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La svastica sul sole

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Che cosa sarebbe successo se la Seconda Guerra Mondiale fosse stata vinta dalle forze dell’Asse, invece che dagli Alleati?
Che naturalmente Germania e Giappone avrebbero dettato loro le condizioni della vittoria, imponendo le loro leggi, il loro credo: questo è il quadro che fa Philip K. Dick con La svastica sul sole (The man in the high castle), romanzo ucronico pubblicato nel 1962, mostrando una versione diversa della storia; una storia che ha preso una direzione differente grazie al riuscito attentato del 15 febbraio 1933 al presidente americano Franklin D. Roosevelt.
Nel libro, l’Italia, nonostante fosse dalla parte dei vincitori, come già accaduto nella Prima Guerra Mondiale, ha avuto una ben misera fetta della torta (se non solo le briciole), a differenza delle altre due potenze che praticamente si sono spartite il mondo intero. Gli Stati Uniti sono stati divisi in tre stati: la costa orientale controllata dai tedeschi, quella occidentale controllata dai giapponesi e gli Stati delle Montagne Rocciose che fungono da cuscinetto tra gli altri due. L’Africa è stata sottoposta a un programma di sterminio radicale e ovunque il pensiero nazista domina, con il governo tedesco che dà una caccia spietata agli ebrei, dovunque essi si trovano: per scampare a tale fato, chi è di questa nazionalità, deve nascondersi e cambiare identità nella speranza di sfuggire ai controlli. La Germania, non contenta del suo dominio sul mondo, sta realizzando razzi per arrivare su Marte.
L’autore però, più che concentrarsi nel riflettere sui sistemi di governo tedeschi e nipponici (diversi su certi aspetti, ma pur sempre dispotici), si sofferma sugli effetti che tali sistemi hanno sui singoli individui, su come i primi mortificano e schiacciano l’io, rendendo la vita una continua umiliazione nell’essere sempre calpestati, sempre costretti a inchinarsi a qualcosa di più grande, a obbedirgli e seguire le sue leggi come se fossero le migliori possibili. Sistemi che basano la loro forza sulla paura, l’obbedienza e l’ignoranza e che fanno di tutto per mantenere tale stato delle cose, mettendo in campo ogni mezzo per difenderlo, cercando di sradicare qualsiasi cosa possa essere un pericolo per le sue basi.
E cosa può esserci di più pericoloso di un libro che faccia riflettere, che insinui il dubbio nella mente di chi lo legge? Discreto, sempre in secondo piano, ma è proprio La cavalletta non si alzerà più, romanzo realizzato da Hawthorne Abendsen, il vero protagonista del romanzo: un libro nel libro, un’opera di fantapolitica che mostra una realtà alternativa a quella di La svastica sul sole e che è quella che i lettori del mondo reale conoscono, ovvero la sconfitta delle Germania Nazista. Un’intuizione avuta da Abendsen grazie all’uso dell’I Ching, il libro cinese degli oracoli, altro protagonista discreto, ma sempre presente del romanzo.
E’ attorno a loro che ruotano le vicende. E’ vero, ci sono intrighi, giochi di potere, sopraffazioni, la voglia di riscatto e di cominciare una nuova vita dei vari personaggi mostrati, ma più di tutti sono i libri i protagonisti.
Perché questa scelta da parte dell’autore?
Perché i libri hanno potere, un potere che i regimi hanno sempre temuto e cercato di distruggere: in essi è insito il potere della parola, capace d’ispirare, di dare speranza e soprattutto di rendere gli individui coscienti e pertanto liberi. Così è da sempre e così sarà ancora, nonostante tutti i tentativi dei potenti di distruggerli e metterli a tacere.

