno può aiutare, dove la risposta può essere trovata solo da se stessi in se stessi. Ed è quello che fa Augusta, una trentenne che, dopo la perdita di un bambino e il divorzio richiesto dal marito, lascia l’Italia e va in Brasile, viaggiando sui suoi grandi fiumi e tra gli indios assieme a suor Francesca, amica della madre. Ma non è attraverso la religione, il percorso missionario, che sente di trovare la risposta: non riesce a capire come si possa aiutare gli altri facendoli battezzare, sposare, trasmettendogli credenze, valori che non appartengono alla loro cultura: è qualcosa che sente estraneo, quasi un’imposizione, qualcosa che sa di tradizione ma che in realtà non dà niente di profondo, niente che sia davvero di aiuto.
Allora decide si allontanarsi dalla missionaria e di vivere in mezzo agli indios, ricercando quel senso di comunità, di vicinanza tra gli individui che in Italia sente essere perduto. Stando a loro contatto, cercando di essere una di loro, condivide le loro esperienze, il loro lavoro, la vita quotidiana con divertimenti, feste, confidenze, pensando di aver ritrovato quel senso perduto dell’esistenza. Ma è solo una pausa momentanea e presto si deve scontrare con la dura realtà di un governo che vuole scacciare dalla propria terra gli indios, con una parte dei membri della comunità che per migliorare la propria condizione si lascia comprare (con soldi, l’avere un lavoro o anche vendendo i propri bambini), allontanandosi e abbandonando quel senso comunitario che lei era arrivata a credere di aver trovato. Tradita da persone in cui credeva, che non riescono a comprendere il suo dolore, scontrandosi di nuovo con il meccanismo brutale dei potenti che pensano di poter comprare tutto e chiunque con i soldi, Augusta riprende il proprio viaggio, delusa, amareggiata, andando a vivere da sola in mezzo alla natura, ricercando il senso di una vita che senso più non ha. Tra spiagge e foreste deserte, a contatto con pioggia, vento, mare, mentre è in attesa che accada qualcosa, la risposta inaspettatamente arriva con l’incontro di un bambino, figlio di indios che aveva aiutato, che le fa ritrovare se stessa e chetare quel tormento che tanto l’ha perseguita.
Se è vero che Augusta è la protagonista di Un giorno devi andare, è anche vero che Giorgio Diritti non si sofferma solo su di lei, ma mostra anche il dolore della madre (ha perso il marito), della nonna (consumata da una malattia), dell’amica conosciuta in Brasile (ha perso il figlio, creduto morto, ma in realtà venduto) e di come lo affrontano. Ognuna ha la sua storia, ma tutte hanno dei denominatori comuni: il dolore e la solitudine. Perché quando si affrontano certe situazioni si è sempre soli e nessuno può essere di aiuto.
Con uno stile delicato, realista e anche documentarista, Giorgio Diritti realizza un film toccante e profondo, che parla di spiritualità, di vita e della ricerca dell’uomo di valori e di un significato in una vita che spesso sembra arida e vuota, persa dietro cose effimere e superficiali. Un giorno devi andare, dice il film, ed è una cosa che prima o poi tutti devono affrontare.

