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La zona morta

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La zona mortaLa zona morta è un romanzo di Stephen King del 1979 e vede per protagonista John Smith, un giovane che, dopo essere stato in coma per più di quattro anni a seguito di un incidente, acquisisce il potere, toccando oggetti o persone, di vedere eventi del passato. Questo almeno all’inizio, perché con il tempo John riesce a vedere eventi che ancora devono accadere: grazie a esso evita la morte di un suo studente e dei suoi amici da un incendio, ma lo tormenta il fatto che poteva fare di più, che poteva salvare più vite. La colpa non è sua dato, che tanti non hanno creduto nel suo monito, ma il senso di colpa lo tormenta e si ritrova davanti a una scelta molto difficile: ascoltare la visione avuta dalla zona morta del suo cervello (così chiama il punto dal quale parte ciò che vede e che è la zona traumatizzata dall’incidente) oppure cercare prove sulla fondatezza di ciò che ha visto? Perché la scelta che deve fare è una scelta dal quale non potrà tornare indietro; senza contare che il tumore che ha colpito il suo cervello, e che causa tremendi mal di testa, non gli dà molto tempo per agire.
John si trova così a prendere la decisione di uccidere Greg Stillson, un politico senza scrupoli che ha fatto carriera a suon di porcate e che diverrà in futuro presidente degli Stati Uniti, causando una guerra nucleare. John non riuscirà a eliminare Stillson e perderà la vita nel tentativo, ma la sua azione smaschererà la natura folle di Greg, distruggendo la sua carriera politica e impedendo così che diventi presidente, evitando un disastro mondiale.

La zona morta è un romanzo scorrevole e avvincente, che fa riflettere sulla responsabilità dell’individuo nei confronti della società. John ha un potere, secondo la madre voluto da Dio, che va usato per il bene di tutti. Per un pezzo John cerca di isolarsi dal mondo, lontano dalle richieste di tante persone che vogliono che usi i suoi poteri per esaudire le loro richieste, cercando di ricostruirsi una vita che gli è stata portata via da un incidente causato da stupidi ragazzi che facevano una gara con le auto: ha perso il suo lavoro d’insegnante (a causa dell’aver risolto il caso di un serial killer che uccideva da anni le donne, la scuola per cui lavorava non ha più voluto avere a che fare con lui); Sara, la ragazza che amava, si è sposata con un altro ritenendo che lui non si sarebbe mai più svegliato dal coma; la madre, divenuta una fanatica religiosa in seguito al suo incidente, muore vedendo come viene trattato dalla stampa durante una conferenza.
Proprio il ricordo della madre, con le parole “fa’ il tuo dovere, Johnny”, lo spingono ad agire in una certa maniera per non avere sulla coscienza un numero indefinito di vittime.
Fosse stato scritto di recente, La zona morta probabilmente non sarebbe stato pubblicato, dato che tratta di quello che può essere considerato un attentatore che colpisce una carica politica. Fortunatamente le cose non sono andate così: La zona morta è un romanzo che dovrebbe essere letto da tanti per far capire come le persone dovrebbero fermare i politici quando portano il loro paese verso una condizione disastrosa. A questo va aggiunto che affronta molto bene il tema della solitudine degli individui che si distaccano e distinguono dalla massa, e di come la diversità non venga ben accolta; soprattutto colpisce come è mostrata la paura delle persone verso ciò che non capiscono.
Oltre alla lettura del libro, si consiglia la visione dell’omonimo film realizzato nel 1983 da David Cronenberg, con John Smith interpretato ottimamente da Christopher Walken, che con profondità e delicatezza mostra il dramma interiore del protagonista.

