Il 17 marzo 1861 si ponevano le basi per la nascita di quella che sarebbe stata l’Italia. Un’unificazione politica della penisola italiana che fece cambiare il nome del Regno Sardo in Regno d’Italia quando fu annesso al grosso dei territori degli stati preunitari. E che in seguito, nel 1946, cambiò denominazione e fu mutata in Repubblica a seguito del referendum istituzionale.
Una data che segnò la fine di un lungo periodo che aveva visto la penisola divisa internamente in tanti piccoli stati e costantemerne sotto la dominazione di potenze straniere. Una conquista ottenuta attraverso guerre d’indipendenza, sacrifici, difficoltà, avvenuta soprattutto grazie alla volontà di gente capace di sognare, di vedere oltre i piccoli interessi che tenevano separati la popolazione italiana, arroccata in posizioni vecchie e stantie che non potevano più dare niente.
Oggi si ricorda la nascita della nazione italiana, ma occorre ricordare che se ciò è avvenuto non è stato per i meriti della classe politica, allora come adesso ferma nelle sue posizioni, intenta a guardare e mantenere lo status quo degli equilibri politici, ma grazie a gente venuta dal popolo, gente che credeva in un ideale e aveva una visione di futuro. Gente come Garibaldi, simbolo di una volontà che non si è mai arresa. Gente che aveva capito che se non si è uniti l’unico fato cui si può andare incontro è essere sfruttati e soggiogati, in balia della volontà e dei capricci di altri.
«Che cosa c’è di tanto divertente, vecchio mio? » chiese l’uomo dagli occhi grigi.
«Voi », rispose il guerriero. « Tutti voi. Non ho mai visto tanti ciechi in una sola stanza.»
«Che intendi dire? » chiese con sospetto il mercante di lana.
«Occorre spiegarlo? » mormorò l’uomo di Khardhun, fingendosi stupito. « Va bene, allora. Perché mai dovrebbe prendersi il disturbo di rendervi schiavi? » Indicò il mercante che aveva dato inizio alla discussione. « Se cercasse di farlo, quel poco di virilità che rimane ancora nella penisola potrebbe giungere a ribellarsi.»
Ettorcio tornò a guardare nervosamente la porta.
«Viceversa », proseguì l’uomo di Khardhun, « se si limita a spremervi con tasse e pedaggi e confische, può ottenere lo stesso risultato senza far infuriare nessuno. Alberico », terminò, bevendo un sorso di birra, « non è uno stupido. »
« E tu », disse l’uomo dagli occhi grigi, « sei uno straniero insolente e arrogante! »
L’uomo di Khardhun smise di sorridere. Fissò minacciosamente il mercante, ed Ettorcio ringraziò gli dei di avergli fatto togliere la spada, quando era entrato.
«Sono qui da trent’anni », disse l’uomo dalla pelle nera.
«Da prima che tu nascessi, scommetto. Proteggevo le carovane su questa strada quando tu bagnavi ancora il letto. E per il fatto di essere uno straniero, be’, l’ultima volta che ho chiesto informazioni, mi hanno detto che Khardhun era un paese libero. Noi siamo riusciti a ricacciare indietro gli invasori, e questo è più di quanto possa dire qualsiasi uomo della penisola!»
« Voi avevate la magia! » esclamò il ragazzo che faceva colazione appoggiato al banco. « Noi no! È il solo motivo!»
L’uomo di Khardhun si girò verso il ragazzo e gli rivolse una smorfia sprezzante. « Se pensi di poter dormire meglio, credilo pure. Forse sarai più contento di pagare le tue tasse, o di patire la fame perché non c’è grano. Se invece vuoi sapere la verità, te la posso dire gratis.
Diversi uomini si erano alzati in piedi e fissavano con ira l’uomo di Khardhun.
Guardandosi attorno, questi disse chiaramente: « Noi abbiamo ricacciato indietro Brandin di Ygrath, quando ci ha invaso, perché il Khardhun ha combattuto come una sola nazione. Voi siete stati sconfitti da Alberico e da Brandin perché vi preoccupavate troppo delle piccole dispute di confine tra voi, o di che duca o che principe dovevano condurre l’esercito, che prete o che sacerdotessa doveva benedirlo, chi doveva stare al centro e chi alle ali, dove si doveva trovare il campo di battaglia, o chi era maggiormente amato dagli dei. Le vostre nove province sono state inghiottite dai due maghi una alla volta, un dito alla volta. Io ho sempre pensato », terminò, fra il silenzio degli avventori, « che la mano combatte meglio quando è stretta a pugno »
Con questo significativo brano, Guy Gavriel Kay nell’opera Tigana (in Italia tradotta con il titolo Il Paese delle Due Lune) mostra come l’unità, l’unione fanno la forza.
Non è un caso che abbia scelto questo pezzo per mostrare questa realtà, perché Kay con la sua opera fantastica mostra la storia del nostro paese, le divisioni e le speranze rinascimentali d’unione; un paese soggetto all’egemonia di potenze straniere (a nord il regno austro ungarico a sud il regno borbonico), vezzato e spezzato, fatto di stati che litigavano tra loro. Non è un caso che Kay chiami la penisola in cui è ambientata la vicenda il Palmo, indicando con la chiusura delle Dita (gli stati che lo formano) il Pugno che rappresenta la forza che dà l’unione.
Un insegnamento da ricordare, perché la memoria serve a rammentare il passato con le sue lezioni da assimilare e comprendere; un bene che va difeso perché se dalla conoscenza viene potere, dall’ignoranza viene sottomissione e un popolo senza memoria, senza coscienza di sè è un popolo spezzato, come succede con quello di Tigana, il cui nome è stato gettato nell’oblio da una maledizione.
Rappresentativi di questa realtà sono i brani di questo libro riportati su Fantasy Magazine nell’articolo scritto da Martina Frammartino.
Oggi si festeggia l’Unità d’Italia, ma la nostra è una nazione divisa come allora, non geograficamente (non ancora almeno), ma nello spirito. Forse più che nazione sarebbe corretto parlare di persone che abitano nello stesso luogo, perché gli italiani non sono individui che formano un paese coeso, ma individualisti che pensano al proprio interesse e nient’altro, ben rappresentati dalla classe politica e dirigenziale, specchio di ciò che gli italiani sono realmente.
Anche se la coscienza è sopita le cose possono cambiare, basta solo che qualcuno dia il via alla risalita.
Ettorcio, durante una discussione tra un mercante di vini d’Astibar e uno di Senzio sulla supremazia delle rispettive regioni, prese la parola, contrariamente alle sue abitudini, per dire quello che aveva detto l’alto guerriero di Khardhun: che nove dita sottili erano state spezzate una alla volta perché non si erano strette a formare un pugno. L’osservazione gli era parsa giusta; quando l’aveva ripetuta, gli era parsa anche molto intelligente. Chi l’aveva sentita aveva annuito gravemente, ed Ettorcio aveva provato un forte orgoglio: di solito, la gente badava a lui solo quando diceva che era l’ora di chiudere.
Era una sensazione piacevole. Nei giorni seguenti, ripeté l’osservazione ogni volta che gli si presentò l’occasione di farlo.
Occorre finalmente superare il concetto di nazione, che è stato causa di guerre e lutti. Oggi occorre unire il mondo.
Vero. Intanto mi accontenterei che gli italiani fossero individui e non individualisti: facciamo questo passo per primo e poi via, verso un miglioramento continuo.