Sconfitta dei lavoratori

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Il Job Acts è stato fatto passare come una manna del cielo, una rivoluzione epocale. Nel primo caso è falso, nel secondo è vero. Solo che è una rivoluzione in senso negativo, perché ha fatto perdere diritti, ma in termini di occupazione è cambiato poco o nulla. Infatti i tanto decantati numeri del governo non sono veritieri, mancano centinaia di migliaia di posti di lavoro, e i posti di lavoro nuovi non sono veri nuovi posti di lavoro, bensì contratti a tempo determinato già esistenti mutati nel nuovo contratto di lavoro a tempo indeterminato, quindi nessuna nuova assunzione. Ma c’è di peggio in tutto questo, perché tante ditte hanno fatto i furbetti, licenziando i propri dipendenti, riassumendoli poi a tempo determinato tramite società interinali, per poi assumerli a scadenza del contratto con il Job Acts, così da avere dipendenti con meno tutele, ma soprattutto usufruire degli sgravi di 8000 E a lavoratore dati dal governo (in questo modo non si guarisce l’occupazione, la si dopa e basta). Un incentivo che non aiuta a creare nuovi posti di lavoro, ma aiuta notevolmente gli imprenditori: di questo ne ha guadagnato ampiamente Marchionne, che con le nuove assunzioni a Melfi ha avuto un risparmio di svariati milioni di euro (11).
Proprio l’impianto Fiat di Melfi viene portato come esempio, modello d’industria da seguire, ma non si considera che sfrutta il bisogno di lavorare delle persone, costringendole a un lavoro estenuante, con turni continui senza stop, riducendo le pause, sempre in piedi, senza mai staccare perché non c’è neppure un secondo libero, il ciclo è sempre continuo. A Melfi, in ambito automobilistico, è dove si lavora di più, 20 turni, sette giorni su sette, un ciclo che non si ferma mai. I lavoratori sono spremuti, hanno un breve periodo di riposo dopo dieci giorni di lavoro a turni di fila; non riescono quasi più avere tempo di stare con i propri cari, spesso passando diverse ore in viaggio in aggiunta a quelle che si passano in fabbrica. Vivono per lavorare, nulla di più.
Si potrebbe fare diversamente (vedere quello che fa la Lamborghini, che ha tutto un altro approccio e non dimentica la dignità dell’individuo, sapendo che dallo stato del singolo dipendo il successo del gruppo), ma è stato fatto passare e si vuole fare passare che questo è indispensabile, che questo è un male necessario per un futuro migliore (una scusa usata nella storia infinite volte per giustificare il calpestare diritti e dignità, per avvantaggiare pochi). Presa DirettaIl mondo del lavoro è diventato una landa selvaggia, dove il Job Acts è solo una parvenza di tutele di diritti, mentre invece è un contratto dove di diritti quasi non se ne ha. Le cose non vanno meglio altrove, dove ci sono vere e proprie truffe, con le persone vengono assunte per lavorare nei call center e i porta a porta, istruiti con stage che sembrano lavaggi del cervello e mandati a vendere contratti, con modi che sono veri e propri raggiri, senza tutele, senza contratti: questo è quanto mostrato dalla puntata di Presa Diretta del 20 settembre (in questo articolo si approfondisce a quanto si è accennato).
Di fronte a questa realtà verrebbe da arrabbiarsi, da piangere, da angustiarsi, da pregare le persone di dire basta a questo sistema, di ribellarsi, di riprendere la loro dignità. Ma non servirebbe a nulla, perché la gente non vuole ascoltare, accetta e subisce passiva, perché questa è la realtà, questo è il mondo in cui vive e non si può fare nulla, si può solo accettare di subire e andare avanti alla peggio, perché non si può fare diversamente.
Una parola sorge dinanzi a tale quadro: sconfitta.
Sconfitta della dignità
Sconfitta della libertà.
Sconfitta dell’individuo.
Sconfitta. Sconfitta. Sconfitta.
Si è perso e ormai non si può più aiutare nessuno, come scrive Igor Sibaldi in Il Libro delle Epoche.
E tutto per arricchire pochi, dimenticando che quando un ricco diventa ricco le cose non vanno meglio, bensì peggiorano sempre e pure di brutto. Ma questa è la natura di un sistema che vuol far passare per eroi persone che non hanno assolutamente nulla degli eroi, ma solo una brama senza scrupoli di arricchirsi, dove ogni pretesto di guadagno è colto senza ripensamenti. Ancora una volta, la realtà supera la fantasia.