Lo sguardo rivolto al passato

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A tutti è capito di fermarsi e guardare con nostalgia o con un sorriso il passato. I ricordi, se piacevoli, possono essere una bella cosa. Il ricordare è una cosa importante, perché serve a capire gli errori fatti e a cercare di non ripeterli. Ma vivere con lo sguardo sempre rivolto al passato non è una buona cosa, perché non fa vivere il presente: questo è un atteggiamento che nella società attuale viene perpetrato, come se il passato fosse meglio del presente, aggrappandosi a esso con la speranza che torni.
Il passato però è passato e non può tornare: ciò che è stato non può essere riportato in vita.
Eppure, si continua ad agire cercando di farlo rivivere. Basta vedere le tante reunion di band o cast serie tv passate che si fanno, le trasmissioni tv dedicate agli anni trascorsi (es. 90 special), i remake di film di successo del passato. I risultati dimostrano che queste “resurrezioni” non sono ben riuscite, un po’ come avviene in Pet Semetary di Stephen King, dove i morti seppelliti nel cimitero indiano tornano a nuova vita, ma sono qualcosa di abbrutito, che sarebbe stato meglio non risvegliare perché non hanno più nulla dell’originale: sono solo una cosa distorta.
Perché tanti fanno così?
Perché si vive in un presente che non piace e si cerca rifugio in qualcosa che ha fatto stare bene, sperando di alleviare, se non far scomparire, la sofferenza. Ma questo non serve, perché prima o poi bisogna risvegliarsi dai sogni e avere a che fare con la realtà.
Non è solo questo però: si ha la percezione che oltre il presente ci sia un vuoto di futuro, ovvero che si sia arrivati al massimo dell’evoluzione e non ci sia più nulla da scoprire, avendo già tutto il possibile. Il futuro non serve: pare questa essere la convinzione che in molti hanno sviluppato, almeno stando a quanto fa notare Igor Sibaldi; ma di ciò se ne parlerà di più in futuro quando si approfondirà la conoscenza del libro Il mondo dei desideri.
Nell’attesa, consiglio la lettura del bel racconto scritto da Ghigo (utente di WD): rende perfettamente quanto scritto.

It - Il film

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It - Il filmQuando si fa la trasposizione cinematografica di un libro, sono sempre diffidente, soprattutto se mi è piaciuto: It di Stephen King non ha fatto eccezione.
Avevo già espresso in altre occasioni i miei dubbi, temendo che la storia venisse ridotta al mostro che mangia i bambini. Ma It (non solo inteso come mostro) è molto più di questo: non solo per come affronta i temi della paura e del male, ma anche per la caratterizzazione dei personaggi, i vari approfondimenti. La scelta di fare due film (uno che mostra le vicende da bambini dei protagonisti e uno da adulti), fa perdere molto rispetto al come King ha invece strutturato il romanzo; già questo non faceva che acuire i miei dubbi. Dubbi che sono aumentati vista la gran campagna pubblicitaria: più un prodotto è pubblicizzato, più diffido, perché per me non vale il discorso che, visto che si parla tanto di una cosa, allora questa deve essere sicuramente valida.
L’articolo di Andrea Micalone per Letture Fantastiche non ha fatto che dare conferma della mia scelta di non andare a vedere il film. Ne consiglio la lettura, suggerendo che per rendersi conto (per chi non l’ha fatto) di cosa è veramente It è necessario leggere il libro.

