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Febbraio 2012
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Bianco come la neve

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La Ruota del Tempo - Ultimi Atti

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La Ruota del Tempo gira e le Epoche si susseguono, lasciando ricordi che divengono leggenda; la leggenda sbiadisce nel mito, ma anche il mito è ormai dimenticato, quando ritorna l’Epoca che lo vide nascere. In un’Epoca chiamata da alcuni Epoca Terza, un’Epoca ancora a venire, un’Epoca da gran tempo trascorsa, il vento si alzò nelle Montagne di Nebbia. Il vento non era l’inizio. Non c’è inizio né fine, al girare della Ruota del Tempo. Ma fu comunque un inizio.

Così cominciava il primo capitolo di L’Occhio del Mondo, il primo volume della saga La Ruota del Tempo.
Così comincia il primo capitolo di Le Torri di Mezzanotte, tredicesimo libro delle vicende del Drago e del mondo in cui vive.
Sono passati più di venti anni dal romanzo che ha dato il via a una grande avventura e come tutte le cose, ciò che ha un inizio ha anche una fine: il ciclo che è stato aperto deve essere chiuso. La storia si sta avvicinando al suo epilogo, i fili intrecciati stanno per mostrare l’arazzo che è stato tessuto.
C’è aspettativa per conoscere la risoluzione di una lotta tra bene e male, tra caos ed equilibrio, che su molti campi e in numerose epoche si è visto svolgersi ed evolversi.
Ma allo stesso tempo c’è il rammarico di veder giungere al termine qualcosa di grandioso, si prova quasi il desiderio che la lotta continui in eterno.
E così sarà.
Cambierà forma, indosserà abiti differenti, verrà chiamata in molti modi, si muoverà su mondi reali e immaginari, vedrà chiunque come protagonista, nel grande come nel piccolo.
E anche se il ricordo diverrà sbiadito e verrà smarrito, l’eco di ciò che è stato continuerà a esistere, perché il Drago, ciò che è grande, è destinato a rinascere.
Ma questi sono pensieri che s’allontanano dalla lettura: ora c’è da scoprire cosa c’è ad attendere nel cammino di Rand, Mat, Perrin e tutti gli altri personaggi incontrati nel lungo girare della Ruota, un futuro che aspetta con trepidazione d’essere scoperto.
Un piacere reso possibile dalle penne di Sanderson e Jordan prima di lui.
Un piacere reso ancora più carico ed evocativo se alla lettura si vanno ad aggiungere le note dei Blind Guardian che suonano e cantano la canzone dedicata a questa immensa saga.

    Wheel of Time

    Now there is no end
    The wheel will turn, my friend

    I’m in flames
    Cause I have touched the light
    It pulls me so
    We shall be one
    Forevermore
    That’s all I want
    It’s all I need
    Everything is fixed
    There’s no chance
    There’s no choice

    It’s calling me
    Saidin
    So precious and sweet
    My mind keeps fading away

    It’s scratching deeper
    My sole reliever
    How can I find you now?

    Passing through the flames
    I see
    How terror will rise
    It soon will be over
    O father of lies
    Like foul winds at twilight
    It’s coming over me
    What was and what will be?
    What is?
    I don’t know

    Driving me insane
    Just feel the heat
    Madness creeps in
    I’ll tear it down

    There’s no end
    Wheel of time
    It keeps on spinning
    There’s no beginning
    Turn the wheel of time
    There’s no beginning
    Just keep on spinning

    Light – it binds me
    Light – it blinds me
    Light – it finds me
    Light denies me now

    I creep along
    So desperate and tired
    Let me ask you
    Why?
    I am what I am
    Prophecies I am the chosen
    Ta’veren
    The flame will grow
    Feel the heat
    I’ll keep on breathing
    After all there’s no tomorrow

    Wheel of time
    Save my soul, find a way
    And if I fail, will it all be over?
    Oh wheel of time

    The vision
    So fleeting and vague
    Once again I will bring down the mountain
    One last glimpse
    It is costantly slipping away