Dall’astuccio nero sotto la finestra si espandeva odore d’incenso, andando ad aleggiare in tutto l’ufficio dirigenziale. Sulla lucida superficie della spaziosa scrivania erano appoggiate cartelle colorate; il loro contenuto, prospetti, grafici e documenti di vario genere, era disposto a ventaglio davanti ai consiglieri seduti sulle poltrone di pelle.
«Quali sono le vostre conclusioni?» domandò il dirigente con l’ampia vetrata e le piante ornamentali alle spalle.
«Abbiamo esaminato i documenti un’altra volta» parlò l’uomo dalla giacca azzurro fumo che faceva a pugni con una cravatta color aragosta. «Il costo di quanto richiesto è superiore del trenta per cento rispetto ai nostri preventivi, con tempi di realizzazione che si aggirano sulle due settimane, rendendo inagibile per almeno una settimana metà dei reparti produttivi e per due giorni i server aziendali. Il fatturato avrà un calo del cinque per cento e questo soltanto perché in magazzino c’è a disposizione del materiale finito pronto per essere venduto.»
«Ancora magazzino alto» notò il dirigente. «Ordini dati che non sono stati rispettati. Sapete quanto costa tenere del materiale fermo?» Tamburellò le dita sulla scrivania. «Troppo!» Il palmo della mano si abbatté sulla superficie lucida. «Il materiale deve entrare solo quando c’è richiesta, essere lavorato all’istante e immediatamente spedito.»
«Signore, ci sono i tempi d’ordinazione e consegna: i fornitori cui ci rivolgiamo non lavorano solo per noi e tutti ormai, visto il periodo di crisi, fanno richiesta all’ultimo minuto, quando hanno ordini in vista» fece notare l’uomo calvo dal vestito cinerino. «Se il materiale non è presente al momento della richiesta e i tempi d’attesa per il ricevimento della merce si allungano troppo, ritardando la realizzazione del prodotto, il cliente può annullare l’ordine, con conseguente perdita di guadagno e immagine. Inoltre…»
«Tutte scuse» tagliò corto il dirigente. «Il guadagno si fa abbattendo i costi e tagliando le spese. A cosa servono i vostri master universitari, se non riuscite a eliminare gli sprechi? In questo modo non si fa economia, la si rovina solamente. Ma ora torniamo al nocciolo di questa riunione.»
«È un intervento ingente.» Prese parola l’uomo brizzolato in abito e cravatta neri. «Tuttavia necessario. La messa a norma degli impianti non può più essere rimandata, sia per il rispetto delle normative in vigore, sia per la sicurezza dei lavoratori: negli ultimi tre mesi la linea elettrica è già incorsa in due corti circuiti; fortunatamente non ci sono stati danni a cose o persone.»
«Per vent’anni gli impianti hanno svolto il loro compito egregiamente: non vedo per quale motivo occorra fare un intervento costoso che non porterà nessuna miglioria in fatto di produttività. Non c’è nulla che suggerisca che le cose, andate bene finora, debbano cambiare.» Il dirigente fissò uno a uno i consiglieri.
«Potrebbe non andare sempre così bene» ipotizzò a disagio l’uomo dalla cravatta color aragosta. «Qualcuno dei lavoratori potrebbe farsi male e allora ci sarebbero problemi con i sindacati, oltre a un ritorno d’immagine non certo positivo.»
«Tutti i giorni si sente parlare d’incidenti: ormai nessuno ci fa più caso» tagliò corto il dirigente.
L’uomo dal vestito cinerino si schiarì la voce. «Stiamo parlando di persone, non di merci» fece notare non riuscendo a nascondere una certa apprensione.
«Siamo una ditta, non dei buoni samaritani: che i lavoratori imparino a essere più attenti, se vogliono mantenere la salute. Il nostro scopo è il profitto, quello per cui lavoriamo e viviamo, quello che ci rende ciò che siamo. Piace anche a te avere uno yatch e spassartela con la tua famiglia nei mari caldi, vero?» lo provocò il dirigente. «Allora non perderti dietro simili discorsi. Investire in questo intervento significa meno soldi per noi e tutto solo per mantenere una buona impressione sull’opinione pubblica. I lavoratori non corrono alcun pericolo reale, quindi la richiesta sarà respinta e non si dovrà interrompere la produzione.»
«Sei sicuro di questa decisione papà?» fece notare il figlio seduto alla sua destra.
«Impara questa lezione: non ti piegare alle loro richieste, fallo solo quando è inevitabile e anche allora dai il meno possibile, o un giorno li ritroverai dietro la scrivania al tuo posto» lo ammonì padre.
«Al sindacato la cosa non piacerà» asserì l’uomo dalla giacca azzurra.
«Il sindacato non è un problema: ho raggiunto un accordo sul fatto che in questo tempo di crisi l’applicazione delle leggi sulla sicurezza non è di vitale importanza, a differenza di far lavorare le persone. Fintanto che sarà assicurato il posto lavorativo, il sindacato non muoverà lamentele.»
«C’è però sempre la questione di quei posti» notò l’uomo dal vestito cinerino, ricordando la prospettiva di aprire una procedura di mobilità.
«Seppur a malincuore, il sindacato appoggia la linea che abbiamo deciso di seguire: ha compreso che è meglio sacrificare qualche dipendente piuttosto che tutti perdano il posto.»
«Ai lavoratori non piacerà questa notizia» disse l’uomo in abito e cravatta neri.
«Naturalmente, ma noi dobbiamo pensare alle nostre priorità. Anche se può sembrare arrogante, va ricordato che siamo noi a far andare avanti la macchina dell’economia e da noi dipende tutta la società in cui viviamo. Siamo i protagonisti senza i quali l’opera non può essere messa in scena: tutti gli altri sono semplici comparse che possono essere tolte o sostituite in qualsiasi momento.»
I consiglieri si guardarono l’un l’altro, non del tutto convinti della linea d’azione intrapresa.
«Qual è il settore dove fare i tagli?» s’informò il figlio.
«Fosse per me, tutti: abbiamo esuberi in ogni reparto. Basterebbe meno personale, ma più efficiente e meglio utilizzato, per avere il rendimento che abbiamo adesso.» Il dirigente serrò pensieroso le labbra. «Dato però che una linea del genere non verrebbe accettata senza avere grane, l’intervento avverrà nel settore con il numero di dipendenti più elevato.»
«È proprio necessario?» interloquì l’uomo dal completo antracite, l’unico che fino a quel momento era rimasto in silenzio.
«No, non lo è» ammise il dirigente. «Ma effettuando dei tagli mostreremo che la ditta sta passando un periodo difficile e così otterremo delle sovvenzioni dallo stato. In questo modo avremo un’ulteriore entrata e le spese diminuiranno a seguito dell’eliminazione di una parte degli stipendi: la ditta andrà avanti benissimo senza qualche operaio senza problemi, ma avrà ottenuto un guadagnato. Questo, è fare affari» sentenziò. «Se non avete nulla da aggiungere, la riunione è terminata.»
«Questa scelta avrà ripercussioni: sarebbe meglio cercare un’altra via» continuò l’uomo dal completo antracite.
«Andremo avanti con questa politica» tagliò corto il dirigente. «La ditta è andata sempre bene grazie alle scelte fatte, anche se impopolari. E così continuerà a operare.»