On writing

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On writing di Stephen KingOn writing di Stephen King può essere considerato un manuale di scrittura atto ad aiutare chi vuole intraprendere lo stesso percorso dello scrittore statunitense?
Sì e no.
No, se ci si aspetta che vengano rivelati i trucchi e i segreti per costruire un testo che conquisti i lettori e faccia vendere milioni di copie. Se ci si pensa, questa è solo un’illusione, e chi asserisce il contrario probabilmente sta cercando di tirare acqua al suo mulino e spillare dei soldi ai malcapitati che si fanno abbagliare da false promesse: non esistono formule magiche per il successo. E se della scrittura interessa solo questo, allora è meglio lasciare perdere.
Sì, se si è alle prime armi e si vuole conoscere meglio cosa spinge a scrivere e come farlo; chi ha già un po’ di esperienza riconosce la bontà e la veridicità di quanto affermato da King.
On writing si presenta come una lettura scorrevole, dove King racconta un po’ della sua vita, dell’incidente che gli è quasi costato la vita e dà delle dritte utili sul fronte della scrittura: dritte molto semplici, ma essenziali per chi vuol essere scrittore.
Innanzitutto, se si vuole diventare scrittori si devono fare due cose soprattutto: leggere molto e scrivere molto.
Leggere molto e in modo vario aiuta a conoscere stili diversi e capire cosa funziona e cosa non funziona in un testo: non ci vuole un esperto nel comprendere se un testo coinvolge o meno. Anche dai libri scadenti si può imparare, più che da quelli buoni: si evitano di commettere certi errori.
Scrivere molto aiuta a capire cosa usare in un testo per renderlo leggibile e interessante: è in questo modo che si comprende la grande utilità della sintesi (dalla prima stesura occorre eliminare solitamente il 10%). E a questo punto si collega quello dell’ispirazione, che può essere trovata solo se si lavora sodo. King raffigura l’ispirazione come un tizio terra terra, che gli piace stare in cantina, lasciando allo scrittore il lavoro di fatica mentre lui se ne sta in panciolle a fumare sigari, ammirare trofei e ignorando l’autore (o meglio, facendo finta); ma se ci si fa il mazzo, prima o poi questo tizio tirerà fuori il suo sacchetto di magie e comincerà a usarle.
Poi avere un luogo dove scrivere indisturbati, così da poter chiudere la porta e tenere il mondo fuori (inclusi telefoni, cellulari, internet) e poter concentrarsi solo su quello che si vuole scrivere. Avere un ambiente lavorativo sereno aiuta: concentrarsi in un posto dove angosce e interruzioni improvvise e continue sono una costante è molto difficile, se non snervante e debilitante. Provare per credere.
Infine c’è un punto fondamentale che tanti scrittori o aspiranti scrittori, specie in Italia, hanno dimenticato: essere onesti e ricercare la verità. Non importa di quale genere si voglia scrivere, purché sia una propria passione; la si potrà sfumare, diluire, dargli all’apparenza aspetti diversi, ma deve essere qualcosa che appassiona e si ama. Allontanarsi da ciò, preferendo altro per far colpo sugli altri o per arricchirsi, sarebbe un abbaglio. In primis, perché la missione di scrittori consiste nell’individuare la verità all’interno del labirinto di menzogne della vostra storia, non essere tacciati di disonestà intellettuale nel nome del dio denaro (1). Se tanti generi avvizziscono (come successo con il fantasy in Italia) è perché ci sono stati autori ed editori che, invece di scrivere una storia che sentivano propria, hanno plagiato opere che hanno venduto molto, sperando di ricalcare lo stesso successo di fama e di soldi, senza capire che stavano realizzando qualcosa priva di qualsiasi emozione e sincerità di base. Le imitazioni concepite a tavolino non funzionano: è questo che tanti addetti ai lavori dovrebbero mettersi in testa.
Quanto scritto finora è un breve riassunto di On writing e riporta quelli che seconde me sono i punti principali da tenere conto per uno scrittore; certo, c’è anche la padronanza e la conoscenza della grammatica della lingua in cui si scrive, ma questa è una cosa che andrebbe data per scontata se si vuole essere scrittori (ma visto quello che si legge in giro, tanto scontata non è). Ci sono suggerimenti utili, ma la cosa più importante che secondo me King fa capire è che ognuno deve trovare la propria strada di scrittore da solo, la vorando sodo, ascoltando suggerimenti validi quando ci sono, ma evitando di spendere tempo e soldi in corsi o scuole di scrittura creativa, che non servono a evolvere nel percorso che si è scelto.
On writing è un libro che consiglio di leggere perché molto utile per comprendere cosa sia lo scrivere storie; senza contare che ha delle parti davvero divertenti (King sa essere critico e pungente su certe cose in maniera esilarante).

