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Il magazzino dei mondi 2

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Verità

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La maggior parte delle persone non cerca verità che si possono dimostrare. La verità, in molti casi, come ha detto lei, comporta sofferenza. E quasi nessuno vuole soffrire. Quello di cui le persone hanno bisogno è una storia piacevole, che renda la loro esistenza almeno un pò più significativa. E’ proprio per questo che nascono le religioni.

1Q84 – Haruki Murakami

La verità è sempre stata un argomento molto discusso, da sempre l’uomo l’ha ricercata e soltanto in pochi sono riusciti a comprenderla, dato che nella sua semplicità è molto elusiva.
Da questo stato delle cose sono sorte filosofie, psicologie, religioni, spesso in lotta fra loro per dimostrare chi aveva ragione, chi era il migliore. Questo ha portato divisione e confusione tra gli uomini, fratture che hanno allontanato gli uni dagli altri, che hanno portato alla chiusura. E questo con il tempo ha portato all’acuirsi dell’incomprensione, facendo sorgere liti, scontri, violenza psicologica, verbale, fisica. Chi non è della stessa linea di pensiero viene isolato, gli si creano dei muri intorno perché viene visto come un nemico, come qualcosa di pericoloso che va reso inoffensivo, eliminato per salvaguardare la propria incolumità, specialmente psicologica. Perché chi la pensa e vive in maniera diversa può scuotere le fondamenta delle certezze che si hanno, può far sorgere dei dubbi e questi portare a modificare il punto di vista e il modo di vivere; porta, in poche parole, il cambiamento, una delle cose che fa più paura, dato che toglie le certezze, mentre l’uomo vuole la sicurezza che fa vivere tranquilli, senza pensieri, senza patemi.
Tutte le istituzioni, per attirare il maggior numero di persone dalla propria parte (i numeri sono potere), puntano proprio su questo: dare alle persone elementi che rassicurino, facendoli passare per verità.
Ma questa non è verità (come spesso dicono loro, LA Verità), perché verità è qualcosa di sottile, mutevole, in costante evoluzione, che va sempre più in profondità, sempre in crescendo, fino ad arrivare al centro di ogni cosa; quanto vogliono far passare per verità, non sono che filtri, schermi, anestetici, per placare le ansie, le paure delle persone, dare rassicurazioni e chetare quella parte insoddisfatta di sé e della vita.
Da secoli è chiara questa realtà, eppure continua a essere perpetra anche se non dà quello che si cerca, ma solo un’illusione di essa.
E seguendola, le persone non fanno altro che allontanarsi da quanto è veramente importante.

«Vai a pregare?» Giunse inaspettata la domanda.
«Sì, è la mia intenzione.» Rispose sorpreso, non riuscendo a comprendere la stonatura che aveva avvertito nel tono dell’altro.
Periin lo guardò in modo strano. «Non riuscirò mai a comprendere perché la gente vuole rimanere legata a luoghi e sistemi che sanno dare solo obblighi e costrizioni. Soprattutto non capisco perché c’è bisogno d’appoggiarsi a entità effimere e lontane.» Costatò freddamente.
Ghendor non riuscì a capire il significato delle parole. «Il tempio è un luogo dove la gente può trovare pace e serenità, un supporto per i momenti di difficoltà, un rifugio per animi in crisi. Il tempo impiegato a pregare non è speso inutilmente: la preghiera può dare una grande forza a chi crede.»
«La forza non è data da colonne o muri affrescati, non è un luogo considerato sacro a dartela. Sei tu a creartela.» Lo apostrofò duramente Periin. «Il Tempio che tu segui tanto non fa altro che sfruttare il bisogno della gente, facendo credere d’essere indispensabile come aiuto. La condiziona sfruttando le sue debolezze, per tenerla legata a sé, facendole credere che da sola non può farcela. Cerca di tenerlo a mente e non cadere nella ragnatela di questo sistema corrotto: può solo addossarti fardelli da portare.» Gli voltò le spalle, allontanandosi dalla zona del Tempio.
Ghendor rimase perplesso dal veloce scambio di battute avuto con il compagno, avviandosi verso l’imponente porta dell’edificio. Varcata la soglia andò a cercare un angolo lontano dalla piccola folla seduta sulle panche.
Né il religioso silenzio né gli ornamenti sacri furono d’aiuto per raggiungere la tranquillità che stava cercando. I pensieri tornarono alla discussione avuta con Periin.
Come era possibile avere una concezione simile di quel luogo? Tanta gente era stata confortata dal Tempio e l’Ordine era sempre pronto a dare un aiuto a chi lo richiedeva. Come si poteva vedere lati negativi nell’Ordine?
Ma la risposta la conosceva già. Non era l’Ordine ad avere qualcosa che non andava: erano gli uomini al suo interno a macchiarne l’immagine.

Essere il Migliore

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Che cosa significa essere il migliore?
Significa essere il più forte?
Questo non può essere vero, perché non c’è uno forte che non ne esista uno più forte, un continuo superarsi dato che questo è ciò che fa l’evoluzione: ciò che è l’apice oggi rimarrà indietro rispetto a ciò che sarà domani.
Significa essere il primo?
Anche questo può essere contestato, dato che alle volte la bravura non basta, spesso i meritevoli, coloro che hanno dimostrato capacità, si vedono superati da chi è stato aiutato dalle circostanze, dalle coincidenze, o, purtroppo, anche dalle raccomandazioni.
Significa essere perfetti?
No, perché la perfezione è soltanto un ideale che non troverà mai attuazione in mondi creati e dominati da regole. Ma forse un frammento di verità nel tendere verso qualcosa di così grande c’è: è un anelito che spinge a superare i limiti, qualcosa che pochi possono comprendere e che ancora meno possono intraprendere come cammino nella vita che hanno a disposizione.