Una riflessione da L'inizio della Caduta: Delirio d'onnipotenza

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Era il 2008 quando realizzai la prima stesura di Non Siete Intoccabili, scritta subito dopo Strade Nascoste. L’intenzione allora era di proseguire con la narrazione delle Storie di Asklivion; dieci capitoli erano stati scritti quando sorse l’idea per una storia staccata da quel mondo, ambientata nel nostro che parlasse del mondo del lavoro, delle sue ingiustizie, del mobbing, delle morti bianche. Un’idea che premeva con forza per prendere vita e che non mi permetteva di continuare con le vicende di Asklivion e dei suoi personaggi: così è nato Non Siete Intoccabili.
In quest’opera ho voluto sperimentare, cambiare stile e approccio, cercando di realizzare qualcosa che estremizzava i comportamenti, i dialoghi, rendendolo eccessivo, sopra le righe, alle volte grottesco. Non rinnego quanto ho fatto perché mi è servito a capire qual è la strada che è più adatta a quanto voglio narrare, a come voglio porre storia e personaggi, a quali sono gli errori da evitare. Non Siete Intoccabili ha delle idee e degli spunti validi e sono state mantenute, ma sviluppate diversamente: per questo delle parti sono state tenute e usate per realizzare una storia che partendo da esso è stata modificata per andare a completare il quadro che è andato formandosi con la realizzazione di L’Ultimo Potere e L’Ultimo Demone. Si tratta di una narrazione con forti elementi fantastici e paranormali, ma che è fortemente ancorata nella realtà. Anche se in Italia il fantastico è sottovalutato, esso è un forte mezzo, pregno di simbolismo, per affrontare la realtà e soprattutto i suoi lati oscuri: in questo Stephen King è un maestro, con le sue opere fantastiche che mostrano spicchi densi di realtà e dei suoi problemi, della sua follia.
Era il 2008, ma sembra di narrare i fatti di cronaca odierna. Non si tratta di essere stato profetico, ma se si osserva la realtà, il contesto storico, e soprattutto avendo studiato un poco la storia, si può vedere dove si vuole andare a parare. Quindi non sorprendono certe affermazioni fatte da Renzi contro i sindacati (Non lasceremo la cultura ostaggio di questi sindacalisti contro l’Italia) e da Squinzi (che vuole il dimezzamento degli stipendi dei lavoratori), dato che sono anni che governi e imprenditori cercano di togliere diritti ai lavoratori, rendere le loro condizioni peggiori e sfruttarli il più possibile. Più spesso di quanto si creda, realtà e fantastico non sono poi tanto lontani tra loro.

L'ottimismo

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Tonino Guerra, famoso per il suo "l'ottimismo è il profumo della vita"L’ottimismo è il profumo della vita, diceva Tonino Guerra in un famoso spot pubblicitario qualche anno fa.
C’è una parte di realtà in queste parole, perché l’ottimismo può aiutare ad andare avanti, può essere quel guizzo in più che permette di affrontare le difficoltà e gli ostacoli, perché se in un’iniziativa si parte con una visione di sconfitta, questa non è destinata a finire bene se si continua con uno spirito negativo volto al fallimento.
Ma l’ottimismo non deve essere traviato, non deve diventare un modo per non vedere la realtà, per stravolgerla, come purtroppo invece nel nostro paese si fa. Berlusconi e Renzi (uno è la copia dell’altro) ne hanno fatto il loro grido di battaglia, facendo credere cose non vere, mascherando la realtà, cercando di far vedere quello che non è. I risultati di questo falso e travisante ottimismo si sono visti, con una situazione che è andata peggiorando, anche se si è voluto far credere diversamente (vedere i dati non veritieri sull’occupazione) per tirare acqua al proprio mulino, per far vedere che si sta facendo un buon lavoro. Tanto ottimismo, ma il mondo del lavoro (solo per citarne uno) non è migliorato, tutt’altro: sono state fatte regole sempre più dalla parte degli imprenditori, i lavoratori hanno meno diritti, sempre meno tutelati e sempre più sfruttati dal sistema che vuole guadagnare e accumulare in modo crescente. L’uomo non è più individuo ma oggetto, usato finché è utile e poi gettato via come spazzatura. Proprio questa voluta mancanza di attenzione verso il lavoratore ha fatto peggiorare la sua condizione e, alla faccia di tanto decantato ottimismo, si continua a morire per colpa del lavoro. Con il lavoro si crea ricchezza, ma, nello stesso tempo, uno rischia di morire a causa di esso. E chi muore è sempre il lavoratore che mette a repentaglio la sua vita per sopravvivere. I diritti conquistati sono stati perduti e calpestati. E le morti bianche continuano a essere una costante che cresce: ogni giorno si sentono notizie di persone che perdono la vita lavorando.
Di chi è la colpa di tutto ciò? Del mercato privo di soggettività e del guadagno esasperato che non guarda la condizione dei lavoratori in fabbrica: manutenzione e sicurezza costano, facendo abbassare i profitti, motivo per cui è meglio lasciarli perdere. Una buona percentuale dei lavoratori la mattina si alza e va a rischiare la propria vita, spesso per salari bassissimi, o lavorando “in nero”, dove mancano le condizioni di sicurezza; lavorano e muoiono per uno stipendio che non fa arrivare alla fine del mese.
Ma la colpa è anche delle persone che permettono che questo sistema vada avanti, che si adeguano a esso, che non fanno nulla per ribellarsi e contrastarlo, che se ne fregano di quanto accade, continuando ad andare avanti per inerzia, servili, senza diventare consapevoli che sono padroni del proprio destino. Verso questa realtà non c’è solo il disinteresse delle istituzioni, ma i lavoratori stessi se ne disinteressano, come se vivere male o morire non faccia alcuna differenza.
Ecco a cosa ha portato il tanto strombazzato ottimismo.
Quello del lavoro è uno dei tanti casi di come l’ottimismo ha portato negatività, ma ce ne sono altri, per esempio quello che riguarda il fantasy.
Quando c’è stato il suo boom qualche anno fa e si pubblicava di tutto senza avere conoscenza, preparazione, organizzazione (e se si era oggettivi si vedeva la mediocrità in atto), tanti proclamavano l’inizio di una nuova era per il fantasy, che ci sarebbe stato il riscatto di un genere sottovalutato e disprezzato, che sarebbe stato l’inizio di qualcosa di grande. Non ci si preoccupava che ai giovani lettori venisse propinata roba di scarsa o inesistente qualità, che avessero un esempio del fantasy negativo, asserendo che purché lo leggessero era tutto ok, che andava bene perché poi crescendo avrebbero letto i libri del genere che erano davvero validi, che era il trampolino di lancio per la sua diffusione. Ciechi guide di ciechi, che non hanno capito, che non hanno voluto vedere il madornale errore che si stava commettendo: si è dimostrata la fine del genere, almeno in Italia. Il mercato è stato bruciato, la fiducia dei lettori è stata persa, gli editori ora vedono il fantasy come la peste, un qualcosa su cui più non puntare.
C’era tanto ottimismo, ma questo ha permesso solo di non vedere (o non voler vedere) la realtà: chi ha cercato di farla vedere, di mostrare le cose che non andavano non è stato preso in considerazione o è stato criticato, tacciato di voler dare addosso all’editoria che stava ottenendo un buon risultato, dando lustro al fantasy (invece gli gettava solo fango addosso). Incapacità di vedere, disonestà, essere di parte con interessi da difendere, ignoranza, ma anche mancanza di oggettività, presenzialismo, protagonismo, hanno portato alla situazione che ora ben si conosce. Il tanto decantato ottimismo, che sarebbe meglio chiamare con il suo vero nome, illusione, è servito solo a far danno.
E continua a farlo.

