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Labirinto di morte

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Philip K. Dick ha realizzato opere che spesso sono state fonte d’ispirazione per il cinema: Blade Runner (1982), Atto di Forza (1990), Screamer – Urla dallo spazio (1995), Minority report (2002), sono alcuni dei lavori che hanno fatto conoscere il suo operato, che purtroppo non gli ha dato quel tributo economico che avrebbe meritato, come invece accaduto ad altri autori ben meno meritevoli (a esempio, Stephenie Meyer, con un successo ampiamente immeritato, dato che quanto scritto non meritava nulla di quanto ottenuto; ma si sa, alla maggior parte degli esseri umani non piace l’intelligenza, preferisce la mediocrità). Purtroppo, lo scrittore americano è venuto a mancare nel 1982, prima che le sue opere fossero trasposte cinematograficamente, permettendogli di avere quel ritorno economico e quei riconoscimenti che sarebbero stati dovuti.
labirinto di morteMa ciò che ha lasciato è stato qualcosa di notevole: intelligente, visionario, critico. Ha affrontato i temi più disparati e l’ha fatto con una lucidità straordinaria. Come è straordinario Labirinto di morte, romanzo scritto nel 1970.
Con una trama che inizialmente ricorda molto il giallo Dieci piccoli indiani di Agatha Christie (benché sia chiaro fin da subito che si tratta di un romanzo di fantascienza), ci si ritrova immersi in un’atmosfera desolata, decadente, dove i quattordici protagonisti, tutti trasferiti da altri sistemi per loro richiesta, si ritrovano raggruppati senza sapere qual è il loro ruolo, il loro scopo all’interno della piccola colonia. Cosa ancora peggiore, mentre stanno cercando di conoscere l’ambiente che li circonda, uno alla volta cominciano a morire: alcuni di morte in apparenza inspiegabile, altri commessi proprio da loro a causa del sospetto, dell’intolleranza nata dall’esser costretti a vivere nello stesso posto e dalle loro ossessioni.
In un’atmosfera tesa e claustrofobica, dove sembra non esserci nessuna speranza, nessuna via d’uscita, Philip K. Dick affronta la ricerca di Dio da parte dell’uomo, dove si è arrivato a dimostrarne l’esistenza grazie alla tecnologia: una religione governata da quattro entità (Il Demiurgo, l’istanza creatrice; il Distruttore-Di-Forme, la morte e l’entropia; l’Intercessore, che controlla il destino delle persone; Colui-Che-Cammina-in-Terra, manifestazione divina che interviene nelle loro vite), dove la preghiera raggiunge la divinità solo se viene trasmessa elettronicamente e i favori vengono concessi in base alla propria buona condotta.
Ma non è l’unico elemento che viene analizzato: vengono mostrati il vuoto e l’orrore di non sapere che scopo ha la propria esistenza, l’incapacità dell’uomo civile di provare empatia verso i suoi simili e tutta l’insofferenza, l’irritabilità che sfocia in odio quando si è costretti a vivere a lungo nello stesso spazio ristretto, portando a galla i lati più oscuri dell’animo umano, proprio come se fosse una prigionia. E in fondo è proprio questo che è il ripetere sempre uno stesso percorso, come un satellite che non può fare altro che seguire sempre la stessa orbita a causa della forza d’attrazione del pianeta che ha su di lui: una prigione. E proprio come una prigione, logora la resistenza di un uomo e lo incattivisce, lo abbruttisce, portando a galla i suoi istinti più violenti.
Soprattutto, tematica centrale dell’opera è il distinguere ciò che è reale da ciò che non lo è: una profonda riflessione sulla realtà e sui mondi virtuali, a cui spesso si ricorre per fuggire da un presente che non piace, un usare la fantasia per creare dimensioni fittizie migliori, ma che alla lunga si scoprono essere nient’altro che specchi di quello da cui si cerca di fuggire, inseguiti anche lì dalle angosce, dalle ombre che tanto si rigettano. Molto prima dei fratelli Wachowski con la trilogia di Matrix (1999-2003), Dick mostra come l’accettazione di una realtà che non piace e la fuga da essa in mondi fittizi non sono altro che fare una vita da reclusi, dove l’unica possibilità di uscirne risiede nel rifiutarli entrambi, trovandola nella libertà assoluta di un gesto, un’idea, un sogno: la volontà di non essere più in prigione, di qualunque tipo si tratti.
Un monito che Dick rivolge a tutti noi.