Un fruscio sull’erba richiamò la sua attenzione. Tre praticanti, due ragazzi e una ragazza, stavano ritti davanti a lui.
Era la terza volta che li incontrava.
Li aveva visti festeggiare il passaggio di livello e affrontare una prova troppo ardua per la preparazione che avevano, per il puro gusto di essere umiliati. E ora lo stavano fissando.
«Buongiorno signore.» Lo salutò il ragazzo dai capelli castani.
«Le siamo di disturbo?» Aggiunse garbatamente la ragazza.
Il terzo membro rimase un po’ in disparte.
«Nessun disturbo, ma non importa che vi rivolgiate a me con tono formale: non siete di fronte al vostro tutore o a un superiore. Reinor basterà.»
Il ragazzo che aveva parlato dopo un attimo d’esitazione riprese la parola. «D’accordo Reinor. Noi vorremmo chiederle se…»
«Quando ho detto di non usare un tono formale, intendevo in tutti i sensi. Puoi rivolgerti a me alla stessa maniera con cui parleresti ai tuoi amici.» Lo interruppe l’Usufruitore.
«Ma c’è stato insegnato di dimostrare rispetto per i superiori di livello.» Precisò il ragazzo.
«Ti hanno insegnato bene, ma con me non è necessario: non sono un superiore e non ho cariche nell’ateneo. Sono qui per approfondire le mie conoscenze e sviluppare le capacità.» Puntualizzò Reinor.
«Per quello che dobbiamo chiedere lo è.» Sottolineò la ragazza.
«Spiegatemi la vostra richiesta.» Aveva già un’idea di quello che volevano.
«Vorremmo che c’insegnassi a usare il nostro Potere, a controllare le nostre discipline.» Questa volta a parlare era stato il ragazzo rimasto in disparte.
Nei suoi occhi Reinor vide un fuoco che riconobbe all’istante e seppe subito della volontà che li aveva spinti a fare quella richiesta.
«Vorremmo che fossi il nostro tutore e ci svelassi la via per aumentare le nostre capacità.»
«Sapete che ai giovani non è concessa la facoltà di scegliere la propria guida. E’ l’ateneo a sceglierlo e voi ne avete già uno.» Reinor ricordò la regola dell’istituzione.
«Lo sappiamo, ma è troppo poco quello che c’è dato; siamo limitati, sentiamo il bisogno di avere di più. Secondo il nostro tutore quello che ci viene insegnato è più che sufficiente e non vuole darci altro. Da ieri siamo però convinti che non è in grado di darcelo. Per questo ci rivolgiamo a te.» Spiegò rapidamente il giovane che aveva parlato per primo.
Reinor capì quel che volevano, avendolo già provato quando era giovane. «Comprendo la vostra richiesta, ma non posso accoglierla. Non sta a me prendere il posto di chi vi è stato assegnato. Vi posso solo dire di impegnarvi al massimo e non accontentarvi mai di quanto raggiunto: cercate sempre di spingervi oltre. Questa è la chiave di riuscita.»
«Non chiediamo niente di tutto questo.» Intervenne la ragazza. «Vorremmo se possibile che c’insegnassi nel tempo libero, al di fuori delle lezioni.»
«Perché fate questa richiesta proprio a me?»
Fu la ragazza a rispondere. «Non abbiamo mai visto nessuno usare il Potere in quella maniera; lo ha anche ammesso il nostro tutore ed è una cosa che non fa mai. Per questo ti riteniamo la persona adatta.»
«Non è la risposta giusta alla domanda. Perché fate questa richiesta a me?»
«Perché vogliamo diventare i migliori.» Fu il terzo membro del gruppetto a rispondere.
Nella sua voce Reinor non percepì alcuna incertezza.
«Sapete cosa state chiedendo?» Il suo sguardo indagatore non li lasciò un attimo. «Che cosa vi spinge a volerlo diventare?»
Il primo ragazzo che aveva parlato si schiarì la voce. «Vogliamo essere i migliori per dimostrare quello che valiamo veramente, per non avere più nessuno che possa ritenersi superiore a noi.»
«Per chi lo fate?» Proseguì Reinor deciso.
La domanda li spiazzò, inaspettata e incomprensibile.
«E’ una cosa personale.» Interloquì la giovane. «Lo facciamo per noi stessi.»
«Non è una motivazione sufficiente.» Spiegò con calma Reinor. «La difficoltà per conseguire questo stato è nel riuscire a sopportare il prezzo per il suo conseguimento; ed è un prezzo che può spezzare anche i più forti. Per questo come motivazione occorre qualcosa di più grande della soddisfazione personale, del senso di rivalsa o di te stesso. La motivazione deve essere qualcosa al di sopra di tutto, niente gli deve essere anteposta: tutto deve esservi sacrificare. Deve essere una dedizione speciale.» Si fermò osservando i ragazzi.
«Cosa intendi per sacrificare tutto?» Domandò il ragazzo dai capelli castani.
«Divertimenti, sentimenti, legami, gioie: qualsiasi cosa ostacoli l’obiettivo. Ci deve essere solo quello. Devi capire che ti sarà richiesto molto per perseguire questo scopo. Sarà una vita di sacrifici e non finirà mai perché ci saranno sempre sfide e limiti da superare: è questo il destino cui si va incontro se si vuole essere il migliore. Bisogna esseri pronto a percorrere questo cammino da soli perché nessuno potrà aiutare. Nessuno potrà capire le ragioni dell’intraprendere tale strada: quando sei o vuoi diventare il migliore sei in una dimensione lontana dall’ordinario, dalle sue ragioni, dai suoi bisogni. Sei come un falco: voli alto, al di sopra degli altri. Ti vedono, ma non possono conoscere i tuoi pensieri. E’ così che si diventa intraprendendo questa strada.»
I ragazzi erano turbati, la risposta avuta inaspettata.
Reinor seppe ciò che provavano: non erano molti quelli disposti a fare una tale scelta. «Siete sicuri di quello che chiedete?»
«E’ una scelta difficile.» Disse la ragazza. «E anche molto triste. Perché ci sono state delle persone che hanno preso questa decisione, sapendo qual era il prezzo da pagare? Ne erano consapevoli?»
«Lo erano.» Asserì con calma Reinor.
«E allora perché?» Continuò la ragazza non riuscendo a capire.
Sul volto dell’Usufruitore si dipinse una dolcezza che di solito non lo caratterizzava. «I motivi possono essere differenti. Per alcuni è l’unico modo di vivere, per altri è la loro natura, per altri ancora sono le circostanze a spingerli su questa strada. Come ho già detto, non lo fanno però per se stessi. Anche se non lo capiranno, o non lo ammetteranno quel che fanno è in favore degli altri: per essere una guida o un aiuto. Spesso sono pragmatici, appaiono estranei e insensibili, non si riesce a comprendere quel che fanno. A loro non interessa che la gente li capisca: si sono distaccati dalle cose del mondo, anche dalla comprensione. Sono pronti a tutto pur di raggiungere il fine.»
La rivelazione data aveva avuto un duro impatto sui tre: non erano pronti ad accettare quella verità. Non sarebbe stata la loro strada. Forse se n’erano resi conto anche e questo stava minando la loro sicurezza, quando ancora ne avevano poca.
«Tuttavia questo è un fatto che si rivela solo con il tempo: non è il caso di occuparsene adesso. Guardiamo al presente. Avete ragione sul fatto di volere di più da quello che vi è insegnato e sulla limitatezza dell’istruzione ricevuta. Occorre sopperire e cercare di migliorare le vostre capacità.» Non mancò di notare che in loro stava ricomparendo la voglia che aveva visto all’inizio dell’incontro. «Faremo così: domani, dopo le vostre attività quotidiane, ci ritroveremo all’arena, dove mi mostrerete le vostre capacità. Dopodiché vi darò dei suggerimenti per colmare lacune ed eliminare i difetti. V’insegnerò anche qualcosa di nuovo; poi vi consiglierò la lettura di volumi che riterrò adatti all’inclinazione mostrata. V’indicherò la direzione da prendere, ma toccherà a voi seguirla. Conoscete il detto “ sii l’unico maestro di te stesso?”» Aspettò che facessero cenno di sì. «E’ quello in cui credo e così insegno. E’ duro da seguire all’inizio, ma alla fine è quello che dà maggiori risultati. Vi sembrerà che vi lasci a voi stessi, ma imparerete a capire che vi sto aiutando. Vi può andare bene?»
I ragazzi erano raggianti, la durezza della scoperta avvenuta poc’anzi lasciata alle spalle, i pensieri già rivolti al domani. Reinor rinunciò a contare le volte in cui lo ringraziarono. S’avviarono agli alloggi pieni d’esultanza, lasciandolo di nuovo con i suoi pensieri. Sorrise mentre li vide allontanarsi a passo spedito, ridendo e scherzando, lieto per la loro spensieratezza.
I ragazzi si erano rivolti a lui in seguito alla dimostrazione avuta il giorno precedente e al discorso che aveva sentito proferito. La richiesta che gli avevano fatto era stata rivelatrice: volevano essere i migliori e consideravano che per esserlo occorressero gli insegnamenti del migliore. Per loro era lui.

Boria, Sopravvalutazione, Umiliazione

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Da sempre, in qualsiasi epoca e luogo, avere anche solo un minimo di potere fa provare a molti un senso di superiorità e disprezzo verso gli altri, come già visto.
La boria non porta mai nulla di buono: fa sopravvalutare le proprie capacità, non facendo vedere i propri limiti e, cosa peggiore, non facendo prendere in considerazione che se ne possano avere.
Un atteggiamento che porta a sfruttare la posizione, la carica che si ricopre, per umiliare chi sta un gradino più in basso. E a dimenticarsi che si viene trattati nello stesso modo in cui si trattano gli altri (lo insegna anche una preghiera molto nota: rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori): la vita rende sempre quello che si fa, alle volte con gli interessi; prima o poi arriva il momento di rendere conto di quanto fatto (chi ha orecchi per intendere, intenda). Senza dimenticare che questa gran maestra non fa che rammentare che non c’è uno forte, che non ne esista uno più forte.