Nuvole di un pomeriggio d'estate

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Nuvole di un pomeriggio d'estate

It

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It, romanzo scritto da Stephen kingIt è uno dei romanzi più famosi di Stephen King e anche uno dei migliori che lo scrittore ha realizzato.
La storia inizia nel 1957 nella piccola cittadina americana di Derry con una barchetta di carta, un tombino, un clown e un bambino ucciso brutalmente. Una morte violenta, ma che non è certo l’unica che deturba la quiete della comunità, come alcuni hanno modo di accorgersi. E quelli che si accorgono di quanto sta accadendo non sono altro che ragazzi poco più che bambini, un gruppo che si fa chiamare i Perdenti e che si ritrova unito in una lotta contro qualcosa di più grande di loro, un male che periodicamente si risveglia per nutrirsi e quando lo fa, fa dilagare la follia e la violenza di cui è portare. Ben Hanscom, Eddie Kaspbrak, Bill Denbrough, Richie Tozier, Stan Uris, Beverly Marsh, e Mike Hanlon sono gli unici a opporsi a It, l’essere spietato che, come scoprono, imperversa sulla Terra da tanto tempo con la sua presenza aliena. La cosa non va bene al mostro, che prende a perseguitare i membri del gruppo assumendo la forma delle loro paure più profonde, ma questo non basta a fermarli: scendono nelle fogne dove ha il suo rifugio e lo affrontano, sconfiggendolo ma non uccidendolo. I ragazzi temono che ritornerà e allora fanno un giuramento di affrontarlo nuovamente.
Passano 27 anni. Tutti hanno lasciato Derry e hanno avuto successo; tutti tranne Mike, che è rimasto nella cittadina ed è l’unico che non ha dimenticato il mostro e il passato: lui è la memoria del gruppo ed è quello che li ricerca per farli tornare e affrontare It, dopo che il mostro li ha messi fuori combattimento facendoli allontanare da Derry, e non più ostacolarlo, proprio con il successo delle loro vite. Uno di loro non reggerà a questo ritorno, ma gli altri andranno avanti nella lotta, perché sanno che non avranno un’altra possibilità per fermarlo.