Tempo di partire: goodbye, summer

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Non prima che siano impiccati

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“Dobbiamo perdonare i nostri nemici, ma non prima di averli impiccati” : fu Heinrich Heine a proferire questa frase e Joe Abercrombie ne ha preso spunto per dare il titolo al secondo volume della trilogia La prima legge da lui realizzata, le cui vicende riprendono da dove erano state lasciate nel romanzo precedente, Il richiamo delle spade.
L’Inquisitore Glotka, divenuto Superiore di Dagoska, è impegnato nello scovare chi ha fatto sparire il predecessore di cui ora ha il posto, oltre a dover far fronte all’assedio che l’esercito dei Gurkish sta ponendo alla città.
Il Colonnello West è occupato, insieme alle forze dell’Unione, a contrastare l’avanzata degli uomini del Nord guidati da Bethod.
Mastino e il drappello di uomini con cui è fuggito dal Nord, oltre a cercare di sopravvivere, stanno cercando di trovare un modo per farla pagare a Bethod di quanto ha fatto.
Logen, Ferro, Bayaz, Quai, Jezal e Piedelungo sono partiti alla volta del lungo viaggio che li porterà a prendere il potente e temuto Seme.
Tre sono le trame principali (perché due di esse s’intrecciano a formarne una sola) che si dipanano nelle pagine di Non prima che siano impiccati attraverso scontri cruenti, torture spietate, intrighi, sotterfugi, tradimenti. Abercrombie non crea nulla di originale, nulla che non si sia già visto: equilibri di potere, compromessi della politica, efferatezze della guerra. Le sue trame non sono complesse, niente in confronto a quelle create da Steven Erikson nella saga Malazan. Ci sono i tentativi d’infiltrarsi all’interno di una città e minarne le linee di comando. I segreti dei Maghi, gli scheletri nell’armadio del loro Ordine. Le tattiche e le trappole attuate da due eserciti che si fronteggiano sul campo di battaglia. Ci sono portenti e orrori indicibili, resti di meravigliose città abbandonate e andate in rovina; civiltà di cui si ha ricordo solo dagli echi delle storie che si raccontano. C’è la stanchezza che le decisioni, i ruoli che si ricoprono, portano; il logorio di far parte di un sistema, di sottostare alle sue leggi e imposizioni. Elementi a cui si è già assistito più di una volta, un ripetersi del medesimo schema, perché la Storia ha i suoi ricorsi: il fratello combatte il fratello, uomini più piccoli in un mondo più grande, ma l’odio non è diminuito e la pietà non è cresciuta. (1)
Ciò che rende valida la lettura delle opere di Abercrombie non è certo tutto questo, quanto uno stile e un punto di vista duro, cupo, qualcuno può dire cinico e cattivo, quando semplicemente è realistico e mostra le cose per quello che sono veramente. La densità dei punti di vista dei personaggi è profonda, arriva dritta al punto e lascia il segno. La forza dei testi di Abercrombie è la disillusione, quello sguardo disincantato sulle cose e sulle persone che affascina perché non è ipocrita, perché non indora la storia, i personaggi, ma mostra tutto il fango che s’annida nell’animo delle persone, delle autorità, delle istituzioni, dei legami, rendendo tutto più umano, più credibile. E’ proprio questa credibilità che avvicina il lettore al romanzo, che lo fa immergere in quanto ha da raccontare, facendolo sentire legato alle situazioni e ai suoi protagonisti.
Le finestre che apre Abercrombie sul mondo che ha creato possono lasciare l’amaro in bocca perché sono prive di quel sense of wonder che lo stampo classico del genere fantasy generalmente si pensa debba creare, trovandosi invece a fare un confronto con realtà dure e crude. Ma in tutto ciò esiste bellezza, come quella selvaggia di una montagna, che in lontananza ha il fascino della grandezza, della maestosità; se non fosse che l’avvicinarsi fa scoprire come tutto sia solo un ideale, un’illusione e in realtà c’è da faticare e sporcarsi per conoscere per davvero ciò che si ha davanti e rendersi conto di quale sia la sua vera natura. Solo chi è capace di comprendere questo, può apprezzare opere dello stampo della trilogia La Prima Legge e di The Heroes.

