Di La storia fantastica (film del 1987) avevo parlato nella recensione del romanzo di Sanderson Tress del Mare Smeraldo e si può tranquillamente dire che col tempo è diventato per gli appassionati del genere un piccolo cult. Qualcuno, abituato a narrazioni fantastiche più cupe e crude quali sono Il trono di spade o House of the Dragon potrà storcere il naso dinanzi a una storia che ritiene troppo semplice, ma La storia fantastica (non bisogna dimenticare il suo stampo favolistico) è qualcosa che si fa ricordare, che fa sorridere ma ha anche un respiro epico.
La storia inizia con il piccolo Jimmy costretto a letto dall’influenza, poco entusiasta della visita del nonno, venuto a fargli compagnia e a portargli un regalo. Il bambino non è per niente soddisfatto quando scopre che si tratta di un libro, La storia fantastica di S. Morgenstern, ma acconsente ad ascoltare il nonno che gliela legge.
La giovane Bottondoro vive in una fattoria e dà il tormento al garzone Wesley, impartendogli sempre ordini cui lui risponde costantemente “Ai tuoi ordini”. Col tempo i due s’innamorano, ma non avendo soldi, Wesley decide di cercare fortuna oltremare; sfortunatamente, il ragazzo viene trucidato dal pirata Roberts. Cinque anni dopo la sua scomparsa, il principe Humperdinck, per commemorare il cinquecentesimo anniversario del paese, annuncia le sue nozze e la sposa è Bottondoro (avendo lui diritto di scegliere chi prendere in moglie).
Mentre un giorno è a cavallo, la giovane incontra un gruppo di tre persone che si spacciano per artisti di strada, le cui intenzioni però sono altre: Bottondoro viene catturata e viene fatto credere che il rapimento sia stato perpretrato dalla nazione confinante. La mente del gruppo, Vizzini, è al soldo del principe Humperdick, che vuole utilizzare la sua morte per scatenare una guerra; il gigante Fezzik e lo spadaccino Inigo Montoya non sono d’accordo, ma il piano va avanti come da copione. Sennonché la loro nave viene inseguita da un’altra, che presto li raggiunge: si tratta del pirata Roberts. Inigo Montoya perde il duello di spada con l’inseguitore, Fezzik viene sconfitto in uno scontro fisico e Vizzini viene superato in astuzia, perdendo la vita.
Bottondoro è libera, ma non è riconoscente al suo salvatore, dato che è colui che ha ucciso il suo amore; con sua grande sorpresa scopre però che il pirata Roberts altri non è che Wesley, risparmiato dal pirata Roberts precedente che poi l’ha fatto divenire suo successore.
I due innamorati stanno pensando di fuggire insieme, ma vengono raggiunti dal principe, che riprende con sé la principessa e imprigiona Wesley, facendolo torturare fin quasi ucciderlo. Montoya e Fezzik però, dopo essere stati risparmiati da lui, decidono di salvarlo chiedendo aiuto a “Max dei miracoli”, che con una pillola speciale gli fa riacquistare la vita. Insieme, riescono a salvare la principessa dal castello e Wesley, grazia all’astuzia, riesce ad avere la meglio sul principe, che si rivela essere in realtà un gran codardo.
Il gruppo si allontana dal castello e Bottondoro e Wesley si danno il bacio più memorabile della storia. Il film si conclude con il nonno che saluta il nipotino una volta finito di leggere il libro, rispondendogli “Ai tuoi ordini” quando il bambino gli chiede di tornarlo a trovare e leggergli un’altra storia. La storia fantastica è una storia lineare, ma funziona, soprattutto grazie ai suoi personaggi e a chi li ha interpretati: il mafioso siciliano Vizzini che non fa che ripetere “inconcepibile”, il gigante buono Fezzik interpretato dall’indimenticabile wrestler André the Giant e Inigo Montoya, forse il personaggio più memorabile con la sua storia di vendetta, alla ricerca per vent’anni dell’uomo con la mano dalle sei dita che quando era piccolo ha ucciso suo padre, al quale, prima di sfidarlo a duello dirà quella che è divenuta una frase iconica nel mondo del cinema: “Hola. Mi nombre es Iñigo Montoya, tu hai ucciso mi padre… preparate a morir!”. Come iconico è lo scontro finale tra i due (l’assassino del padre è un uomo al servizio del principe) dove Montoya, ferito a morte, si rialza e ritorna a combattere, sconfiggendo con facilità il nemico.
