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Una sconfinata giovinezza

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Non si tratta di una recensione sul film realizzato di Pupi Avati, ma un modo per parlare della tematica affrontata da questo film. Un tema legato a un evento avvenuto tempo fa, ma che è passato inosservato, a causa dell’attenzione volutamente distolta dai problemi reali di cui ci si dovrebbe occupare; problemi legati alla gente che si dovrebbe aiutare e supportare.
Il 21 settembre è stata la giornata mondiale sull’Alzheimer.
Simili giornate non risolvono il problema di malattie del genere, ma aiutano a sensibilizzare, a farne comprendere la gravità e la portata. Questa malattia colpisce doppiamente, infierendo sulla vittima, ma anche alle persone che le sono a fianco.
Andiamo con ordine.
L’Alzheimer (detto anche morbo di Alzheimer) è una malattia che colpisce i tessuti cerebrali delle persone anziane, causandone una degenerazione che va a influire sulle funzioni di chi è colpito, portando un’involuzione nella vita che vive.
E’ come vedere il processo di crescita di un bambino, ma al contrario.
Il bambino crescendo impara, sviluppa capacità, divenendo indipendente e autosufficiente.
Nell’anziano colpito dal morbo si verifica un cammino a ritroso, un tornare indietro; da persona matura capace di badare a se stessa con il passare del tempo e l’avanzare della malattia si ritorna a passaggi evolutivi già affrontati e superati: adolescenza, giovinezza, fanciullezza. Ci si ritrova ad avere a che fare con adolescenti, bambini che hanno il corpo di un anziano.
Si tratta di un processo lento che si manifesta dapprima con lievi disturbi della memoria, piccole dimenticanze a cui non si fa caso, che vanno mano a mano intensificandosi; si manifestano alterazioni dell’umore, da euforia a tristezza, da iperattivismo ad apatia, come avviene con i giovani nel passaggio dell’adolescenza, fino ad arrivare ad atteggiamenti infantili, come quando i bambini fanno i capricci e mettono il muso o si lamentano perché le cose non vanno come vogliono loro.
Lentamente la persona scivola via, trovando difficoltà nel fare le cose, non riuscendo più a essere in grado di fare ciò che faceva prima: disimpara tutto, il linguaggio si fa limitato, si trovano difficoltà ad associare oggetti a parole, non si riesce a definirli, si perde la cognizione del tempo passato e presente, li si confonde, rivivendo eventi che non sono più.
Anche le cose più elementari diventano un problema, come può esserlo per un bambino che muove i primi passi nel mondo. La persona malata, spaventata e spaesata, con le funzioni che si fanno sempre più limitate, va per imitazione, ripetendo gesti che vede compiere perché da sola non è più in grado di sapere come e cosa fare (ad esempio osserva un altro usare la forchetta per mangiare e fa così anche lei); i neuroni specchio sono tra i pochi che ancora funzionano.
Ma arriva il momento in cui anche loro ne sono colpiti e il malato arriva a non essere più autosufficiente: va seguito e accudito come un bambino. Non riesce più a parlare, va imboccato, lavato; non sa più dove si trova, cosa deve fare. Non sa più chi è, non riconosce più nessuna delle persone care; è soggetto ad allucinazioni, incubi lucidi e vivi fatto da sveglio.
Fino a quando non sopraggiunge la morte, perchè la malattia arriva infine a portare disturbi neurologici e poi internistici.
Un atto che pone fine alle sofferenze di una persona morta da tempo.
Una crudeltà questa affermazione?
Solo la dura realtà perchè la persona malata non è più la persona che si è da sempre conosciuta: quella persona non esiste più, è finita.
Guardate le immagini.

La prima è un cervello sano; la seconda un cervello colpito dall’Alzheimer.
Si tratta di un simbolo di morte di una malattia bastarda che porta via tutto alla persona, ma anche i bei ricordi che i familiari hanno di lei.
Una malattia che non si ferma solo al malato, ma colpisce e infierisce anche su chi le sta accanto.
Le relazioni sociali e familiari si riducono, ogni interesse, hobby personale viene messo in secondo piano per seguire la persona, fino a quando non si vive esclusivamente per accudire il malato. Oltre alla stanchezza fisica per un compito che lascia poco spazio anche per il sonno, ci si ritrova a convivere con la rabbia, il senso d’impotenza e la perdita della speranza perché non c’è nulla da fare contro questa malattia, non esistono cure.
E ci si ritrova isolati, abbandonati dalla gente, lasciati a se stessi dalle associazioni, dagli enti, dagli amici. E l’isolamento è una carogna come l’Alzheimer: può far ammalare di depressione e altri disturbi psicologici.
Sì, l’Alzheimer è una malattia che richiama altre malattie, che indebolisce le difese di chi assiste, un pò come succede con l’Aids. E’ una sofferenza straziante, resa ancora più forte dall’indifferenza e dal distogliere lo sguardo da chi è colpito da parte della società e delle persone che la compongono.
Fino a quando si potrà non voler vedere?
L’Alzheimer è una piaga dilagante che colpisce solo in Italia un milione di persone. Malati invisibili, famiglie provate psicologicamente, socialmente ed economicamente, dato che sono poche le strutture per supportare le persone colpite dal morbo e che spesso sono i familiari a dover accudire e seguire.
Questi sono i problemi di cui le persone, i governi dovrebbero occuparsi, non dispuste sterili su chi deve tenere la poltrona o qualche altro argomento di poco conto, sterile e superficiale.
L’Alzheimer fa dimenticare. Non dimentichiamoci delle persone che ne sono colpite e dei loro familiari.
Soprattutto riscopriamo la solidarietà, non fuggiamo di fronte alle difficoltà, perché non si può sapere per chi suona la campana: nessun uomo è un’isola, potendosi considerare indipendente dal resto dell’umanità.