Labirinto di morte

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Philip K. Dick ha realizzato opere che spesso sono state fonte d’ispirazione per il cinema: Blade Runner (1982), Atto di Forza (1990), Screamer – Urla dallo spazio (1995), Minority report (2002), sono alcuni dei lavori che hanno fatto conoscere il suo operato, che purtroppo non gli ha dato quel tributo economico che avrebbe meritato, come invece accaduto ad altri autori ben meno meritevoli (a esempio, Stephenie Meyer, con un successo ampiamente immeritato, dato che quanto scritto non meritava nulla di quanto ottenuto; ma si sa, alla maggior parte degli esseri umani non piace l’intelligenza, preferisce la mediocrità). Purtroppo, lo scrittore americano è venuto a mancare nel 1982, prima che le sue opere fossero trasposte cinematograficamente, permettendogli di avere quel ritorno economico e quei riconoscimenti che sarebbero stati dovuti.
labirinto di morteMa ciò che ha lasciato è stato qualcosa di notevole: intelligente, visionario, critico. Ha affrontato i temi più disparati e l’ha fatto con una lucidità straordinaria. Come è straordinario Labirinto di morte, romanzo scritto nel 1970.
Con una trama che inizialmente ricorda molto il giallo Dieci piccoli indiani di Agatha Christie (benché sia chiaro fin da subito che si tratta di un romanzo di fantascienza), ci si ritrova immersi in un’atmosfera desolata, decadente, dove i quattordici protagonisti, tutti trasferiti da altri sistemi per loro richiesta, si ritrovano raggruppati senza sapere qual è il loro ruolo, il loro scopo all’interno della piccola colonia. Cosa ancora peggiore, mentre stanno cercando di conoscere l’ambiente che li circonda, uno alla volta cominciano a morire: alcuni di morte in apparenza inspiegabile, altri commessi proprio da loro a causa del sospetto, dell’intolleranza nata dall’esser costretti a vivere nello stesso posto e dalle loro ossessioni.
In un’atmosfera tesa e claustrofobica, dove sembra non esserci nessuna speranza, nessuna via d’uscita, Philip K. Dick affronta la ricerca di Dio da parte dell’uomo, dove si è arrivato a dimostrarne l’esistenza grazie alla tecnologia: una religione governata da quattro entità (Il Demiurgo, l’istanza creatrice; il Distruttore-Di-Forme, la morte e l’entropia; l’Intercessore, che controlla il destino delle persone; Colui-Che-Cammina-in-Terra, manifestazione divina che interviene nelle loro vite), dove la preghiera raggiunge la divinità solo se viene trasmessa elettronicamente e i favori vengono concessi in base alla propria buona condotta.
Ma non è l’unico elemento che viene analizzato: vengono mostrati il vuoto e l’orrore di non sapere che scopo ha la propria esistenza, l’incapacità dell’uomo civile di provare empatia verso i suoi simili e tutta l’insofferenza, l’irritabilità che sfocia in odio quando si è costretti a vivere a lungo nello stesso spazio ristretto, portando a galla i lati più oscuri dell’animo umano, proprio come se fosse una prigionia. E in fondo è proprio questo che è il ripetere sempre uno stesso percorso, come un satellite che non può fare altro che seguire sempre la stessa orbita a causa della forza d’attrazione del pianeta che ha su di lui: una prigione. E proprio come una prigione, logora la resistenza di un uomo e lo incattivisce, lo abbruttisce, portando a galla i suoi istinti più violenti.
Soprattutto, tematica centrale dell’opera è il distinguere ciò che è reale da ciò che non lo è: una profonda riflessione sulla realtà e sui mondi virtuali, a cui spesso si ricorre per fuggire da un presente che non piace, un usare la fantasia per creare dimensioni fittizie migliori, ma che alla lunga si scoprono essere nient’altro che specchi di quello da cui si cerca di fuggire, inseguiti anche lì dalle angosce, dalle ombre che tanto si rigettano. Molto prima dei fratelli Wachowski con la trilogia di Matrix (1999-2003), Dick mostra come l’accettazione di una realtà che non piace e la fuga da essa in mondi fittizi non sono altro che fare una vita da reclusi, dove l’unica possibilità di uscirne risiede nel rifiutarli entrambi, trovandola nella libertà assoluta di un gesto, un’idea, un sogno: la volontà di non essere più in prigione, di qualunque tipo si tratti.
Un monito che Dick rivolge a tutti noi.