Forse La storia fantastica è un racconto di altri tempi, ma è uno di quei racconti di cui ogni tanto, almeno una volta nella vita, si ha bisogno.
Acquistai Il Cavaliere della Rosa Nera di James Lowder appena uscì, nei primi anni del Duemila, quando c’era la vecchia Armenia (guardando all’interno del libro non c’è il periodo di pubblicazione, come succede nella maggior parte dei casi, ma facendo una ricerca in rete si scopre che era il 2003), perché l’ambientazione di Ravenloft mi aveva sempre affascinato e Lord Soth era una figura oscura ma allo stesso tempo affascinante; c’erano tutti i requisiti per una buona lettura. Invece, dopo poche pagine, deluso dalla scrittura dell’autore, mollai il libro, ritenendo che una simile figura come quella del Cavaliere della Morte meritasse di più.
Sono passati più di vent’anni da allora e complice un video visto su youtube che parlava di Strahd von Zaravich ho deciso di riprendere in mano il volume: l’impressione sulle prime pagine lette non è cambiato, il livello di scrittura è basso (anche se ho letto di peggio) e le vicende di Lord Soth non mi hanno entusiasmato, perché raccontate in un modo quasi stereotipato (il cattivo che fa cose cattive e dice cose cattive, che sono quasi scontate). Questo almeno finché Lord Soth rimane su Krynn: nel momento in cui le nebbie lo carpiscono e lo portano su Ravenloft le cose (fortunatamente) migliorano.
Ma andiamo con ordine. Lord Soth fa la sua prima apparizione nella saga Dragonlance nel romanzo I draghi dell’alba di primavera (terzo volume di Le Cronache di Dragonlance), alleato della Signora dei Draghi Kitiara; Soth è un Cavaliere della Morte, maledetto per le sue scelte e per aver buttato via la sua ultima possibilità di redenzione. Un tempo Cavaliere della Rosa di Solamnia, perse la sua virtù quando s’invaghì di una giovane sacerdotesssa elfica cui salvò la vita; fatta sparire la moglie grazie a Caradoc, suo fidato sottoposto, Soth potè giacere con lei e sposarla. Ma le sue azioni furono scoperte, venendo condannato per il gesto, spogliato del suo rango e cacciato dall’ordine dei Cavalieri di Solamnia. Capendo quanto era caduto in basso, assieme alla nuova moglie, pregò gli dei in cerca di redenzione: Paladine gli rivelò che l’unico modo era fermare il Grande Sacerdote prima che su Krynn si scatenasse la punizione divina e che nel tentativo avrebbe perso la vita. Per ritrovare il suo onore, Soth accettò, ma mentre andava a fermare il Grande Sacerdote, le altre sacerdotesse elfe cui aveva salvato la vita, non perdonandogli quanto fatto alla compagna, gli avvelenarono l’animo con la gelosia, facendogli credere che la moglie lo tradisse. Soth tornò al suo castello, proprio mentre il Cataclisma si abbatteva su Krynn; mentre la moglie e il bimbo neonato morivano tra le fiamme, l’elfa lo maledisse: Soth non morì, condannato a una non vita dove non c’era pace, dove gli restava solo l’armatura bruciata (l’armatura con il simbolo dell’Ordine della Rosa cui apparteneva divenne nera, facendolo così conoscere come il Cavaliere della Rosa nera), un castello maledetto abitato da servitori non morti e spiriti che lo perseguitano per le sue scelte scellerate.
Passati più di trecento anni da quel nefasto evento, Lord Soth ritrova interesse per la vita e per una donna con Kitiara, Signora dei draghi e servitrice della dea malvagia Takhisis, volendola fare diventare sua compagna immortale una volta morta. La possibilità si presenta quando la donna muore durante il tentativo di conquista della città di Palanthas; mentre Soth porta il corpo di Kitiara nel suo castello, Caradoc, che ora è un fantasma, si reca nell’Abisso per recuperare la sua anima, così che Soth possa farla tornare come non morta. Se non fosse che Caradoc tradisce Soth e questo porta a uno scontro tra i due; le nebbie giungono e portano i due lontano da Krynn, facendoli giungere a Ravenloft.
Queste sono le prime cinquanta pagine di Il Cavaliere della Rosa Nera (il prologo riassume le sue vicende mortali in pochi fogli, mentre le pagine successive raccontano le vicende tra l’assalto a Palanthas e l’arrivo a Ravenloft): il modo in cui sono scritte fa un poco alzare le sopracciglia e le vicende non colpiscono più di tanto (forse perché le si era già lette in altre parti, il già menzionato I cavalieri dell’alba di primavera e il manuale di Ravenloft), ma fortunatamente, da questo punto in avanti, le cose migliorano, sia a livello di scrittura, sia a livello di eventi. Sia chiaro: non si è davanti nulla di trascendentale. Tuttavia, la lettura diventa più godibile e si è spinti ad andare avanti (e non come prima a mettere da parte il libro).