Considerato il capolavoro di King, It viene ritenuto un romanzo horror, e lo è, ma è anche molto di più: è lo specchio della quotidianità, dove il vero orrore è nella realtà, nella società, in chi è vicino. It è il mostro che spaventa, uccide, (geniale dargli la forma di clown, perfetta incarnazione della follia e di ciò che in realtà si cela dietro la maschera), che si adatta a chi ha davanti prendendo le sembianze delle sue paure più profonde; ma la paura, quella vera, quella reale, è quella che si cela nei lati oscuri dell’uomo, che può emergere in qualsiasi momento, senza preavviso. Quella paura che blocca, che limita, che si aggrappa addosso e non lascia andare, che crea ossessioni, dipendenze, rapporti che sono dipendenze.
King, in questo romanzo corale, che vede la crescita di una generazione, mostra le paure dapprima di quando si è bambini, il non capire le cose, l’incomprensione con i genitori, l’essere schiacciati dalle loro attenzioni o tenuti a distanza per via dell’incomunicabilità che spesso c’è tra adulti e bambini, poi quelle da adulti con scelte sbagliate, fallimenti, tradimenti, sensi di colpa.
Ma c’è dell’altro: c’è quel qualcosa di speciale che si crea in un gruppo quando si è bambini, quella specie di magia, atmosfera particolare che è unica e che purtroppo con il crescere e diventare adulti si perde; è forse questo il tema più importante, e che King riesce così bene a mostrare, del romanzo: la perdita che avviene crescendo, quel qualcosa di unico che anche se non si vuole si lascia indietro. E’ forse questa la cosa che più spaventa e fa male, quella che crea il maggior rimpianto: It allora diventa un romanzo toccante e commovente, di grande potenza e strazio, perché fa davvero male guardarsi alle spalle e vedere cosa si è lasciato e perso e che mai più potrà tornare ed essere incontrato. Anche se nella parte conclusiva It lascia perplessi per lo scontro risolutivo (per lo più per il modo in cui avviene), questo non riesce a togliere la sensazione dolce e amara della perdita e del ricordo, perché altro tema fondamentale del romanzo di King è la memoria, quella memoria cui tanto spesso non viene data la giusta importanza e che la sua dimenticanza tanto male e dolore può far sorgere. Magnifico ed emblematico è il paragrafo che chiude il libro:

Si sveglia da questo sogno incapace di ricordare esattamente che cosa fosse, a parte la nitida sensazione di essersi visto di nuovo bambino. Accarezza la schiena liscia di sua moglie che dorme il suo sonno tiepido e sogna i suoi sogni; pensa che è bello essere bambini, ma è anche bello essere adulti ed essere capaci di riflettere sul mistero dell’infanzia… sulle sue credenze e i suoi desideri. Un giorno ne scriverò, pensa, ma sa che è un proposito della prim’ora, un postumo di sogno. Ma è bello crederlo per un po’ nel silenzio pulito del mattino, pensare che l’infanzia ha i propri dolci segreti e conferma la mortalità e che la mortalità definisce coraggio e amore. Pensare che chi ha guardato in avanti deve anche guardare indietro e che ciascuna vita crea la propria imitazione dell’immortalità: una ruota.
O almeno così medita talvolta Bill Denbrough svegliandosi il mattino di buon’ora dopo aver sognato, quando quasi ricorda la sua infanzia e gli amici con cui l’ha vissuta.

Piccola curiosità. Anche se si tratta di un dettaglio (viene citata la Tartaruga), anche questo libro è legato in un qualche modo alla serie della Torre Nera.

La Regina degli Elfi di Shannara

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La Regina degli Elfi di Shannara, terzo capitolo del ciclo degli Eredi di Terry Brooks,La Regina degli Elfi di Shannara, terzo capitolo del ciclo degli Eredi di Terry Brooks, vede come protagonista Wren e la ricerca degli elfi affidatagli da Allanon, spariti dalle Quattro Terre da un centinaio di anni per sfuggire alla persecuzione della Federazione e all’accusa di essere la causa del male che ha cominciato a dilagare. Avvisata dalla veggente Occhio di Serpe trovata a Grimpen Ward, Wren si reca con l’amico e mentore Garth, il Rover che l’ha addestrata fin dall’età di cinque anni dopo aver vissuto per qualche tempo a Valle d’Ombra con gli Ohmsford, alle grotte dei Rocchi, sulla costa dello Spartiacque Azzurro, e accende un fuoco per tre giorni e tre notti, per far giungere chi potrà aiutarli nella ricerca. Ma prima che l’aiuto ricercato arrivi, i due sono attaccati da un Ombrato: un combattimento che sembra segnato, se non che Wren scopre che i tre sassi dipinti che porta con sé dall’infanzia sono le famose Pietre Magiche dei suoi antenati e con la magia appena riscoperta elimina l’aggressore.
Al termine dei tre giorni, fa la sua comparsa Tiger Ty, un elfo celeste, in groppa al suo Roc, un volatile gigantesco, e lì scoprono che gli elfi terrestri (come Tiger Ty li chiama) sono andati su Morrowind, un’isola al largo della costa, ma di essi però non si sa più nulla da anni dopo l’avvento dei mostri, scomparsi o semplicemente rinchiusisi all’interno della loro Città. Accompagnati dall’elfo celeste, che li lascia sulla spiaggia dell’isola, Wren e Garth si ritrovano immersi in un mondo da incubo, completamente stravolto dal paradiso terrestre che un tempo era. Paludi e giungle soffocanti, deserti arroventati, montagne difficili da scalare, per non parlare dei mostri che li abitano e che sono sempre in caccia. Raggiungere la città sembra un’impresa impossibile, se non fosse per l’incontro con Stresa, un Gatto Screziato, una creatura capace di parlare creata dalla magia degli elfi: salvatolo dalla trappola del Wisteron, uno dei mostri più pericolosi di Morrowind, la bestia li aiuta a raggiungere la città degli elfi, a patto che lo portino con loro di ritorno nelle Quattro Terre.
Entrati in Arborlon, molte scoperte attendono Wren: su se stessa, sulla magia, sull’origine del male che ha distrutto l’isola e fatto nascere i Demoni (che non sono quelli imprigionati nel Divieto dall’Eterea; la sua vita ne viene completamente cambiata e stravolta, facendola venire a patti con verità spiacevoli e realtà nascoste. Senza contare il viaggio di ritorno, che è un vero e proprio viaggio all’inferno.