1. On Writing. Stephen King. Pickwick 2017, Pag.147.

L’abito fa il monaco

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«Se vuoi diventare uno scrittore, devi fare due cose soprattutto: leggere molto e scrivere molto.»
Così scrive Stephen King in On Writing. Chiunque scrive sa che deve partire da questo (la conoscenza della propria lingua è qualcosa che dovrebbe essere scontata, ma da quello che si vede in giro, tanto scontata pare non essere): è uno dei primi suggerimenti che si dà a chi vuole seguire questa strada.
Si deve leggere molto perché ci si arricchisce non solo di storie, ma anche del modo in cui vengono mostrate, s’imparano i trucchi usati da altri scrittori per creare dialoghi, descrizioni; un modo di apprendere che vale molto più di tanti sedicenti corsi di scrittura creativa a pagamento.
La teoria, si sa, da sola però non basta: necessita anche la pratica. Per questo occorre scrivere molto, perché così facendo ci si allena e si acquisiscono quegli automatismi che fanno comprendere quando un testo è buono e quando è da migliorare.
Un consiglio che dovrebbe essere sempre giusto, a prescindere da chi lo dà.
Invece le cose non stanno così.
Detto da Stephen King, considerato da molti un maestro in campo letterario, questo consiglio viene ritenuto ottimo. Detto da una persona che non possiede la sua fama (o peggio, nessuna fama), il consiglio spesso viene ritenuto di nessun valore.
Eppure la sua validità è sempre la stessa. Conta davvero allora chi la pronuncia?
In molti casi, sì: una frase detta da una persona invece di un’altra, assume un altro valore. In questi casi è allora d’obbligo dire che l’abito fa il monaco. No, non c’è nessun errore: si è voluto proprio scrivere questo. Si sa che il detto originale è l’abito non fa il monaco, ma nella società attuale vale il contrario. Soprattutto in Italia. La maggior parte delle persone, per una visione distorta della realtà, ritiene che chi si trova in certe posizioni abbia più ragione, più esperienza, conoscenza di altri: non valuta il valore dell’individuo, si ferma al ruolo in cui chi ha davanti ricopre nella società. Quindi anche una cosa sbagliata, se detta da certe persone, diviene giusta.
Complesso d’inferiorità, sudditanza nei confronti di chi ha soldi o potere o ruoli di prestigio: queste sono solo alcune delle cause che fanno comportare in questa maniera. Anche l’idealizzazione ha sua parte di responsabilità: spesso si proiettano all’esterno non solo le parti peggiori di sé, ma anche le migliori, attribuendole appartenenti solo agli altri; una mancanza di fiducia in sé che fa perdere molte cose.
Se si facesse diversamente, ascoltando e sapendo valutare meglio, allora forse il mondo sarebbe un luogo migliore.

La casa del buio

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La casa del buioLa casa del buio è un romanzo scritto da Stephen King e Peter Straub nel 2001 e vede tornare in azione Jack “Viaggiante” Sawyer, protagonista di Il Talismano, solo che questa volta non è più un bambino, ma un adulto che si è ritirato, benché giovane, dalla carriera d’investigatore. Ora vive a French Landing, un piccolo paese tranquillo, almeno fino a quando non comincia a fare la sua comparsa Il Pescatore, un serial killer che rapisce bambini per seviziarli e mangiarli. Ben presto la quiete della cittadina viene infranta e la gente del posto comincia a vivere nella paura e nella psicosi; la polizia brancola nel buio, le indagini non portano a nulla e l’assassino è una figura inafferrabile. Jack, seppur ne avrebbe fatto volentieri a meno, si ritrova coinvolto nel caso e la pista che segue lo porta a indagare su una vecchia casa abbandonata che pochi possono vedere, avvolta da un buio malefico, piena di orrori e legata a un mondo che non è il nostro. Per scoprire l’identità dell’assassino e soprattutto chi c’è dietro di lui dovrà di nuovo avere a che fare con i Territori e con una sua vecchia conoscenza, Parkus. Ma non sarà l’unico mondo in cui dovrà addentrarsi: per salvare una vittima del Pescatore ancora viva si addentrerà in un luogo oscuro dove bambini con particolari capacità sono stati rapiti per servire il Re Rosso e infrangere i Vettori.
La casa del buio è un romanzo gradevole, non certo un capolavoro, la cui lettura è consigliata per chi vuole leggere la conclusione delle avventure di Jack Sawyer e trovare altri dettagli legati alla famosa serie della Torre Nera.