1. Non prima che siano impiccati – Joe Abercrombie, pag. 598

Nel mondo d'oggi

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specie in tempi di crisi, si sente di tutto. E più che altro sono assurdità e ingiustizie, dove, per esempio, dopo aver fatto dei danni, si vuole che siano gli altri a pagarne il prezzo.
E’ il caso della politica, dove i governanti sbagliano, ma è la popolazione che deve rimboccarsi le maniche e rimediare.
E’ il caso degli imprenditori, che fatte le scelte sbagliate, fanno riduzioni di personale, licenziando i lavoratori per ridurre le spese: una politica dei tagli che non porterà mai guadagno, dato che solo con l’innovazione e la ricerca può esserci sviluppo.
In questo triste e deprimente quadro, non poteva mancare la Mondadori, che vista la crisi e il proprio indebitamento, dovuti ad aver compiuto politiche aziendali sbagliate seguendo la strada che non puntava sulla qualità e sul rispetto dei lettori, ha pensato bene di chiedere ai fornitori di “restituire” il 5% degli incassi 2013. Una richiesta che mostra, come se ce ne fosse ancora bisogno, la natura di tale case editrice e della sua proprietà, che dovrebbe invece preoccuparsi di restituire tutti i soldi che si è appropriata indebitamente per pagare col denaro pubblico i debiti che possiede.

Venti di guerra?

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Regole

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Che cosa sono le regole?
Sono un modo per dare ordine alla vita della società e dell’individuo, un modo per aiutarlo e cercare di rendere migliore la propria vita. Questo logicamente se sono pensate e realizzate con spirito morale ed etico, restando al di sopra delle parti, facendo sì che la vera giustizia sia lo spirito che le pervade: in questa maniera, le regole sono veramente utili per rendere il luogo in cui si vive migliore.
Diversamente, se si piegano e adattano ai bisogni e alla volontà di pochi, possono trasformare l’esistenza in un macchinario farraginoso che crea intoppi, tribolazioni e soprattutto impoverisce sempre le classi più deboli, posando sulle loro spalle tutti i pesi della società e facendogli pagare sempre il prezzo più pesante del vivere comune. La storia purtroppo ha dimostrato come l’incapacità e l’egoismo dei governanti siano state vere e proprie piaghe per la popolazione: viene in mente il periodo feudale o regni come quello del Re Sole, ma non si deve commettere l’errore che con l’avvento della cosiddetta democrazia le cose siano cambiate. Si tratta solo di un’illusione: sono sempre le classi più povere a pagare il prezzo più alto, mentre i ricchi e potenti non fanno che arricchirsi alle loro spalle, ponendo sulle loro schiene regole sempre più restrittive a cui loro però non si assoggettano, ritenendosi al di sopra della legge.
Ne è triste esempio l’Italia, in balia da un ventennio di un individuo che è entrato in politica per fare leggi a proprio favore, per tutelarsi dalle ripercussioni di azioni compiute che se fosse stato per le regole vigenti prima del suo avvento l’avrebbero fatto condannare. Non solo: invece di cercare di fare il meglio per il paese, ha fatto in modo d’arricchirsi appropriandosi indebitamente dei soldi versati dai cittadini. Non bastassero i danni perpetrati alla popolazione e al degrado del paese, questo modo di fare ha dato il via al berlusconismo, un sistema che deforma la democrazia secondo il quale basta avere i soldi e pagare che tutto è lecito e consentito, si è al di sopra di qualsiasi cosa. Un sistema che deresponsabilizza gli individui, rendendoli irresponsabili, ma anche arroganti e presuntuosi, come se il semplice fatto di possedere denaro li renda degli intoccabili cui è permesso di fare di tutto, senza dover subire le conseguenze delle loro azioni.
Ma senza responsabilità, l’individuo, la società, sono destinate a disgregarsi e a decadere. E come spesso fa l’uomo, si è scelta la via più semplice, più veloce e immediata, quella che non richiede impegno, perché è questo che richiede l’educazione. Quell’educazione che dovrebbe dare il senso morale. Quel senso morale che non è innato, ma che va acquisito attraverso l’esercizio, l’esperienza il lavoro della mente: tutte cose che richiedono tempo e costanza e che oggi sono considerate superflue. Un grosso errore, dato che tale modo di fare va a minare la sopravvivenza della razza umana, provocando danni che portano alla sua scomparsa.
Quello che gli individui hanno dimenticato è che hanno dei doveri verso la propria specie, doveri che li portano a preservarla, mentre non fanno altro che pretendere diritti di cui non conoscono nemmeno il significato e che pertanto non sanno né difendere né goderne.