Una serie di puntini neri si muoveva a settentrione. Focalizzò l’attenzione su di loro, lasciando che la sua energia fosse permeata dalla sensazione d’espansione, convogliandola sul senso visivo.
Istantaneamente l’immagine divenne più grande e nitida: un gruppo di giovani al cospetto del loro tutore. Mantenendo attivo il Potere lo utilizzò per amplificare l’udito.
«Il vostro obiettivo è centrare e polverizzare i bersagli posti alla distanza di venti metri.» Udì chiaramente la voce dell’istruttore come se fosse al suo fianco.
«Avrete un solo tentativo, ma, date le vostre umili origini, dubito che sarà un successo. Anche se di questo non può esservi imputata colpa: non tutti possono avere la fortuna di nascere in una famiglia nobile nella quale scorrono i geni del Potere.»
Un sorriso di soddisfazione comparve sul volto di Reinor.
Non impiegò molto a raggiungerli e quando fu nei loro pressi s’accorse che la prova era già terminata: le pietre che fungevano da bersaglio erano scheggiate e rotolate lontano dalla posizione originaria. L’obiettivo richiesto non era stato finalizzato.
Lo sguardo ricadde sugli esaminandi ed ebbe spiegato perché la prova non era stata superata: erano troppo giovani per superare un esame del genere. Riconobbe i ragazzi che pochi giorni prima aveva visto festeggiare nel prato.
Spostò lo sguardo sul tutore.
«Come volevasi dimostrare, avete fallito. Non c’era da aspettarsi niente di più da gente della vostra risma; avete dato dimostrazione del valore delle vostre umili origini. Ricordatevi sempre questo giorno; per quanto v’impegnerete non raggiungerete mai il livello di chi ha nobili origini. Portategli rispetto: sono esseri superiori.» Asserì sprezzante, guardando ogni singolo praticante, soffermandosi su uno in particolare. «Qualcosa da ribattere? Ricordati che non solo sono un nobile, ma che ti sono anche superiore di grado e sei sotto la mia guida: è da me che dipende il tuo giudizio e il tuo avanzamento, oltre la tua permanenza all’ateneo.» Lo squadrò dall’alto al basso. «Rammenta che cos’è l’umiltà: non raggiungerai mai i miei livelli.»
«Ma se alla sua età non eri capace nemmeno di far levitare una piuma.» La voce di Reinor li fece sobbalzare.
«Chi osa proferire simili parole?» Sbottò il tutore voltandosi a guardarlo.
«Io e parlo con cognizione di causa. Chi si loda tanto delle sue capacità, vuol dire che sa di essere limitato e cerca d’aumentare il proprio valore con le parole.» Lo fronteggiò Reinor.
Il tutore si levò tronfio della sua carica. «Sei straniero per non conoscere che io sono Cazias, allievo e nipote del grande Galtias.»
“Deve essere un vizio congenito della città.” Pensò Reinor.
«Non conosco il tuo maestro e quindi non posso giudicarne il valore, né posso assegnargli il nome di grande. Ma se è stato grande, questo non significa che lo sei anche tu. Se come dici è stato così, allora da lui non hai saputo apprendere quanto ha insegnato. Ostenti troppo il fatto di essere suo discepolo; è la prima immagine che presenti quando ti trovi al cospetto di altri e lo fai per nascondere quel poco che sei.» Continuò senza fermarsi. «In questa maniera tu stesso ammetti che il tuo maestro era grande e tu sei niente, solo un’ombra, una brutta copia. Della tua guida non hai capito che ha cercato d’insegnarti come, trovata la propria via, si possono raggiungere grandi livelli. Hai travisato l’insegnamento, credendo che con il suo metodo potessi raggiungere la grandezza che ostenti. Quello che ti ha dato è andato sprecato: sei un fallimento come uomo e discepolo.» Un luccichio comparve nei suoi occhi. «Se il tuo maestro è stato grande: altrimenti rispecchi quello che era.»
Il tutore si fece livido di rabbia. «Sei bravo a parole, ma lo sei altrettanto nei fatti? Io l’ho dimostrato, tu puoi fare altrettanto?» Disse indicando il mucchietto di detriti a una trentina di metri dal punto in cui si trovavano. «Ragazzo va a sistemare un bersaglio nel punto dov’era quello che ho distrutto.» Ordinò a uno dei praticanti del gruppetto.
«Non ce n’è bisogno: il bersaglio è già presente sul terreno.» Lo fermò Reinor.
«Un po’ poco per dimostrare le proprie capacità non credi?» Lo derise il tutore. «Utilizzare i bersagli dei praticanti è misera cosa per un Usufruitore.»
Reinor non lo prese in considerazione, il Potere che fluiva in lui, espandendosi e crescendo come un mare in tempesta. Levò il braccio destro, il palmo della mano rivolto verso l’obiettivo. La terra tremò, ci fu rumore di roccia che si spaccava in una violenta esplosione. Una pioggia di detriti bucò la nube di polvere che si era alzata. Quando tornò visibilità la roccia grossa come un bue a una cinquantina di metri era frantumata per più di metà.
Gli astanti erano a bocca aperta per la dimostrazione di Potere. Si ripresero quando un brusco cenno del tutore fece segno di rientrare; impettito nelle sue vesti guidò la colonna d’allievi.
«L’umiltà è una gran cosa per chi sa usarla. Ricordalo se vuoi davvero essere il migliore.» Disse Reinor.

Lei non sa chi sono io!

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Quante volte si è sentita questa frase. Una frase che accompagna un atteggiamento borioso, prepotente, superbo, dove basta ricoprire anche solo una piccola carica all’interno della società, avere un minimo di potere, per avvertire un senso di superiorità e disprezzo nei confronti degli altri, considerandosi esseri superiori, capaci di potere disporre e trattare gli altri come si vuole.
Tutto sempre a causa di quella gran brutta bestia che è l’Ego, che costantemente nella realtà, nel grande come nel piccolo, non perde occasione per far sentire la sua voce, per voler sopraffare e denigrare. Gli attuali politici e imprenditori sono esempi lampanti di questo modo di vivere ed essere, sempre pronti a sottolineare e a dare dimostrazione della loro forza, del loro potere per poter sentirsi dei vincenti e poter dire di fronte agli altri di aver vinto su qualcuno.
Vincere, perdere, che differenza fa? Se si riflette su questa battuta pronunciata da Manny nel film A trenta secondi dalla fine, avendo davanti le immagini della scomparsa di un giovane come Marco, della tragedia abbattutasi su migliaia di persone come è avvenuto in Turchia, si capisce la profondità della verità racchiusa in poche semplici parole.
Ma l’uomo non impara mai le lezioni della vita, continua a ignorarle e dimenticarle, dimentico che il proprio valore non dipende da cariche, etichette affibbiate da altri, ma da quanto riesce a far emergere dalla propria interiorità. E per questo incorrerà sempre in qualcosa che gli farà sbattere la faccia contro tale realtà, impartendogli duri insegnamenti.