Oltre alla trama principale, come negli altri romanzi incentrati prevalentemente a un protagonista (Par per Gli Eredi di Shannara, Walker Boh per Il Druido di Shannara), anche in La regina degli Elfi di Shannara ci sono piccole parti dedicate ad altri personaggi: si vedranno le vicende di Coll, Par e soprattutto Walker Boh, che, dopo il ritrovamento della Pietra Nera, andrà incontro al destino che lo attende nella spettrale (intesa in senso letterale) Paranor.
La Regina degli Elfi di Shannara è forse il libro migliore del ciclo degli Eredi (anche se tutti sono molto belli): avvincente, ricco di colpi di scena, ma soprattutto rivelatore di quelle verità finora rimaste segrete e accennate nei due libri precedenti. Scoperte sconvolgenti in una storia densa, fatta di avventura, atti eroici, disperazione, perdita e tradimenti: Brooks riesce ad amalgamare fantasy e horror in un ottimo binomio, immettendo nella sua opera di narrativa un messaggio che fa riflettere e denuncia la sperimentazione incontrollata, priva di morale ed etica: è vero che qui si tratta di sperimenti fatti con la magia, dove con essa si creano nuove creature unendo razze diverse e ci si spinge anche a voler creare qualcosa di nuovo, di superiore a quanto già esistente, ma il concetto è chiaro. Leggendo certe pagine di La Regina degli Elfi di Shannara viene subito in mente la critica contro certe sperimentazioni genetiche, dove scienziati senza scrupoli ed etica, per scoprire cose nuove, si spingono oltre i limiti, dando vita a cose poco piacevoli. Il progresso è utile ed è una gran cosa, ma occorre essere consapevoli di certe azioni e delle conseguenze che da esse possono nascere, dei danni che si possono causare agli esseri viventi, alla natura, al mondo intero; una ricerca di conoscenza e di maggior potere che spesso diventa follia e si sa che la follia non porta mai nulla di buono: la storia umana è costellata di esempi su questa realtà (gli orrori degli esperimenti “medici” fatti dai nazisti, quelli dei primi trapianti di organi, quelli nucleari).
Se a tutto questo si aggiunge che La Regina degli Elfi di Shannara presenta forse il miglior protagonista dell’intero ciclo (Wren coinvolge il lettore con la sua determinazione e il suo senso di giustizia, oltre a una gran umanità), che al suo fianco ci sono personaggi che rimangono impressi nella mente e nel cuore del lettore (gli animali Stresa e Fauno, la veggente Eowen e la regina Ellenroh, Garth, protettore di Wren, e poi Aurin Striate detto il Gufo, Triss, capitano della Guardia Nazionale degli Elfi, Tiger Ty con il suo Roc), immersi in uno scenario che ben trasmette la sensazione di pericolo, morte e orrore, non si può non constatare che si è di fronte a una storia davvero ben congeniata.

Una nota sull’edizione italiana in possesso, quella del 1992 di Arnoldo Mondadori Editore, con traduzione di Savino D’amico (ogni volume ha avuto un traduttore differente). A parte un numero di refusi maggiore dei romanzi precedenti (parole attaccate tra loro), errori di traduzione (Stresa, sdraiato nell’imbracatura del Roc, non può certo cavalcare), ci si domanda, da quanto letto, se all’interno della casa editrice ci sia stata comunicazione tra i vari addetti ai lavori o se invece si è lasciato andare qualcuno per i fatti propri senza che ci fosse supervisione, dato che in La Regina degli Elfi di Shannara nomi che erano stati tradotti nei volumi precedenti (lo Spettro del Lago, la veggente Occhio di Serpe, Sentinella del Sud) sono stati lasciati in lingua originale, rischiando così di causare confusione in chi legge e magari non ha gran dimestichezza con la lingua inglese. Quando s’intraprende un progetto, occorre una certa coerenza: o tutti i nomi vengono tradotti o devono essere lasciati in lingua originale, non si può cambiare di volta in volta secondo l’estro del traduttore. Purtroppo questa è una cosa che in Italia si è vista diverse volte (restando in tema di autore e casa editrice, è accaduto lo stesso anche con il ciclo di Landover).