    The young man said
    “I will never give up”
    The inner war
    I can hold against it
    My mind, my mind
    My mind’s in darkness

    The young man says
    “I will never give in”
    The prophecy
    Behold it’s true
    I conquer the flame
    To release the insane
    I’m crying
    I cannot erase
    I’m the dragorn reborn
    And in madness
    I soon shall prevail
    Twice I’ll be marked and
    Twice I shall live
    The heron sets my path
    And name me true
    Twice I’ll be marked and
    Twice I shall die
    My memory’s gone
    But twice I pay the price

    Wheel of time
    Save my soul
    Find a way
    May it be as the pattern has chosen
    Oh, wheel of time
    Turn the wheel of time
    It keeps on spinning
    There’s no beginning
    There’s no end, wheel of time
    There’s no beginning
    Just keep on spinning

    Shine on
    Embrace and deny me
    Turn on, wheel of time
    Shine on
    You’ve burnt me, now guide me
    Weave on, wheel of time

La Principessa di Landover - Terry Brooks

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Sono trascorsi più di venti anni da quando Brooks pubblicò Il Magico Regno di Landover, il primo romanzo della fortunata serie che vede per protagonista Ben Holiday, avvocato di successo di Chicago con tuttavia una vita vuota dopo l’improvvisa scomparsa della moglie e della figlia che portava in grembo. In un’esistenza trascinata per inerzia, si ritrova a leggere uno strano inserto su un catalogo natalizio:

Landover: terra d’incanto e d’avventura salvata dalle nebbie del tempo, terra di cavalieri e di scudieri, di draghi e di giovani castellane, di maghi e di stregoni. La magia si sposa al ferro delle lame, e la cavalleria è il codice di vita del vero eroe. Tutti le vostre fantasie sono realtà in questo regno di un altro mondo. A questo splendido arazzo manca un solo filo: voi, per governarlo come Sovrano e Alto Signore.

Così quasi per gioco, con più di un pizzico di follia, Ben si ritrova ad acquistare il fantomatico mondo, scoprendo che la magia esiste davvero, ma che le cose non sono come appaiono: il regno non è lo splendore tanto decantato, perché una terra senza un re è una terra destinata a morire. Una realtà che riprende i miti arturiani (riferimento al Re Pescatore), dove re e terra sono una cosa sola, ma che si sviluppa con un tocco più leggero, diverso dall’epicità che permeano le storie dei miti.
Con un misero seguito scalcinato, Holiday ricostruisce un regno che sarà anche un modo per ricostruire la propria vita. Affrontando demoni, draghi, streghe, complotti, riesce a ridare vita e stabilità a un mondo sulla via della rovina: gli anni passano, i cicli si aprono e si chiudono.
Così, dopo che per cinque volumi è stato protagonista di questa saga, Ben passa il testimone e al centro della scena sale sua figlia, Mistaya.
Se da un lato è un piacere rincontrare personaggi di un mondo che si è imparato ad amare, dall’altra si deve accettare che gli anni passano per tutti, anche per scrittori che si sono apprezzati e dispiace vedere che si sono adattati al mercato, perdendo quella scintilla di magia che un tempo avevano e sapevano trasmettere.
Brooks in La Principessa di Landover decide di dare uno stampo adolescenziale alla storia, adattandolo all’età della protagonista, dove tutto ruota attorno a lei e al suo punto di vista: l’incomprensione verso il modo di vedere e pensare degli adulti, il non sapere quale strada prendere, la testardaggine, la presunzione e l’irruenza che non fa riflettere, il cominciare a conoscere il sentimento dell’amore. Un punto di vista che per una prima parte dà nuova linfa a questa saga, sembra far riemergere lo spirito presente nei primi libri, dove si percepiva l’aura magica che pervadeva ogni cosa, allontanandosi dai toni cupi che avevano aleggiato in La Scatola Magica di Landover e La Sfida di Landover; una spensieratezza che è una brezza rinfrescante, leggera.
Forse troppo leggera.
Il sesto capitolo della saga di Landover è una gradevole e scorrevole lettura d’intrattenimento, ma è lontana dalla magia dei primi volumi, non riuscendo ad aggiungere nulla a una serie che sembra ormai aver già detto tutto ed è un usare e ripetere copioni già visti, come ho parlato più in dettaglio nella recensione realizzata per FM.