Natale

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Natale è ancora lontano, è vero, ma perché tale festa possa essere vissuta bene occorre prepararsi per tempo. Questo vale per i regali (che non vanno fatti all’ultimo minuto sia perché è fonte di stress, sia perché a comprarli prima si spende meno, dato che sotto le feste è tutto più caro), ma vale soprattutto come preparazione interiore, come predisporsi a vivere una festa che perché possa essere veramente tale deve trovare un cuore disposto a comprendere la sua vera natura.
Una preparazione che deve essere attenta e meticolosa, specie se si realizza un’antologia dedicata a tale festività, come ha fatto Delos Book per la sua raccolta “365 Racconti” presente nella collana Atlantide, che da diverso tempo ormai dedica a un argomento diverso per ogni nuova uscita. Un’impresa non da poco, se si considera che la selezione, iniziata il primo settembre, mira a essere conclusa entro la fine di tale mese per poter essere in libreria prima del periodo festivo. Molti hanno partecipato e sono stati selezionati (tra i quali io con il racconto Un Natale da Ebenezer Scrooge, che comparirà nel giorno 30 gennaio), ma ancora si è lontani dalla fine: per questo si stanno cercando altri autori che partecipino al progetto, il cui regolamento può essere letto in questa pagina.
E vista la cura e l’attenzione portata per le altre edizioni dell’antologia, il risultato sarà di qualità meritevole, come mostra la copertina che è stata scelta.