Raggiunsero una piccola piazza che fungeva da cortile a un tempio dell’Ordine. Le bancarelle di frutta e verdura erano assiepate lungo due lati dello spiazzo, con la gente che vi si accalcava attorno. I cani s’aggiravano furtivi attorno al tavolo delle carni, attendendo il momento opportuno per sgraffignare gli insaccati e le bistecche distese.
Si lasciarono alle spalle il vociare del mercato, la slanciata sagoma del Palazzo del Consiglio e del Senato ben visibile davanti a loro. Fermatisi a un piccolo emporio acquistarono abiti nuovi e si cambiarono; necessitavano di un bagno caldo per rimettersi in sesto, ma per quello avrebbero dovuto aspettare.
Dopo la breve sosta si tuffarono nuovamente nel traffico cittadino.
«Fate largo!» risuonò un grido alle loro spalle.
La folla si fece da parte, lasciando libera un’ampia fetta di strada.
Un plotone di trenta cavalieri disposti in tre colonne avanzò impettito nell’uniforme viola bardata d’argento, con il simbolo dorato del grifone impresso sul petto.
«Vecchio, dacci strada!» Intimò l’uomo al centro della prima fila del plotone all’uomo che stava trainando un carretto carico di vettovaglie e cassette di frutta.
Il vecchio tentò d’accelerare il passo e raggiungere la piazza poco distante, ma lo sforzo gli costò l’equilibrio, trascinando con sé nella caduta il carretto, sparpagliando a terra quanto trasportava. Ci fu un tramestio di pentole e coperchi che cozzavano al suolo: l’uomo giacque immobile in mezzo alle sue cose, attorniato dal mutismo sceso sulla folla. Si sollevò sulle braccia, osservando gli effetti personali sparpagliati ovunque, posando lo sguardo sui cavalieri.
«Togli immediatamente il casino che hai combinato.» Sibilò la guardia.
L’uomo si arrabattò come meglio poté, ma l’agitazione gli fece perdere metà della roba che raccoglieva.
Ghendor andò in suo soccorso. Con calma lo aiutò a rimettere in sesto il carretto.
Balbettando i propri ringraziamenti il vecchio fece per riprendere la sua strada.
«Fermo dove sei!» Intimò la guardia. «Non puoi andartene.»
Il vecchio si guardò attorno allibito e terrorizzato. «Non capisco mio signore.» Balbettò.
La guardia lo squadrò dall’alto della sua posizione. «Sei in arresto.»
Il povero uomo sbiancò in volto e non fosse stato per il supporto offerto da Ghendor, sarebbe scivolato al suolo.
«Mio signore, mi scuso per il disturbo arrecato, ma non vedo il motivo di essere messo in prigione.»
Il capitano del plotone lo fissò sprezzante prima di far cadere lo sguardo sulla bardatura del cavallo: il simbolo della casata era macchiato da uno schizzo di pomodoro. «Hai infangato il simbolo del mio signore, oltraggiando la sua nobiltà: non è un reato sufficiente per punirti?»
Ghendor prese parola. «Non voleva certamente oltraggiare il tuo signore o mancargli di rispetto, cavaliere. E’ stato un semplice incidente.»
«Straniero, vattene per la tua strada.» Intimò seccamente.
«Me ne andrò quando potrà farlo anche lui.» Rispose quieto Ghendor.
«Stai ostacolando il corso della legge.» Asserì duramente il capitano. «Arrestate anche lui.» Fece cenno a chi lo affiancava di eseguire l’ordine.
Le guardie scesero dalle cavalcature, ma fatto qualche passo si trovarono la strada sbarrata.
«Scostati, dobbiamo eseguire l’ordine.» Intimarono alla figura che gli stava davanti.
«Per arrestare delle persone occorre che abbiano commesso un reato e tale condizione non s’è verificata.» Disse senza scomporsi Ariarn.
«La legge contempla che sporcare o insozzare il simbolo di un nobile è reato e quindi punibile.» Declamò con sicumera il capitano.
«La legge spiega anche che per essere considerato reato, è necessaria la volontarietà e qui non ce n’è traccia.» Rimbeccò Ariarn.
La folla mormorò, un brusio sommesso che danzò insistente nell’aria. Il capo delle guardie cominciò a provare un certo disagio, ma la presenza dei sottoposti gli diede coraggio.
«Appare evidente che sei straniero. Hatieven poggia le sue basi sulla nobiltà: da essa trae la sua forza e le sue regole. E la legge che vige nella città è al servizio dei nobili.»
«Affermazione che non appare in alcun decreto. La legge è al servizio di tutti quelli che sono nel giusto; serve la giustizia, non i nobili. Loro devono essere al suo servizio, non il contrario.»
Il brusio della folla si fece più insistente, costringendo il capitano ad alzare la voce. «La nobiltà ha creato la legge per dare un ordine al mondo. Perciò ne è al di sopra.» Tuonò con foga.
Un’espressione dura comparve sul volto di Ariarn. «Nessuno è al di sopra della legge.» Proclamò granitico. «Non sono stati i nobili a crearla. Se abbiamo un ordine civile basato su leggi è perché c’è stata gente che ha lottato e si è sacrificata perché potesse essere costituito. I nobili sono stati capaci solo di coglierne i frutti.»
Il cavaliere era diventò livido in volto. «Per l’ultima volta, fatti da parte. Così abbiamo deciso, così faremo.»
«Io ve l’impedirò.»
Stanco della situazione, il capitano decise di porre fine alla farsa, scendendo da cavallo e dando ordine ai suoi uomini di condurre via i tre, ricorrendo alla forza se necessario.
La mano di Ariarn si portò all’impugnatura della spada assicurata alla schiena, bloccando le guardie: un conto era arrestare un vecchio, un altro era affrontare un uomo pronto a combattere.
Il capitano avrebbe voluto obbligare i sottoposti a eseguire l’ordine, ma anche lui non era pronto a quell’eventualità, ritrovandosi spiazzato e incapace d’agire. La presenza della folla gli fece però riprendere il controllo.
«Avete fatto la vostra scelta: ora passerete dei guai.» Alzò la mano in modo che tutti potessero sentirlo. «Farò un esposto alle autorità cittadine e subirete la punizione che meritate, specialmente tu.» Puntò il dito contro Ariarn. «Avete fatto male a intralciare una casata nobiliare potente come la nostra.»
Ariarn non si fece intimorire dalla minaccia. «Non sarei troppo sicuro fossi in te. Forse la casata che servi non è influente come credi: potresti scoprire che non è in grado di superare il potere della giustizia. La fedeltà al tuo padrone è ammirevole, o si tratta d’opportunismo?» Il capitano avvampò d’ira. «Questa te la sei voluta.»
Fece per prendere la spada, stringendo una mano invece dell’elsa. Si girò di soprassalto, ritrovandosi a fissare due occhi neri come la notte.
Con uno strattone il capitano cercò di liberarsi dalla morsa ferrea. «Non sapete quello che fate. State intralciando la legge.» Sibilò minaccioso.
«E tu stai intralciando noi: il che è molto peggio.» C’era un sorriso sulla faccia dell’uomo, ma il cavaliere si sentì gelare la schiena dalla durezza degli occhi.
«Uomini!» Furono chiamate le guardie in aiuto.
Subito accorsero, portando le mani alle armi, ma per quanti sforzi facessero le spade sembravano intenzionate a rimanere nei foderi. I soldati si contorsero nel tentativo di estrarle, imprecando con rabbia.
«Pessima scelta.» Asserì Reinor passando accanto a loro. «Ora lascialo.» Disse mentre superava Periin. Senza una parola il compagno lasciò libero il cavaliere.
«Non abbiamo intenzioni di creare disordini, come d’altronde quest’uomo.» Disse l’Usufruitore riferendosi al vecchio. «Andremo per la nostra strada e così voi.»
Il capitano delle guardie rimontò a cavallo, seguito dai suoi uomini.
Lo scalpiccio dei cavalli si perse sul selciato, mentre la folla riprendeva a fluire. Sguardi pieni di stupore e ammirazione si posarono sui quattro fermi sul ciglio della strada.
«Non so come ringraziarvi.» Il vecchio non trovava le parole per esprimersi su. «Se c’è qualcosa che posso fare, non avete che da chiedermelo.»
«Non c’è bisogno di tante cerimonie per così poco.» Sorrise Ghendor.
«Ma vi siete esposti alle ire dei nobili.» Il vecchio era palesemente preoccupato.
Ariarn gli appoggiò una mano sulla spalla. «Non succederà niente.» Lo tranquillizzò. «E’ tempo di riprendere il cammino. Ti auguro una buona giornata.» Sorrise prima di voltarsi e avviarsi lungo la strada.
Lerida gli si affiancò. «Siete impazziti tutti quanti? Sapete quello che avete fatto?»
«Quello che era giusto.» Rispose tranquillamente Ariarn.
«Ma sapete a chi siete andati contro?» Continuò assillante Lerida. «Quella era la guardia personale della famiglia Krandian, una delle casate più influenti e potenti di Hatieven.»
«E allora?» Ariarn non dette peso alla notizia.
«Come sarebbe a dire?» Sbottò la donna. «L’incidente avuto può causarci non pochi problemi, te ne rendi conto?»
«Non ci darei peso. La nostra attenzione va ad affari più importanti.»
Alla sbigottita Lerida non restò altro che lasciar cadere la questione.

Frammenti di mondo 5

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Khendol era una cittadina di secondaria importanza, lontana da punti strategici e dalle grosse rotte commerciali; tranquilla, quasi riservata. Non aveva nulla a che vedere con lo splendore e la magnificenza della grande Hatieven. Nessuna svettante torre visibile a miglia e miglia di distanza, nessun bagliore di bianchi edifici, né titaniche barriere difensive: soltanto mura dello stesso colore della terra e tegole rossastre delle torri di qualche nobile locale. Una semplice porta merlata con ai fianchi due massicci torrioni era l’unico accesso alla zona abitata.
Le sentinelle di ronda sugli spalti osservarono l’arrivo dei cinque, disinteressandosi di loro quando superarono la porta d’ingresso.
La città li accolse con semplicità e familiarità. Piccole vie ciottolate scorrevano tra basse case in sasso, mentre dai balconi in legno facevano comparsa vasi di fiori e pianticelle. Dai cunicoli sopra i tetti rossi si levavano pennacchi di fumo che si disperdevano nel cielo azzurro.
Non c’era l’atmosfera altezzosa e gloriosa di Hatieven, ma soltanto la quotidianità fatta di lavoro, chiacchiere tra comari e schiamazzi di bambini. A Ghendor ricordò il paese nativo, ora così lontano nella distanza e nella memoria.
Reinor prese la testa del gruppo, guidandoli attraverso le strade irregolari di Khendol, conducendoli verso il centro della città. Il rumore cittadino li abbandonò, attraversando una zona senza botteghe e banchetti del mercato. L’ambiente circostante cambiò, con le abitazioni che presero a essere più raffinate: battenti dorati scintillavano su robuste porte di quercia recanti intarsi di foglie, gialli davanzali erano sovrastati da ampie finestre con le tende tirate.
Attraversarono una piccola piazza con una fontana di marmoree figure leonine, imboccando la strada che scorreva sul fianco destro del tempio; si fermarono dinanzi al piccolo cancello di ferro battuto della penultima casa della via. Un’abitazione non molto grande a due piani, con un giardino ordinato, disadorno di aiuole e piante ornamentali, con un vialetto di sassi tondeggianti nel mezzo.