L'Ultimo Potere - Preludium - III Credenze ipocrite e cieca follia - parte 3

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L’uomo camminava lungo i sentieri percorsi dai caprioli, abbandonato nei rumori e nei profumi della natura,. Scostando rami e arbusti, seguiva le impronte fesse lasciate dalla pista che dal campo vicino a casa sua saliva verso le colline, costeggiando il boschetto sulle rive del torrente e arrampicandosi sui pendii erbosi chiazzati da gruppetti di querce. Non era la prima volta che trovava tracce di quegli animali, specie nei pressi dell’orto, ma quel giorno, accanto alle solite impronte, ce n’erano altre più piccole.
Desideroso di vedere i cuccioli, aveva preso a seguire la pista che si erano lasciati alle spalle. Aveva camminato tenendo un passo regolare, perdendosi nel percepire i muscoli delle gambe che si tendevano e rilassavano, ascoltando il respiro che entrava e usciva nei polmoni. Andò per i boschi, saltando fossati e arrampicandosi su erte salite, lasciando che la mente non pensasse a nulla.
Due ore di cammino dopo si era ritrovato sulla sommità della collina più alta, seduto a fianco di una lunga fila di querce che gettava una fresca ombra sul terreno. Ascoltando il canto del vento che in disparte lo accarezzava, posò lo sguardo sulla linea montuosa che s’alzava avvolta di foschia molto distante dalle sagome dei palazzi rossi e grigi della periferia. Come sembrava piccola la città dove i sogni umani bruciavano traditi dalle false credenze di un’eterna stoltezza: una dura, gigantesca pietra lavorata dove la gente sognava e viveva nelle vuote armonie di una morte che si protraeva arida ogni giorno che passava.
Alzò lo sguardo, tendendosi per ascoltare la melodia del vento; gli pareva quasi di udire una voce nei soffi d’aria che saliva lirica e potente fino alla volta del cielo.
Rido di te, mi beffo di te, nella terra incastrata, stupita urbe morente.
“E gioisco perché vivrò ancora quando tu non sarai più”. Fu il rapido pensiero sorto al nascere dai versi silenti portati dalle lenti correnti.
E mentre lo formulava li scorse salire la dorsale dell’area collinare. In fila indiana i tre caprioli procedevano a testa alta, eleganti e sinuosi nel loro incedere, il manto nocciola che risaltava sul manto erboso. Un sorriso s’allargò vedendo il batuffolo bianco che i piccoli avevano per coda scodinzolare allegramente mentre la madre li leccava.
Il sorriso si fece più stanco. Fosse sempre tutto così semplice e naturale.
Perché gli uomini non potevano vivere in modo differente? Perché dovevano sempre correre in maniera insensata, esaurendosi fino a bruciarsi? Si facevano trasportare dagli eventi senza pensare, senza chiedersi il motivo di quanto facevano, affannandosi senza posa.
E per cosa? Per avere un lavoro più remunerato, così da poter comprare più roba, avere una casa più grande, possedere auto e abiti alla moda?
Dovevano arrabattarsi tutta la vita per queste cose?
Da anni provava a darsi una spiegazione, a cercare una risposta, una giustificazione nel passare l’esistenza per accumulare e mantenere il superfluo; ma non ci riusciva. Era tutto così… sprecato.
Trasse un lungo sospiro. Quei pensieri servivano solo ad angustiarlo, doveva cercare di vivere più serenamente, senza arrovellarsi su questioni su cui non poteva fare nulla e che a un certo punto non lo riguardavano. Se il mondo aveva deciso di implodere, che facesse pure: non si sarebbe fatto trascinare verso il fondo. Sarebbe rimasto da una parte, senza avere alcuna parte in quella recita scadente.
Sì, sarebbe stato così. Non avrebbe più avuto nessun ruolo in quel circolo vizioso; ormai era sceso dal treno e non vi sarebbe più risalito.
Lasciò che i minuti s’accavallassero uno sull’altro, indifferente al tempo che passava. Non aveva alcuna voglia di scendere dal piccolo monte, ritornando nell’aria stantia della pianura. Voleva starsene da solo, libero da ogni pensiero, ogni dovere; libero anche da sé stesso, sciolto da ogni vincolo e forma.
Essere come il vento.
E per qualche minuto lo fu davvero; fu come essere una cosa nuova, appena nata.