365 Racconti di Natale

Agli esseri umani non piace la pace

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La storia dimostra come la vita pacifica non sia tra le opzioni preferite dall’essere umano : non è esistito un periodo nel quale non ci sia stato un qualche conflitto bellico. Gli anni di pace tra una guerra e l’altra sono sempre stati pochi. E più la popolazione mondiale è divenuta numerosa, più le guerre si sono fatte numerose e frequenti.
Odi, faide, volontà di sopraffazione, d’impossessarsi dei beni di altri popoli: spesso i conflitti non sono stato altro che un modo per arricchire i potenti, far sì che le loro ricchezze aumentassero. Ma se per chi era a capo di una nazione si trattava di denaro e potere, perché le popolazioni li hanno seguiti? Senza il loro consenso, nulla i governati avrebbero potuto fare: e allora perché gli sono andati dietro? La gente comune non aveva nulla da guadagnare: rischiava in prima persona mentre chi li guidava se ne stava tranquillo al riparo; subiva ferite, menomazioni, perdeva gli affetti, spesso la vita e quando tutto finiva, se era riuscita sopravvivere, non era più quella di prima, rimaneva segnata per tutta la vita dagli orrori che aveva vissuto.
Spesso si è trattato di condizionamento, di aver voluto credere a parole e ideali che li hanno illusi. Tutto questo è stato dovuto all’ignoranza e alla pigrizia mentale di non farsi domande su quello che stava facendo. Ma di fondo, nell’uomo, c’è una forte dose di aggressività e violenza. Certo, è una parte della sua natura, che c’è sempre stata, che salta fuori in caso di bisogno, quale la fame o la propria sopravvivenza : alle volte è stata coltivata come punto di forza, alle volte è stata controllata per creare ordine, proprio come hanno fatto le società civili.
Ma le cosiddette società civili non hanno reso consapevole l’essere umano della violenza e dell’aggressività, si sono semplicemente limitate a reprimerla. E questo non è un bene.
La maggioranza ritiene che una società come questa, ordinata da leggi, strutture, istituzioni, non possa dare adito alla violenza, che se esiste è perché gli individui sono malati, afflitti da qualche disturbo psicologico. Non si rende conto che invece è la società, con il modo di vivere che ha instaurato, con i suoi diktat, con il suo sfruttamento, risucchiare energia a coloro che l’hanno creata, che non fa altro che far accumulare negli individui l’insoddisfazione, il malcontento, portandoli a vivere sempre più tesi, senza riuscire mai a staccare. Anche quando si trovano a fermarsi, sono così abituati a vivere nella frenesia che non riescono a vivere nella pace, nella tranquillità, debbono essere sempre di corsa, sviluppando un’adrenalina che li rende sempre più aggressivi, intolleranti verso gli altri, facendo divenire il prossimo un parafulmine di tale energia accumulata che deve essere scaricata. Nel modo in cui vivono, gli individui non riescono a rendersi conto di qual è la causa scatenante degli stati che provano: l’unica risposta che riescono a trovare è che se vivono così è colpa degli altri e che per questo gliela devono far pagare, scaricando su di loro tutta la loro aggressività.
L’uomo non riesce a capire che è lui la causa del suo mal, ma ricerca sempre all’esterno capri espiatori per non vedere la realtà, incapace d’accettare che è stato lui a permettere tutto ciò.
E’ così che si arriva a conflitti mondiali come quelli già vissuti. Ma benché essi appartengono al passato, non significa affatto che essi non possano tornare: i loro abiti possono essere diversi, ma la loro natura è sempre la stessa. E se non si sta attenti, il loro ritorno potrebbe non essere tanto lontano, vista la carica di tensione che pervade i popoli e che aspetta solo d’essere liberata.