Informazione, media, rete e scrittura

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La puntata di Report trasmessa ieri “Il prodotto sei tu” ha mostrato cosa si nasconde dietro la rete e come i dati delle persone vengono usati, una vera e propria fonte di profitto e potere: Facebook, Twitter sono solo alcuni dei mezzi con cui gli individui vengono osservati, studiati e conosciuti. Maschere del sistema manipolate da politici, magnati, potenti per manipolare l’informazione e impedire che venga pubblicata liberamente, ma piegata ai propri voleri. Siti oscurati, profili sospesi o cancellati: non sono errori tecnici, ma azioni mosse dalla volontà di qualcuno che non vuole che certe notizie vengano divulgate.
Ancora una volta George Orwell con 1984 in anticipo di anni ha mostrato la realtà che si sta vivendo. Ne avevo già parlato in un post precedente.

Una nota sulla trasmissione e su quanto appena detto. Tutti sanno il preciso e attento servizio d’informazione di Report, una voce che mostra la realtà quando molti vorrebbero ammantare i fatti d’illusione e falsità per piegare la verità ai propri fini: le parti colpevoli di ciò, sempre ricchi e potenti, cercano di mettere a tacere questa voce con denunce. Una delle ultime è quella di Tremonti: la sentenza sull’esposto del ministro contro la puntata incriminata obbliga la trasmissione a fare una puntata d’elogi verso il lavoro svolto dopo averlo giustamente criticato, pena la pagare una sanzione.
Dunque, in Italia si può criticare purché dopo che si è detto che una cosa è sbagliata si ammetta che è anche giusta.
Tipica contraddizione e ingiustizia del sistema attuale italiano. Si deve stare zitti e far finta di niente, dire che tutto è buono e giusto quando invece è un morbo dilagante che distrugge ogni cosa.
Se una cosa è sbagliata va denunciata, giudicata e condannata: non si deve lasciar correre nulla.

Dalle notizie della televisione, a quelle della rete: argomenti di portata minore, ma più soddisfacenti e arricchenti, dato che sono fonti di spunti e riflessione.
Val e Licia Troisi parlano di scrittura e sono tante le domande che si possono porre su questo argomento; tra le tante ci sono se scrittori si nasce o si diventa (interessante il punto di vista che condivido di Luca Tarenzi nell’intervista a Fantasy Magazine), qual è la tecnica migliore da usare, se i manuali di scrittura sono validi.
Gli argomenti sono tanti e tutti interessanti. Come Licia penso che ogni individuo debba trovare il proprio metodo per scrivere e che ogni evento, incontro, persona possa essere fonte d’ispirazione per un’opera.
Certo, occorrono delle solide basi per intraprendere il percorso dello scrittore.
Innanzitutto leggere molto, di ogni genere, così da variare la propria cultura e avere differenti punti di vista: aiuta nell’andare in profondità negli argomenti che si vuole affrontare.
Avere delle buoni basi nella grammatica e nella costruzioni delle frasi, oltre che possedere un ampio e vario vocabolario da arricchire in continuazione.
Saper dar ascolto al genio, all’intuizione, all’ispirazione, ma saperli anche imbrigliare e organizzare perché quanto di buono c’è in un’idea non sia caotico o vada perduto: bisogna sapersi organizzare.
Ma soprattutto occorre una pratica continua, un allenamento quotidiano dove si affina la tecnica e la capacità costruttiva. E’ la costanza, la volontà di fare bene che danno buoni risultati.
L’esperienza può fare la differenza e la si acquisisce solo facendo, perché non basta sapere, bisogna applicare. La teoria è utile solo se trova riscontro nella pratica.
E’ quanto ho potuto costatare nella mia esperienza prendendo di nuovo a lavorare sulla prima opera che ho prodotto (e che ho finito di revisionare dopo un lavoro di editing di due mesi), di cui utilizzo dei brani per mostrare come il fantastico possa essere un mezzo di crescita.
A quattro anni di distanza dalla sua conclusione, con l’esperienza di altre tre opere su cui ho lavorato, insieme allo scrivere sul sito, racconti e articoli, la nuova revisione ha portato una capacità di sintesi e di forma che hanno reso più scorrevole e fluido il romanzo.
Costatare che quanto fatto per passione e interesse ha portato a migliorarsi è una soddisfazione che può essere comprensa da chi fa e vive lo stesso cammino. Certo, l’impegno comporta fatica e tempo, mà da i suoi premi, rende persone migliori. Per niente non si ottiene niente e i guadagni facili si perdono altrettanto facilmente: non bisogna dare ascolto a personaggi come il Gatto e la Volpe di cui è piena la società, dei furboni che se seguiti portano solo ad avere un pugno di mosche in mano.
Entrate per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione; quanto stretta invece è la porta e angusta la via che conduce alla vita!
Era uno degli insegnamenti di Gesù: un insegnamento antico che trova attuazione in tutti i tempi. L’impegno, la volontà danno sempre buoni frutti; le vie facili e veloci sono solo fuochi di paglia d’un istante, che lasciano solo cenere.
Questa è la ricerca, la crescita: un non arrendersi di fronte a niente, ma continuare ad andare avanti, pronti a saper cogliere qualsiasi insegnamento, a ricominciare per raggiungere la meta. E solo se si ha volontà ce la si può fare.

Ciclicità

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La vità delle persone è fatta di cicli, periodi che iniziano e che terminano: infanzia, adolescenza, età adulta, vecchiaia. Il termine di un ciclo non è la fine di tutto, ma un mutamento che porta allo stato successivo.
Così nel piccolo, così nel grande.
Alla stessa maniera è per l’umanità, per la sua storia: passa attraverso stadi d’evoluzione. Preistoria, età antica, medioevo, rinascimento, età industriale.
Come si può osservare ci sono molte somiglianze tra l’uomo e l’umanità, cambiano solamente i tempi in cui si sviluppano, ma sono lo stesso periodo in cui un elemento si svilluppa e cresce.
Ma come ogni cosa, raggiunto il punto più alto, dopo l’ascesa inizia la discesa. E’ un dato di fatto, che la saggezza di chi ci ha preceduto ha tentato di trasmettere. A ogni civiltà dopo il suo periodo massimo corrisponde la caduta, la decadenza. E’ sempre stato così, solo che l’uomo non vuole vedere, non sa riconoscere i segni dei tempi, vuole continuare a vivere nell’illusione di poter disporre tutto a suo piacimento, senza comprendere che fa parte di un meccanismo più grande, ma che non è il meccanismo.
E’ quanto sta capitando adesso. I governi, le popolazioni, non si stanno rendendo conto che un’epoca si sta concludendo, che il cambiamento è in atto e che se non lo si seguirà, cercando invece di restare ancorati a un periodo morto, si andrà incontro alla rovina, invece del mutamento.
Crisi economica, disoccupazione e povertà crescenti, crescita di malattie fisiche e psicologiche, guerre, perdita di valori umani: sono tutti segni che caratterizzano la fine di un ciclo.
Ma la fine di un periodo, non significa la fine di tutto.
Perché allora non fermarsi a riflettere invece di voler correre verso il precipizio?