Limiti e paure

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In L’Ultimo Demone c’è un brano, postato anche su Le Strade dei Mondi sotto forma di racconto con il nome di Il Dio del LimiteMuro, un modo per tenere lontana la paura, che parla di muri, di limiti e confini; è messo sotto forma di favola, ha una connotazione fantastica, ma di fantastico, se ci si pensa, ha solo l’aspetto, perché parla di realtà. La realtà che viviamo ogni giorno. Anche se a tanti non piace ammetterlo, ormai la vita delle persone è dominata dalla paura; anche se assume tanti aspetti (la paura degli altri, la paura di perdere il lavoro, i diritti), essa è sempre la stessa e sta divenendo sempre più forte, si allarga a macchia d’olio. Se si osserva si ha sempre meno fiducia negli altri, si guarda con sospetto chi è diverso, spesso lo si vede come una minaccia. E quando ci si sente minacciati, spesso una delle reazioni che si attuano è quella di aggredire. Emblema sotto gli occhi di tutti di tale realtà è il presidente degli Stati Uniti, Trump (ma si potrebbe dire lo stesso di Erdogan per quanto riguarda la Turchia), con i muri fisici e non (basti pensare al muro con il Messico o ai limiti d’accesso per le persone agli Stati Uniti o ai dazi commerciali per quanto riguarda le merci di altri paesi) che vuole ergere. Trump non è un dio, anche se con il modo che ha di fare si può pensare che lui si ritenga davvero tale, ma di certo è un creatore di limiti, oltre che un creatore di paure, tensioni e anche conflitti; il fatto che non sia l’unico, ma che ci siano altri potenti come lui che fanno alla stessa maniera, non fa presagire a nulla di buono. Arroganza, presunzione, mania di controllo, sete di potere, dimostrare la propria superiorità, disprezzo e mancanza di rispetto per gli altri: tutti questi sono elementi che vanno a spiegare questo modo di fare. Se però ci si pensa, questo agire è dettato dalla paura; una paura di fondo che magari non è neppure riconosciuta, ma che ha il controllo dell’individuo, le cui conseguenze si ripercuotono anche sugli altri. Finché ci sarà paura, non ci sarà modo che si possano creare e sviluppare elementi positivi. Questo contesto ben è rappresentato da una frase presente in L’ombra dello scorpione di Stephen King: “L’amore non cresce bene in un posto dove c’è solo paura, così come la piante non crescono bene in un posto dove c’è sempre buio.”

Fantasy: un genere ancora sconosciuto.

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Nonostante tutti i mezzi d’informazione e la diffusione che si è avuta negli anni passati, ancora oggi non si ha del tutto chiaro che cosa sia il fantasy. Purtroppo vige in tanti la mentalità che sia un genere di serie b, adatto a un pubblico adolescenziale; un giudizio questo limitato e si sta ancora andando bene, perché certi danno un giudizio ancora più negativo.
Ho scritto diversi pezzi sia su Le Strade dei Mondi, sia su Fantasy Magazine su questo argomento (qui e qui due articoli dedicati a esso), ma non sono stato certo l’unico. Ma nonostante in tanti si siano impegnati a far conoscere il fantasy, tanti pregiudizi continuano a perdurare.
Per questo, il tempo dedicato alla conoscenza non è mai troppo: suggerisco la lettura dell’articolo scritto da Domenico Russo, Il genere fantastico, questo sconosciuto: oltre a proporre definizioni e storia del fantasy, dà anche una classificazione dei vari rami in cui questo genere si suddivide. Un articolo ben fatto, che dovrebbe chiarire le idee a chi ancora ha dei dubbi sul fantasy e sul fantastico.
Nel caso ci fossero però dei Tommaso che non credono a quanto scritto finché non toccano con mano, allora non resta che suggerirgli di leggere alcuni libri e mostrare che il genere non è roba solo per bambini e adolescenti.

Il Signore degli anelli di J.R.R. Tolkien.

It e la serie della Torre Nera di Stephen King.La Torre Nera, la famosa serie di Stephen King: ottimo esempio di opera fantasy e non solo

La storia infinita di Michael Ende.

1Q84 di Haruki Murakami (qui e qui per saperne di più).

La fattoria degli animali di George Orwell.

Il gabbiano Jonathan Livingston di Richard Bach.

Io sono leggenda di Richard Matheson.

La casa del tempo sospeso di Mariam Petrosjan.

Di letture valide per capire quanto sono validi e di spessore il fantasy e il fantastico ce ne sono tante altre, ma per cominciare i libri sopra riportati vanno più che bene.