Wild Cards

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Diversi sono stati gli scrittori che dai giochi di ruolo hanno dato vita a romanzi poi divenuti famosi. Ne sono un esempio Margaret Weis e Tracy Hickman che ispirandosi alle sedute di D&D hanno poi creato il mondo di Dragonlance o Steven Erikson che partendo dall’idea di creare un gioco di ruolo ha poi dato vita alla saga conosciuta in Italia con il nome La Caduta di Malazan (come spesso succede nel nostro paese, traduzione che travisa il titolo originale, dato che il suo reale significato è Il Libro dei Caduti di Malazan).
Naturalmente fare delle sedute avvincenti e coinvolgenti in un gioco non è sufficiente per creare delle storie che vadano bene per un romanzo: la mentalità e il lavoro che occorrono sono completamente diversi. Chi è scrittore o vuole esserlo, partendo con una simile base alle spalle, ne deve essere ben consapevole, pena lo scrivere una storia banale e ridicola.
George R.R. Martin ne era ben conscio quando, dopo due anni passati a giocare a Superworld, decise di trarre una serie di libri ispirati a quell’esperienza, dato tutto il materiale che aveva accumulato in quel lasso di tempo: personaggi, storie che sentiva avevano il potenziale per coinvolgere i lettori e cosa che non era male, fargli anche guadagnare dei soldi, visto che mutuo e tasse dovevano essere pagati.
Coinvolgendo i compagni di sedute (anche loro scrittori) e altri collaboratori, nel 1984 ha dato vita alla prolifica serie Wild Cards, mostrando come sarebbe potuta essere la Terra se una razza aliena, molto simile a quella umana (anche come codice genetico), avesse deciso di testare sulla popolazione un virus capace di modificare il dna e conferire straordinarie capacità a chi era alleato e distruggere o indebolire chi era nemico. Già, testare, perché l’agente patogeno non era ancora stato del tutto messo a punto ed era del tutto instabile e imprevedibile. E’ così che non sopportando la mutazione decine di migliaia di persone persero la vita, mentre altre subirono trasformazioni che le resero deformi, dei veri e propri mostri, costretti a nascondersi e a essere perseguitati dai nat (le persone normali). Tuttavia ci fu chi da questo strano mazzo pescò l’asso, acquisendo straordinari poteri quali la capacità di leggere la mente, volare, passare attraverso i muri, avere una forza straordinaria.
Naturalmente anche per gli Assi, così venivano chiamate le persone con superpoteri, non era tutto rose e fiori: c’era il disprezzo del diverso, la volontà dei governi di usarli per i propri fini. Attraverso il primo libro della serie viene mostrato il clima che si viveva subito dopo la Seconda Guerra Mondiale: le Commissioni, i rapporti tesi con la Russia, i gruppi di giovani che si ribellavano al sistema e alla tradizione, la politica che cercava di controllare e imporre leggi restrittive alle etnie diverse. Il tutto condito con un tocco di fantascienza e supereroismo.
Non è difficile trovare analogie con i fumetti che hanno reso tanto famosi i supereroi: il Dottor Tachyon (l’alieno che ha cercato di fermare la diffusione del virus sulla Terra) che crea una clinica per aiutare chi è stato colpito dal virus, proprio come fa il Dottor Xavier negli X-Men; Jennifer che ha la stessa capacità di Kitty Pryde, tanto per fare alcuni esempi.
Ma se ci si aspetta l’etica, la morale di Spiderman o Superman, si può rimanere delusi: i protagonisti non sono così puri, altruisti come si è visto nei fumetti classici, sono molto umani, vicini alla realtà, con tutte le luci e ombre che fanno parte dell’esistenza. I poteri acquisiti non sempre sono usati per il bene della collettività, ci sono intrighi politici, sotterfugi, furti; quello che soprattutto si vede, specie nel primo volume, è il timore, il disprezzo per il diverso, con leggi restrittive e discriminanti, dove i diversi come lo sono i Joker sono costretti a vivere in uno specifico quartiere riservato solo a loro.
Agli Assi va meglio ma di poco, vista che la loro vita è condizionata, porta degli handicap, come a esempio non avere figli, pena l’alta possibilità di far nascere altri joker, invece di trasmettere le loro capacità. E non sempre i loro poteri si attivano seguendo la loro volontà: alle volte ci sono blocchi mentali da superare oppure hanno bisogno di un tramite per attivarsi, come a esempio fare sesso, fare uso di droghe o uccidere delle persone.
Una trilogia avvincente, con il primo romanzo (L’origine) molto più d’impatto rispetto ai due successivi (L’invasione e L’assalto) che ricalcano copioni già conosciuti (come l’invasore alieno da combattere, un gruppo segreto che lavora per ottenere il dominio della società o una vendetta da perpetrare per un piano mandato in fumo). Martin, curatore di questa saga basata su un mondo condiviso, dà buona prova delle sue qualità di scrittore nei racconti con cui partecipa. Opere queste che andrebbero maggiormente conosciute, forse più della saga di Le Cronache del ghiaccio e del fuoco che tanto l’ha reso famoso: benché di quest’ultima serie la qualità della scrittura sia innegabile, ben fatte siano le caratterizzazioni dei personaggi, portando un pubblico ampio ad apprezzare tale lavoro, si è di fronte a un’opera con qualche elemento fantastico, ma che più che altro narra di intrighi politici e intrallazzi di vario genere, per le quali basterebbe guardare uno dei tanti telegiornali che parlano della situazione politica attuale. Se a questo si aggiunge che Martin ha perso le redini delle trame che ha creato e non sa dove sbattere il capo perché ha messo troppo carne al fuoco, portando a tempi d’attesa sempre più lunghi nella realizzazione di ogni nuovo volume e non avendo idea di quando ci sarà una fine, ci si accorge del decadimento avuto in questo ambito dallo scrittore statunitense: un comportamento che a molti lettori non è piaciuto e che ha portato a criticare la sua professionalità, dato che è evidente che ha fatto il passo più lungo della gamba e ha sopravvalutato il lavoro in cui si è imbarcato scrivendo una saga così lunga. Da questo punto di vista, ma anche dell’uso di elementi fantastici, avrebbe molto da imparare da Sanderson ed Erikson.