Il mondo conosciuto come lo era nel passato, era svanito. La quiete e lo sviluppo raggiunti spariti da tempo. Quando sembrò di aver raggiunto la massima crescita ed evoluzione, e stoltamente si credette che non ci fosse più nulla da temere, tutto precipitò. Nessuno ricorda come successe: le informazioni raccolte erano poche e confuse, la maggior parte perdute. Quel che conta fu che il sistema di vita collassò, precipitando vertiginosamente in un vortice che spazzò via tutto. L’esistenza tranquilla e spensierata avuta fino a quel momento si dissolse, un’illusione durata troppo a lungo. Il sogno collettivo di un’umanità egoista e limitata bruciato nella sua inconsistenza. Per troppo tempo come un gregge di pecore si era fatto guidare da pochi, lasciando ad altri le redini della propria vita. Inconsapevolmente e inevitabilmente era andata incontro alla rovina. Poteva evitarlo, ma la capacità di vedere era stata lasciata da parte e così perduta. La verità dei fatti era sotto i suoi occhi, ma l’umanità li volle tenere chiusi per continuare a sognare. Quando fu costretta a riaprirli, l’incubo aveva preso forma.
La violenza si scatenò con velocità ed efficienza, spazzando via quanto incontrava sul cammino. Gli uomini non erano pronti per quello che accadde e prima che riuscissero a organizzarsi, interi paesi piansero le loro vittime.
La guerra scoppiò ovunque con ferocia e barbaria. Tutto il mondo divenne un campo di battaglia, poche erano le zone dove non si combatteva. S’andò avanti per anni, finché non divennero decenni: per tanto si tenne la strenua difesa. Per molto tempo si fronteggiò il nemico per sconfiggerlo, affrontandolo in campo aperto; poi si cercò di rigettarlo indietro, di rimandarlo oltre i confini e mantenere liberi i territori posseduti.
Alla fine gli uomini si barricarono nelle città e nei bastioni, cercando di sopravvivere. Il nemico divenne più forte e numeroso e loro s’indebolirono a ogni battaglia.
Gli assedi furono senza tregua; le persone morirono e le città caddero. Alcuni baluardi resistettero più a lungo, ma alla fine cedettero. Senza più rifugi, la gente fu in rotta, in una fuga senza speranza, cacciata e braccata come delle bestie; alcuni lottarono ancora, ma era una lotta che non potevano vincere. Gli uomini combattevano un male cui loro stessi avevano dato vita: un male che aveva origine in lui e che gli si era rivoltato contro. Nella loro cecità credevano di aver trovato ciò che da sempre avevano cercato; in realtà avevano decretato la loro condanna. Una condanna ben peggiore della via dell’estinzione: si erano incamminati sulla via della perdizione. Un cammino che li avrebbe condotti a un’esistenza infernale da cui non c’era possibilità di redenzione.
Il destino era scritto: la fine scelta sarebbe giunta inesorabile.

Mondo dei Sogni: Segni del Passato

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Inquietudine, rabbia, dolore possono manifestarsi nei sogni rivelando eventi del passato che hanno lasciato un segno e che continuano a protrarre nel presente i propri effetti, condizionando la vita e rendendola un inferno.
L’angoscia che si vive in certi sogni è una reazione di difesa nei confronti di qualcosa che spaventa; alle volte è uno scontro tra la propria morale e un desiderio rimosso o che si vuole ignorare temendolo sbagliato o inappropriato. Una reazione generante conflitti interiori che scatenano rabbia (spesso rappresentata con incendi, dilagare di fiamme), una sorta di ribellione, di valvola di sfogo da una frustrazione affettiva che non riesce a trovare risoluzione.