Jonathan Livingston e il Vangelo

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Jonathan Livingston e il VangeloJonathan Livingston e il Vangelo, a differenza degli altri lavori che ho realizzato, non è un’opera di narrativa ma di saggistica. L’idea è nata diversi anni fa, quando ancora stavo lavorando a Strade Nascoste – Storie di Asklivion: rileggendo Il gabbiano Jonathan Livingston di Richard Bach è risultato evidente che proponeva lo stesso messaggio del Vangelo. Il messaggio originale intendo, quello di libertà, non quello che alle volte viene piegato per favorire il tornaconto di qualcuno  (non per niente Papa Francesco si sta impegnando perché la Chiesa ritrovi questo spirito, dato che troppe volte si è allontanata da un cammino che ha proposto cose ben diverse da quelle riportate nel Vangelo). Non è stata una cosa pensata o programmata: è qualcosa che è nato sul momento. In poco tempo è stato facile associare i brani di Il gabbiano Jonathan Livingston a quelli equivalenti del Vangelo e sviluppare un breve commento che mostrasse il significato insiti in quei pezzi. La stesura della struttura di come si presenta ora Jonathan Livingston e il Vangelo è stata realizzata in pochi giorni: si trattava di una bozza per sapere in che direzione far andare il progetto. Il progetto però non è stato sviluppato subito.
Perché?
Quello che si ha ora davanti non era stato pensato per essere un libro: doveva servire come spunti di riflessione. Inoltre, nel periodo in cui ho realizzato la bozza, come già scritto, stavo portando avanti altri lavori e quindi tempo ed energie erano impiegate altrove. La verità però è anche un’altra: i tempi non erano maturi per sviluppare approfonditamente Jonathan Livingston e il Vangelo. O forse è più appropriato dire che io non ero maturo a sufficienza per un’opera del genere. Nonostante ci fossero già delle basi, avvertivo che mancava ancora qualcosa per poter realizzare un lavoro soddisfacente e quel qualcosa era esperienza di vita, che avrebbe portato a far sviluppare la consapevolezza necessaria per scrivere un simile libro. Così, solo dopo qualche anno, quando stavo iniziando a dare il via al ciclo di I Tempi della Caduta, ho effettuato la prima stesura. Anche dopo le prime revisioni, mentre aspettavo risposte agli invii di sinossi e lettere di presentazioni, ho continuato ad approfondire e sviluppare certi argomenti trattati: le esperienze fatte, la crescita personale da esse conseguite, hanno portato ad ampliare il lavoro. In questo hanno contribuito anche le letture che ho fatto e quanto scritto sul sito che gestisco, Le Strade dei Mondi: come ho avuto modo di scrivere su Jonathan Livingston e il Vangelo, da tutto e da tutti si può imparare e si può crescere.
Anche se dal numero di pagine può non sembrare, Jonathan Livingston e il Vangelo è stato un lavoro lungo, che ha dovuto saper attendere, perché per poter giungere a compimento era necessario che i tempi arrivassero a maturazione. Tutte le cose hanno i loro tempi, bisogna solo saper aspettare, anche se nella società di oggi, sempre di corsa, che vuole tutto e subito, questo modo di fare è inconcepibile: è uno dei mali della società. Una società sempre protesa al materialismo, che non ne vuole sapere di riflessione e meditazione, di calma, vedendole come cose inutili, delle perdite di tempo. Eppure, se non ci si ferma a riflettere e non si assimilano le lezioni che la vita ha da dare, dandogli il tempo di cui si necessitano, si ripetono errori già visti.
Jonathan Livingston e il Vangelo è questo: la condivisione di riflessioni fatte sulla vita e quello a cui è correlata partendo da due opere che hanno tanto da dare perché sono libri sacri. Sì, anche Il gabbiano Jonathan Livingston può essere considerato tale, dato che un libro è sacro perché ha la capacità d’insegnare e arricchire chi legge le sue pagine, a prescindere del riconoscimento dato da un’autorità religiosa. Un insegnamento valido indipendentemente dal tempo in cui è scritto e dalla nazionalità di chi lo realizza, che permette a una persona di migliorare la propria vita.
Ma l’opera scritta non prende spunto solo da essi: per il suo sviluppo hanno dato il loro contributo altri libri, per non parlare di film, ma anche opere teatrali, canzoni e fumetti. Stephen King, Guy Gavriel Kay, George Orwell, Patrick Suskind, sono alcuni degli autori le cui opere sono servite per mostrare certi aspetti della vita. Almeno, questi sono alcuni di quelli che sono serviti a me: con tutto quello che è stato scritto nel mondo, ce ne sono tanti altri da cui prendere ispirazione e imparare. Ma non bisogna fermarsi ai libri, perché c’è sempre da apprendere, da tutto: piante, fiori, bambini, animali, fiumi, monti. Tutto può aiutare a trovare se stessi. In fondo, Jonathan Livingston e il Vangelo è stato scritto per questo. E far capire che di maestri ce ne sono tanti, a partire da se stessi e che forse è il più importante, e il più difficile, da riconoscere.

(Alla pagina download è possibile scaricare un’anteprima gratuita dell’opera.)