Fumetti ed iniziative da edicola

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Il mondo dei fumetti è vasto: da quelli dei supereroi americani della Marvel e della DC ai manga, da Topolino e Paperino a quelli francesi e italiani come quelli di Bonelli. Dylan Dog, Mafalda, Dago, Flash Gordon, Braccio di Ferro, Snoopy, Pogo, Lupo Alberto, Conan, Il Corvo, Watchmen, V per Vendetta, Berserk, Devilman, Slam Dunk solo per citare alcuni che ho letto.
I fumetti, come tutto ciò che si può leggere ed è valido (dal fantasy alla storia, dalla narrativa alla psicologia), mi piacciono, anche se non mi definisco un esperto perché c’è tanto ancora di cui si può leggere. Ma il tempo e lo spazio dove tenere i volumi sono però limitati, senza contare un altro fattore: il prezzo dei volumi. Sì, perché va tenuto conto che i fumetti non costano poco e chi segue regolarmente una collana ha un certo esborso, che non è irrilevante. Un esempio: chi segue una testata Marvel regolare ha un esborso medio mensile sui 3.50 E a volume, volume che è di qualche decina di pagine (di solito intorno alle 80). Se si aggiunge che magari se ne segue più di una, si capisce che si fa in fretta a raggiungere e superare la decina di euro. Chi segue i manga può spendere un po’ di più o un po’ di meno, a seconda che segua una testata regolare o prenda le ristampe; per esempio i volumi della serie regolare di Berserk costano 2.40 E, quelli del Collection 4.80 E. I volumi hanno una paginazione superiore, ma il formato è più piccolo rispetto a quelli americani, senza contare che sono in bianco e nero, al contrario degli altri che sono a colori.
I fumetti (serie regolari) si possono trovare in edicola (a seconda della fornitura che essa ha), ma se si vuole davvero avere una scelta, occorre recarsi in una fumetteria, specie se si vogliono trovare vecchi numeri o edizioni limitate. Può succedere però che, per esempio, grazie al successo di film dedicati ai fumetti vengano fatte delle iniziative per le edicole e i lettori possono avere la possibilità di leggere storie del passato o conoscere fumetti di cui non si sapeva nulla.
Di queste iniziative ce ne sono state tante: da quelle di Topolino a quelle di Dylan Dog, da Naruto a Diabolik, per non parlare dei fumetti dedicati a Batman, Avengers, Uomo ragno. Iniziative che sono state vantaggiose, per lo più, perché permettevano di avere volumi di diverse centinaia di pagine a un prezzo basso, oltre al fatto che erano realizzate in un formato qualitativamente abbastanza buono. Si è notato però che con il tempo il prezzo è cresciuto (si può dire cosa normale con l’inflazione sempre in crescita), ma ultimamente si nota che non c’è più tanta convenienza, ma forse dipende dal quotidiano al quale i volumi sono allegati (sì, perché spesso queste iniziative sono pubblicate da quotidiani come Repubblica, Gazzetta dello Sport, Corriere dello Sport).
Faccio alcuni esempi.
Nel 2003 Repubblica pubblicò la collana I Classici del Fumetto, una collana contenente decine di volumi che spaziavano dai fumetti Marvel e DC (X-Men, Fantastici 4, Hulk, Batman, Superman) a Dago, Flash Gordon, Tex Willer, l’arte di Sergio Toppi, di Jiro Taniguchi, Dylan Dog. Volumi mediamente oltre le 250 pagine a un prezzo di 4.90 E.
Nel 2004, sempre Repubblica, fece I Classici del Fumetto Serie Oro, che proponevano storie famose di fumetti quali Spider-man, Mafalda, Dylan Dog, Topolino. Il formato era più grande del precedente e costava un poco di più, 6.90 E, ma si aveva anche una paginazione superiore (Spider-man e Dylan Dog superavano le 300 pag., Superman le 400).
Spider-man&Wolverine-Un altro bel pasticcio: uno dei fumetti pubblicati dalla Gazzetta dello Sport nella collana Supereroi Il MitoCon il successo dei film di Spiderman, Hulk, Thor, Iron Man, X-men ci sono poi state le iniziative Supereroi (Le leggende Marvel, Le Grandi Saghe, Il Mito) della Gazzetta dello Sport, pubblicate tra il 2009 e il 2014, con volumi al prezzo di 9.99 E che andavano da 190 pag. a oltre 300 pag.
Ora, il Corriere dello Sport propone come collana Avengers – Gli eroi più potenti della Terra Serie Oro: il formato è un po’ più grande delle edizioni di Repubblica e Gazzetta, ma presenta una qualità della carta e delle copertine più bassa, oltre una paginazione inferiore (volumi tra le 128 e le 160 pagine) e un prezzo di 8.99 E.
Potrà essere semplicemente un caso, ma si nota, come lo si nota con l’editoria, che per i prodotti si ha un aumento dei prezzi cui non corrisponde un’adeguata qualità, anzi, con quest’ultima si ha un peggioramento: si vuole cercare di guadagnare di più dando di meno. Non si capisce che questo modo di fare non porta guadagno e fa perdere mercato; non ci si deve poi lamentare se certe iniziative non ottengono i risultati sperati (se a questo ci si aggiunge che certe iniziative non arrivano nemmeno alle edicole e non si sappia nemmeno che cosa siano, si può capire l’importanza che si dà a pianificazione, pubblicizzazione e diffusione dell’opera e di come un certo modo di lavorare non paga).