Poi la mente si richiuse di nuovo sul suo essere, riportandolo ai pensieri e alle pesantezze della solita vita.
Svogliatamente si rimise in piedi, prendendo la via del ritorno. Anche se ora doveva affrontare la discesa, gli pareva di fare più fatica di quando era salito.
Solo a metà del percorso s’accorse che sulla strada c’era una grossa macchia nera. Bloccato in mezzo al sentiero, cercò di capire perché tutta quella gente fosse riunita in quel punto. Poteva trattarsi di un incidente, ma un assembramento del genere era eccessivo; e poi era raro che le auto uscissero dalla città: i contatti con l’esterno avvenivano esclusivamente per via telematica, pochi si mettevano in viaggio sulle strade. Al massimo, se proprio erano costretti, venivano usati treni e aerei.
Allora, che cosa stava succedendo?
Cominciò a sentire squarci d’urla giungere alle orecchie come il moto della risacca.
Perché tutte quelle grida?
Inquieto, riprese a discendere il sentiero, il passo incerto mentre continuava a seguire i movimenti della massa. Sentì crescere il disagio, come se stesse osservando le movenze di una gigantesca vedova nera.
La sagoma di una collina più bassa coprì la visuale, nascondendo la folla che avanzava. Spinto da un’impellenza che non seppe spiegarsi, si mise a correre lungo il sentiero, incurante degli arbusti che gli sferzavano le gambe. Spuntò fuori da un gruppetto di querce e il fiato gli si bloccò in gola.
Si stavano dirigendo alla sua casa. Molte delle persone erano armate.
In pochi attimi l’edificio in sassi fu circondato.
Una finestra al primo piano fu aperta.
Le grida si levarono d’intensità. La massa si strinse attorno ai muri.
“Non uscite di casa.” Fu il pensiero irrazionale che lo martellò, mentre il suo corpo si rifiutava di muoversi. “Vi prego, non uscite di casa.”
La folla prese a rumoreggiare come una mandria di bufali inferocita.
«Fatelo uscire! Sappiamo che è lì dentro!» Tuonarono i molti.
“Stanno cercando me.” Fu lo sconvolgente, e allo stesso tempo confortante, pensiero. “Se è così, li lasceranno stare, sono al sicuro.”
Un senso di terrore staffilò il suo corpo in ondate travolgenti, arrivando a fargli provare una costrizione al petto.
Che cosa volevano da lui?
Non aveva niente a che fare con quelle persone, praticamente non aveva rapporti con gli abitanti della città: era un solitario che se ne stava sulle sue, senza dar fastidio a nessuno. Non aveva fatto nulla che potesse scatenare un’avversione così violenta.
Eppure il comportamento della massa diceva il contrario: non aveva mai visto tanto odio e rabbia.
“Non uscite di casa.” Implorò in silenzio, cominciando a capire quanto stava per succedere.
Vide sopraggiungere un’auto della polizia e un sollievo quasi doloroso lo rasserenò.
Adesso tutto si sarebbe sistemato, tutto sarebbe stato spiegato. Ci doveva essere stato un incredibile equivoco: non aveva fatto nulla di male.
Basito, vide l’auto allontanarsi dalla strada e fermarsi in mezzo al prato vicino al torrente, tenendosi a una cinquantina di metri di distanza. I poliziotti scesero dal mezzo, ma non si mossero dalla loro posizione. A braccia incrociate, rimasero a fissare la scena.
“Ma cosa…”
Un rimbombo secco lo riscosse dallo sbigottimento.
La massa si stava gettando contro la porta.
«Dove lo nascondete?» Sentì le urla giungere nitidamente nel punto dove si trovava.
Poi ci fu lo schianto e la folla si riversò all’interno della casa come una serpe nella tana del topo.
Gli strepiti delle donne incitavano gli uomini.
Gli individui entrati uscirono come se fossero stati vomitati, ritenuti indigesti alla casa. Con sé trascinarono i suoi genitori.
«Dove lo nascondete?» Tuonò inferocita la moltitudine.
“In tutto il mondo ogni uomo cerca di sterminare gli esseri più deboli.” Era quanto gli aveva detto un senzatetto quando lo aveva soccorso dopo essere stato pestato da un gruppo di adolescenti. Ma a tutto c’era un limite: vivevano in un’epoca civile…
Quella era forse civiltà? Incredulità e rabbia combatterono la loro battaglia, senza che nessuna delle due riuscisse a prevalere, mentre gli occhi continuavano a fissare impietosi la scena. Gli esseri umani si mostravano per quello che erano realmente: esseri spaventosi. La follia che tanto era stata in incubazione, era esplosa in una pandemia virulenta.