La sera sopraggiunse trovandoli nei pressi della foresta di Hestea, l’area delle colline dell’antico luogo sacro una linea scura all’orizzonte.
Periin consumò il pasto lontano dal gruppo; Lerida non aveva avuto torto nel dire che quel giorno il suo umore era peggiore del solito.
Non solo era seccato per essersi addormentato senza accorgersene, dormendo tutta la notte, ma era infastidito dal sogno vissuto. Lo stesso sogno fatto dai compagni.
Aveva ascoltato le conversazioni degli altri membri e corrispondeva in tutto: aveva visto quanto raccontato da Lerida mentre girovagava nell’area del tempio osservando ogni cosa senza interesse, un posto come tanti in cui era passato.
«Dove vai?» Si era sentito chiedere.
Vide un bambino non molto grande, di massimo otto, nove anni, dai capelli corti e gli abiti lisi; un ragazzo di strada, come tanti. La povertà arrivava dappertutto, anche nei luoghi sacri. Era una regola cui non si sfuggiva.
«Dove vai?» Ripeté il bambino.
«Non ha importanza.» Rispose senza interesse.
«Perché viaggi tanto se non sai dove andare?» Domandò il bambino senza distogliere lo sguardo.
Fece per andarsene.
«Stai scappando? Solo chi scappa non guarda dove va: ogni posto va bene, purché lontano. Ma in nessuno riesce a posarsi, spostandosi sempre.»
Si voltò di scatto, come se lo volesse fulminare.
Il bambino non s’impressionò, restando a fissarlo come se niente fosse.
«Cosa ne sa un bambino delle scelte di un uomo?»
S’allontanò tra la folla, il passo agile e silenzioso che calpestava il lastricato bianco della strada. La piazza e la biblioteca erano alle sue spalle quando si fermò.
«Perché mi stai seguendo?»
«Non ti sto seguendo, stiamo andando nella stessa direzione.» Il tono atono della voce aveva poco d’infantile.
Non gli diede importanza: a vivere per strada si cresceva in fretta.
«E allora dove sei diretto?» Era infastidito che qualcuno camminasse con lui.
«Non ha importanza.» Fu la risposta che ottenne.
La bocca si distorse in un piccolo ghigno: il bambino era sveglio. Come avrebbe fatto altrimenti a sopravvivere?
«Fa come vuoi.» Riprese a camminare, consapevole che l’altro lo stava ancora seguendo.
Senza accorgersene si ritrovò a essere sopra al muraglione nei pressi del grande tempio; non era sua intenzione arrivarci. Scrollò le spalle: sarebbe tornato indietro.
Fece il percorso a ritroso, passando accanto ai fedeli in processione.
«Perché non entri nel santuario?» Sentì domandare dal bambino.
«Perché dovrei?» Il piccolo stava diventando una presenza fastidiosa. Nella vita di strada fare troppe domande portava a una sola conclusione: non gliel’avevano insegnato?
«La gente va nei tempi per trovare pace e serenità, per riconciliarsi con se stessi e trovare un rifugio per l’anima. Tu non ne hai bisogno?»
«Ti fidi di tutto quello che ti raccontano? Se vuoi credi alle favole, alla tua età è ancora possibile. La realtà però è tutta un’altra cosa.»
«Che cosa ti tiene lontano da questo luogo?» Volle sapere il bambino.
Fu sul punto di non rispondere, poi ci ripensò: forse il ragazzino non parlava da tempo con qualcuno e ne sentiva il bisogno. Forse se lo avesse assecondato per un po’ se lo sarebbe tolto di torno, molto prima che ignorandolo.
«La gente che si reca qui ha bisogno di un appoggio perché non è in grado di gestire la propria vita e sono gli altri a dirgli quello che deve fare; non si rende conto che così facendo è in loro balia, dando un modo per essere controllata. E i cosiddetti religiosi non si lasciano sfuggire quest’occasione di potere, manipolare le persone attraverso le loro debolezze. La gente viene qua per risolvere i problemi, ma i religiosi non danno una soluzione, solo una parvenza di speranza, illudendo che un giorno tutto si risolverà, costringendola a tornare. Se facessero diversamente, non avrebbero più motivo d’essere, perdendo i benefici che i condizionamenti comportano.» Si sistemò lo zaino sulle spalle. «Io sono libero da questi giochetti.»
«Ah.» Disse semplicemente il bambino. «Però è una bella costruzione: perché non entri solo per guardarla?»
«Perché non m’interessa.» Lanciò un’occhiata fugace al tempio.
«Capisco: non ti piacciono i luoghi affollati.» Osservò il ragazzino. «Forse hai ragione: c’è troppa gente.»
Si ritrovarono a camminare di nuovo sulla strada, ma non erano più nell’ampia via della zona del tempio: percorrevano un viottolo stretto, affiancato da basse case.
«Perché cammini sempre nell’ombra?» Chiese il bambino osservandolo.
Fu sorpreso dalla domanda. «Non ti è stato insegnato come si vive per strada?»
«Nessuno l’ha fatto.» Rispose il piccolo. «Ma non ne ho bisogno.»
Che avesse sbagliato a valutarlo?
Continuarono a camminare in viuzze secondarie stranamente familiari. Si ritrovarono ad attraversare un piccolo parco: anche questo era familiare.
«Forse potresti entrare in questo tempio.» Suggerì il bimbo. «Non c’è nessuno che possa disturbare.»
«No.» Fu repentina risposta, ora totalmente consapevole di dove si trovava.
«Perché no?» Insistette il bimbo. «Nessuno ti vedrà.»
«No.» Ripeté deciso. Gli occhi non riuscivano a staccarsi dalla piccola cappella distaccata dal tempio principale.
«Cosa sarà mai entrare in un luogo sacro? Hai paura di restare condizionato?» Insistette il ragazzino, ora al suo fianco, intento a guardare anche lui la costruzione.
«No.» Sibilò minaccioso.
«Perché…»
«No!» Gli urlò contro.
Il bambino lo fissò per nulla impressionato. «Cosa c’è dietro quella porta che ti spaventa tanto? Che cosa nasconde?» Continuò inflessibile. «Chi c’è là dentro?»
«Lupi travestiti da pastori; ladri, impostori, assassini: ecco cosa troverai.» Sentì bruciare una fredda furia negli occhi.
«Che cosa è successo?» Il bambino non s’arrese.
«Ci hanno imbrogliato, ci hanno illuso predicando misericordia, ma non c’è misericordia per dei bastardi come noi, non appartiene a chi non è ricco.» Sibilò a denti stretti.
«Cosa è avvenuto in quel tempio?» Volle sapere il ragazzino.
«Quello non è un tempio: è una tomba, un luogo dove danno benedizione al mattatoio che è quest’area.» Sentì la respirazione accelerare. «Le hanno fatto credere che sarebbe entrata in un mondo migliore, la sua dura vita finita; era così felice, raggiante. Quando ci ha lasciato, ha detto che una volta sistemata ci avrebbe invitato nella sua nuova casa; era così contenta che ci abbiamo creduto anche noi.» Il suo sguardo divenne feroce. «L’hanno venduta, fatta prostituire in un mondo di luci ed eleganza. E quando una verità troppo scomoda ed evidente stava per venire a galla, l’hanno eliminata. Non ci sarebbero stati strascichi: si fa in fretta e senza dare nell’occhio a far sparire chi non ha nessun legame al mondo. E quei porci dell’Ordine avrebbero coperto tutto senza fare niente per punire il ricco benefattore che l’aveva accolta in casa come serva e da cui lei attendeva un figlio: sarebbe stato uno scandalo per un uomo della sua posizione.»
«Come fai a sapere queste cose?» Lo interrogò il bimbo.
«Ho sentito i Messaggeri e quel porco del suo benefattore da una delle finestre dell’edificio, mentre attorno alla sua bara discutevano come risolvere quanto accaduto.» Serrò la mascella. «Non so neanche dove l’abbiano seppellita.» Strabuzzò gli occhi come se si fosse riscosso da uno stato di trance. Guardò irritato il bambino. «Questo posto mi ha schifato.»
Senza aspettare risposta si voltò. Mentre camminava s’accorse di stare stringendo con forza l’elsa delle spade; si sentì avvampare da un altro moto di rabbia. Avrebbe trovato un posto dove non sarebbe stato più costretto a usarle.
Camminò fino a lasciare la città alle spalle, attraversando prati e valli. Arrivò in una foresta mai vista, inabitata e cominciò a sentirsi meglio: non avvertiva nessuna minaccia in quel luogo. Si sfilò la cintura con le spade e le lasciò cadere: fu come abbandonare un gran peso.
Camminò a lungo nella foresta. Provò un benessere e una pace nuovi; quando fu stanco si fermò tra le radici di una grande sequoia, sedendosi, poggiando il capo contro il tronco e chiudendo gli occhi.
Quasi subito sentì un corpo premere contro il suo.
«Come si sta bene qui.» Sussurrò una dolce voce femminile. «Sapevamo che ci avresti guidato bene: su di te si può contare, ci sei sempre. Mantieni sempre le promesse.» La voce ridacchiò. «Smettila di farmi il solletico ai fianchi. Non cambierai mai.» Sentì un buffetto sul braccio. «Non cambiare mai, rimani sempre così: sei speciale.»
Si sentì scivolare beatamente nel sonno.
Gli occhi erano ancora chiusi, ma era sveglio, allarmato da un senso d’inquietudine che si faceva avanti inesorabile. Quando li aprì si scatenò l’inferno: la foresta bruciava, c’erano urla e suoni stridenti ovunque.
Cominciò a correre.
Un’ombra gli si parò davanti e l’abbatté; stessa sorte toccò a tutte quelle che si ritrovò sul cammino.
Quando si fermò, era in cima a una collina. Guardò indietro e vide i resti fumanti della foresta.
Il terreno era cosparso di corpi. Si piegò a riprendere fiato e solo allora s’accorse di impugnare di nuovo le spade: grondavano sangue.
Quando rialzò lo sguardo trovò il bambino a fissarlo.
«Perché sei cambiato?»
«Per sopravvivere.»
«Saresti sopravvissuto lo stesso.» Lo corresse il ragazzino. «Sei diventato quello che sei per non soffrire più, perché credevi di non riuscire a sopportare il dolore. Lo hai fatto per salvarti, ma non sarà certo in questa maniera che ci riuscirai. La strada che hai intrapreso non ti porterà nulla; ancora non ti accorgi di quello che sta avvenendo, ma faresti meglio a farlo prima che sia troppo tardi.» Il bambino si allontanò senza muovere le gambe. «Sei cambiato per diventare forte: c’era già forza in te, ma ti sei illuso di non averne abbastanza. La verità era che volevi mascherarti.» Ora era soltanto un punto distante. «Puoi ancora tornare a essere quello che eri.»
Per un attimo fu raggiunto da un raggio di luce che gli sfiorò il volto; poi l’oscurità calò su di lui coprendo ogni cosa.
Aveva capito cosa era successo durante il sonno: aveva rivissuto il passato, provando le stesse emozioni d’allora. Era già capitato. Questa volta però era stato molto più intenso.
Non capiva il significato del sogno, del bambino: sembrava un monito. Ma aveva l’impressione che ci fosse dell’altro. I sogni non seguivano mai un filo preciso, erano caotici e senza senso, a parte le emozioni che facevano scaturire: questo invece sembrava mirare a qualcosa. Che cosa fosse però lo ignorava e gli dava da pensare; per questo si teneva lontano dagli altri perché non capissero quello che stava passando. Se la gente non sa quello che pensi non può vedere i tuoi punti deboli, era diventata una delle sue regole di vita.
S’andò a sistemare ancora più lontano dall’accampamento, sedendosi contro il tronco di un albero. Rimase in attesa del giorno guardando stelle dalla luce fosca.

Mondo Dei Sogni: Insegnamento

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Tutti i sogni mostrano dei lati di sé, hanno un insegnamento da trasmettere; solitamente sono “criptati”, ovvero hanno bisogno di una chiave di lettura per interpretarli. Ma alcuni di essi sono così lucidi e diretti che non occorre rifletterci sopra. E’ come trovarsi in una specie di trance che fa raggiungere degli spiriti guida, essenze di un aldilà capaci di dare una conoscenza solitamente bloccata; un sonno in cui si è vigili e attenti, consapevoli di quello che succede.