Ma perché doveva capitare proprio a lui? Lo stupore lo tenne inchiodato senza fare niente.
«Dove lo nascondete?» Abbaiò la folla, un branco di cani randagi affamati.
Non riuscì a sentire la voce dei genitori, sovrastata dalle grida.
O più semplicemente, gli fu impedito perché le spranghe cominciarono a colpire.
La gente voleva veder scorrere il sangue, non avere risposte.
E intanto la polizia se ne stava a osservare la scena con le braccia conserte.
Doveva fermare quella follia, anche se questo significava che si sarebbe riversata su di lui. Riprese a muoversi, gli arbusti che gli scivolavano accanto in macchie indistinte.
In un attimo, come per incanto, lame metalliche comparvero nelle mani degli assalitori: lunghi e larghi coltelli da cucina vennero levati in alto dalle braccia abbronzate simili a chele di una mantide religiosa.
Spalancò la bocca, inspirando quanto più fiato possibile.
Le lame s’abbassarono come tanti machete.
Il sangue zampillò, prendendo a scorrere sull’erba e sul cemento, mentre i corpi venivano rotolati e trascinati e lembi di carne venivano staccati e maciullati. Le membra furono sbalzate in aria come palloni, riprese a essere fatte a pezzi quando ricaddero a terra.
«Noooo!»
L’urlo esplose come un tuono caduto dal cielo, sovrastando le grida stridule della folla.
La moltitudine parve non sentirlo, presa dall’opera di macellazione.
Si gettò lungo il pendio, saltando in un balzo il letto del torrente, sapendo che era troppo tardi, che non poteva fermare quei pazzi.
Urlando a squarciagola caricò a testa bassa.
I poliziotti, vedendolo emergere dall’argine, si scossero dall’immobilismo, scattando e convergendo all’unisono su di lui.
L’uomo non li vide sopraggiungere, gli occhi iniettati di sangue. Non li sentì arrivare, ogni rumore sovrastato dal ruggito che saliva dalla gola.
Si ritrovò a terra, centrato al fianco da un grosso peso. Mani rudi gli piegarono le braccia dietro la schiena. Sentì freddo attorno ai polsi e uno scatto metallico. Si dibatté come una belva, prima che un tacco calasse con impeto su un lato della testa. Una macchia nera punteggiata di lampi verdi esplose davanti ai suoi occhi. La forza rabbiosa che lo aveva pervaso scemò di colpo, lasciandolo esanime a terra.
Si sentì rimettere in piedi con forza, la testa pulsante come se qualcuno lo stesse prendendo a martellate. I poliziotti lo trascinarono verso l’auto sorreggendolo per le braccia.
Scosse la testa, cercando di riacquistare lucidità, puntando i piedi per opporre resistenza
«Sali in macchina.» Gli intimò strattonandolo il più corpulento dei due.
L’uomo si voltò verso la folla, cercando di mettere a fuoco la scena. «I miei genitori…li hanno massacrati…e voi non avete fatto nulla…» Biascicò le parole sentendo la bocca invasa da un sapore ramato.
«Cammina.» Lo strattonò l’altro poliziotto.
La moltitudine si era fermata, ansando e osservando spiritata il risultato dei suoi sforzi.
L’ondata di furore lo travolse nuovamente
«Se la sono fatta con dei vecchi!» Urlò furioso mentre vedeva i genitori a poche decine di metri fatti a pezzi. «E voi non avete fatto nulla!»
Una nuova fiammata alla tempia, un lampo e il mondo prese a ballonzolare davanti a lui in un vorticare cacofonico. Si sentì trascinare di nuovo, una mano che gli premeva sulla testa spingendolo verso il basso. Si ritrovò su un sedile, la bocca invasa dal sapore di sangue e bile. Sentì sbattere una portiera e aprirsene un’altra.
La vista cominciò a oscurarsi. Attraverso il finestrino vide la folla che lanciava grida inumane sollevando gli arnesi del massacro al cielo, come se fossero delle coppe: esseri umani che esultavano per la morte di loro simili.
Demoni, non esseri umani. La rabbia ebbe un ultimo guizzo prima che la sua luce fosse soffocata dall’inconsapevolezza pressante.
«Dovresti esserci riconoscenti: ti abbiamo salvato la vita.» Sentì dire dal conducente mentre metteva in moto l’auto e s’avviava per fare ritorno in città.
Fu l’ultima cosa che udì prima di piombare nell’oblio.