Il cammino proseguì di buon passo fino a mezzogiorno, quando si fermarono per consumare un frugale pasto al riparo di un gruppetto d’acacie.
Socchiudendo gli occhi, Ghendor fissò i giochi di luce dei dardi solari nell’intreccio di rami e foglie. Era la stessa cosa accaduta in sogno.
Dopo aver girovagato nel luogo risorto, fermandosi a osservare le statue e la gente che passava, s’era incamminato alla volta del tempio, immettendosi nel flusso della corrente umana. Salita la gradinata dell’imponente muraglione, aveva oltrepassato i recinti del tempio, continuando a camminare lungo il perimetro del santuario.
Senza accorgersene si era allontanato dagli altri, fermandosi a rimirare una statua. Il volto incorniciato da una chioma fluente di capelli ondulati, era stato cesellato dando un’espressione penetrante. C’era severità e dolcezza, ma anche forza che si manifestava nelle membra muscolose e aggraziate, dando al corpo un senso d’armonia e grazia che trascendevano dall’aspetto umano; e che quell’essere fosse molto di più lo si poteva capire dalle grandi ali che spuntavano dal dorso. Ali d’aquila per sollevarsi da terra e volare nei cieli, lontano dal mondo conosciuto e dirigersi verso luoghi inesplorati, dove l’uomo non era ancora giunto. La magnifica creatura teneva la mano aperta, il palmo rivolto verso l’esterno, in un gesto che era un invito a unirsi nell’ebbrezza del volo.
Una sottile corda passava sul torace assicurando un lungo corno alla schiena: sembrava essere una delle trombe del giudizio citate in alcuni testi.
Un raggio luminoso lo colpì agli occhi. Per un attimo pensò che fosse il riflesso del sole sulla parte dorata della facciata del tempio; invece l’origine era una fonte luminosa che si trovava su una panca a pochi metri di distanza.
«Salve Messaggero.» La luce parlò e si mosse, come se qualcuno fosse avvolto in essa. «Siediti qui con me.»
Ghendor andò a occupare posto sulla panca.
«E’ una meravigliosa costruzione, non trovi?» La luce parlava tranquillamente, a suo agio. «Un giorno tornerà a essere così.»
«Questo è un sogno?» S’era sentito strano a porre quella domanda.
«Sogno?» Fece divertito l’essere. «Sì, lo è, ma è anche una realtà che è stata e che potrà di nuovo essere, se lo si vorrà.»
«Allora sto sognando il passato e il futuro?»
«Più che sognando si può dire che ti sei svegliato nel sogno.» La creatura rise all’espressione dell’uomo. «Fino a questo momento hai vissuto il sogno delle persone che sono rimaste qui, che hanno lasciato impresso in questo luogo l’ideale in cui più fermamente hanno creduto e che ora sta rivivendo nel vostro sonno. Ma quando si sogna non si è mai protagonisti, non si sceglie come agire, si subisce lo svolgersi del sogno; si è condizionati, come lo si è nella vita dai rapporti con gli altri e l’ambiente. Se tu stessi ancora sognando saresti entrato a pregare nel tempio con gli altri. Ma se tu sei qui significa che non sei più sotto la sua influenza e sei libero di scegliere: quindi sei sveglio. Perciò ti dico che ti sei svegliato all’interno del sogno.»
A Ghendor era parso che si voltasse a guardarlo.
«Non hai capito, ma non importa: non è questo quello che conta. La comprensione verrà da sé.»
«Sono libero di fare quello che voglio: quindi posso decidere di svegliarmi e tornare al presente?» Aveva chiesto titubante Ghendor, nonostante tutto gli sembrasse strano.
«Certo che puoi, ma perché vorresti farlo?» Chiese l’essere luce. «Hai ancora una cosa da fare qui.»
Ghendor aveva dato ragione alla creatura: non voleva ancora tornare alla realtà, ma ne ignorava la ragione. «Che cosa devo fare?»
«Qualcosa che ti aiuterà a compiere la missione.» Disse la creatura. «Imparerai a conoscere di più te stesso. Camminiamo un po’.»
«Come può essermi questo d’aiuto nella ricerca?»
La figura luminosa lo precedeva di qualche passo. «Alcune cose non ti sono chiare, anche se già sei sulla buona strada. Ma stai venendo aiutato e non ci metterai molto a capirlo.»
Si arrestò davanti a una statua di un uomo con entrambe le mani appoggiate sull’elsa di una spada piantata nel terreno; uno scudo era assicurato alle sue spalle.
«Quando un discepolo è pronto compare un maestro.»
Ghendor fissò l’opera. “Questa l’ho già sentita.” Pensò.
«Non solo l’hai già sentita, ma la stai vivendo.» Lo sorprese l’essere luce. «E non sarà difficile, visto che già possiedi delle buone basi: devi solo fare il passo successivo che divide la teoria dalla pratica. La tua mente è aperta e coglie il significato più profondo della Rivelazione. Liberandoti da certi blocchi scoprirai verità ulteriori. Hai bisogno di un po’ di tempo, ma hai la fortuna di avere incontrato chi potrà mostrarti come fare.»
«Ariarn.» Disse il Messaggero.
«Si. Ti può insegnare perché ha già intrapreso questa strada, ma ricorda che sarai tu a doverla percorrere.» Fece una pausa. «Sei molto bravo a insegnare agli altri, ma ricorda che per insegnare veramente bisogna prima saper fare: dovresti ascoltarti quando parli, ti sarebbero molto d’aiuto. »
«Di che cosa ho bisogno?» Ghendor si era sentito come un libro aperto per quella creatura, ma non avvertì disagio.
«Innanzitutto devi eliminare una visione errata di quanto che fai. Non sforzarti solamente di credere, comprendi che può essere veramente così, che ciò che insegni ha dei risvolti pratici, non solo per gli altri, ma anche per te: ci sei vicino, la sfiori, ma non riesci ad afferrarlo. E non ci riesci per un semplice motivo: ti manca convinzione, sottovaluti le tue capacità.»
Ghendor aveva fatto per parlare, ma l’essere aveva continuato. «Ti manca sicurezza e rimani ancorato al passato, non riuscendo a superare certi comportamenti. Tutti hanno delle debolezze; il fatto che tu non le veda, non significa che non ci siano. La sicurezza che cerchi la devi trovare in te stesso, gli altri non te la possono dare: ricordi?»
Ghendor aveva ricordato: erano parole sue. La creatura aveva ragione: era bravo nell’insegnare agli altri a risolvere i loro problemi. Allora perché non riusciva a risolvere i propri?
«Sempre per insicurezza.» Aveva risposto l’essere alla muta domanda. «Tu credi ai Messi Celesti e alla Rivelazione. Credi anche in te stesso. Ti accorgerai che è la medesima cosa.»
L’essere stava facendo il cammino a ritroso fatto per arrivare al tempio.
«Non esiste uomo che non abbia paura. Ma non è da tutti superarla e non può essere eliminata: ma limitata e impedire che blocchi, sì. Perché è questo che fa: impedisce di agire e crescere. Dovrai superarla per riuscire nella missione e potrai farlo solo se avrai sicurezza in te perché come in ogni uomo c’è molto più di quello che si vede. »
Erano arrivati all’ingresso della zona del santuario, davanti al piedistallo su cui era situata l’iscrizione letta.
«Perché non c’è nessuna statua?» Chiese Ghendor.
L’essere luce fissò la costruzione di pietra. «Perché non c’è opera di pietra o di altro materiale che possa rappresentare qualcosa di ampio e multiforme come l’anima. Il messaggio che si vuole trasmettere è conoscere quanto legata a essa, anche le parti più oscure, per farle diventare luce.»
A Ghendor parve che alzasse un braccio per indicare il piedistallo.
«Lo spazio è lasciato vuoto perché ognuno veda se stesso e comprenda che la crescita è senza limiti.»
Il Messaggero guardò verso i piedistalli che adornavano il sentiero. «Quelle statue invece sono state create per rappresentare singolarmente ogni lato del carattere umano, per frammentare l’intero dell’anima e rendere perciò più facile la sua comprensione, giusto?»
«E’ così: parti del sé che insieme formano l’uomo, come i colori formano la luce bianca.» L’essere si avviò verso le gradinate. «Il nostro tempo qui è ora concluso, ma ci rincontreremo. Potrei dire che ci vedremo sempre, ma ancora non capiresti.»
«Tu sei un Messo Celeste?»
L’essere luce rise. «Un giorno vedrai.» Continuò a scendere gli scalini. «Rammenta queste parole: andrai lontano, dove molti non hanno osato arrivare e dalle tue azioni scaturirà un gran bene. Molti avranno salva la vita grazie a te. Non sentirti fuori posto perché non appartieni alla mentalità di questo mondo; non aver paura di giudicarlo perché solo vedendo dove sbaglia potrai cambiarlo. E lo farai con la tua vita, seguendo la strada che già percorri: altri ti seguiranno perché rivelerai la verità.» Ormai era nel prato. «Non si affidano compiti a chi non è in grado di portarli a termine. Molti credono in te: credici anche tu.»
Ghendor avrebbe voluto fare altre domande, ma la luce si fece più intensa fino ad avvolgere tutto e a farlo svegliare.
Rifletté sulle parole del sogno: erano cose che già sapeva. Sentirle dire da un altro però era diverso: era come essersi liberato di un peso, sentendosi più libero e leggero.
Forse era venuto il momento di cambiare. Cosa aveva da perdere se poteva migliorare?
Con una nuova fiducia riprese il cammino insieme agli altri.