Gelide geometrie e soffici fiocchi

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Piccoli consigli

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In mezzo alle letture degli ultimi giorni, ho trovato tra le vecchie cose questo trafiletto. Consigli che possono servire in qualsiasi momento; semplice buon senso, si può dire, ma di cui spesso ci si dimentica. Di certo, è che basterebbe davvero poco per vivere meglio.

• Finché è possibile, senza doverti abbassare, sii in buoni rapporti con tutte le persone.

• Evita le persone volgari e aggressive, esse opprimono lo spirito.

• Se ti paragoni agli altri, corri il rischio di far crescere in te orgoglio e acredine, perché sempre ci saranno persone più in basso o più in alto di te.

• Gioisci dei tuoi risultati così come dei tuoi progetti.

• Conserva l’interesse per il tuo lavoro, per quanto umile; è ciò che realmente possiedi per cambiare le sorti del tempo.

• Sii prudente nei tuoi affari perché il mondo è pieno di tranelli. Ma ciò non acciechi la tua capacità di distinguere la virtù.

• Sii te stesso. Soprattutto non fingere negli affari e neppure sii cinico riguardo all’amore, poiché a dispetto di tutte le aridità e disillusioni, esso è perenne come l’erba.

• Accetta benevolmente gli ammaestramenti che derivano dall’età, lasciando con un sorriso sereno le cose della giovinezza.

• Coltiva la forza dello spirito per difenderti contro l’improvvisa sfortuna. Ma non tormentarti con l’immaginazione. Molte paure nascono dalla stanchezza e dalla solitudine.

• Dì la verità con calma e chiarezza, e ascolta gli altri, anche i noiosi e gli ignoranti; anche loro hanno una storia da raccontare.

• Tu sei un figlio dell’universo, non meno degli alberi e delle stelle; tu hai diritto ad essere qui.

• Sii in pace con Dio, comunque tu Lo concepisca e, qualunque siano le tue lotte e le tue aspirazioni, conserva la pace con la tua anima pur nella rumorosa confusione della vita.

• La vita con tutti i suoi inganni, i lavori ingrati e i sogni infranti, è ancora un mondo stupendo. Fai attenzione. Cerca di essere nella pace.