Giunto a Ravenloft, Soth pensa di essere finito nel regno dell’alleato tanar’ri di Caradoc (il siniscalco gli aveva fatto credere che l’amuleto contenente lo spirito di Kitiara fosse in in mano di quella creatura), ma presto si ritrova a costatare che così non é; viene attaccato da un gruppo di zombie, ma poi l’attacco cessa e le creature gli fanno capire che devono seguirlo, pronunciado una sola parola: Strahd.
Soth apprende di più su questo misterioso personaggio grazie all’incontro con un gruppo di Vistani (zingari che vivono a Ravenloft); tuttavia, preso da uno dei suoi frequenti attacchi d’ira, praticamente uccide tutto il gruppo, tranne la giovane Magda, che usa da guida per raggiungere il castello di Strahd, signore di quelle terre. Come scoprirà, Strahd è un non morto come lui, solo che è un vampiro, dotato oltretutto di poteri magici pari se non superiori a quelli di Soth. Seppure ci sia tensione tra i due, e lo scontro sia sempre sul punto di scoppiare, Strahd decide di non farselo nemico, ma di usarlo come pedina per i suoi piani, rivolgendolo contro uno dei suoi nemici, Gundar, anch’egli un vampiro.
Soth, Magda, cui si unisce anche Azrael, un nano con la capacità di mutarsi in un licantropo dalle sembianze di tasso, decide di assecondare Strahd purché questo gli permetta di raggiungere il portale per lasciare quelle terre maledette e ritornare su Krinn, dove continuare la ricerca dell’anima di Kitiara che gli permetta di riportarla come non amorta e averla come sua compagna.
Non ci si sta a dilungare su tutte le vicende cui il Cavaliere della Morte andrà incontro (si può però intuire che saranno vicende violente e sanguinarie), ma esse mostreranno come Soth diventerà uno dei signori di Ravenloft; il che non sorprende, dato che si sta parlando dei Domini del Terrore, terre dove le maledizioni la fanno da padrone.
Sinceramente, visto come era iniziato, pensavo peggio di Il Cavaliere della Rosa Nera e devo dire che mi sono dovuto in parte ricredermi, non abbastanza però da cercare di recuperare i seguiti di questa serie di libri dedicati al mondo di Ravenloft.
Messia di Dune se fosse proposto oggi a una casa editrice troverebbe pubblicazione? In Italia, molto probabilmente no: il secondo romanzo scritto da Frank Herbert ambientato nel mondo di Dune verrebbe scartato senza tanto pensarci su. Motivo? Troppo complesso, troppo riflessivo, introspettivo, con Herbert spesso a mostrare i processi mentali dei personaggi a discapito dell’azione. Questo è Messia di Dune: un romanzo con finestre aperte sulla mente dei protagonisti. Qualcuno (o più di uno) potrebbe ritenere questo romanzo troppo filosofico, troppo impegnato, troppo pieno di elucabrazioni, troppo difficile da leggere. E da un certo punto di vista, si può anche dargli ragione vista la qualità media degli italiani: non c’è affatto da sorprendersi di tale qualità, dato che una buona parte delle persone è impegnata a perdersi nel guardare video di Tiktok con una soglia di attenzione veramente bassa (soglia che passa da qualche minuto a qualche secondo) e si ha una scarsa padronanza della lingua italiana (già con frasi più lunghe di due righe si va in difficoltà), solo per citare un paio di problemi. Tutto ciò non meraviglia affatto, visto poi il livello di preparazione e di cultura che si ha a tutti i livelli: se si pensa a certe uscite che fanno certi ministri (su tutti quello alla cultura), si capisce perché per i più Messia di Dune sia una lettura di categoria troppo elevata, di una caratura superiore la norma (ma molto superiore).
Dopo questa breve disamina sul livello di una parte dei lettori italiani (e c’è da ringraziare se leggono qualcosa che non sia solo i commenti sui social), veniamo a parlare del romanzo di Herbert. Sono passati dodici anni da quando Paul Atreides ha sconfitto gli Harkonnen (anche se occorre notare che, benché lo sappiano in pochissimi, anche nelle vene di Paul scorre in parte sangue Harkonnen) ed è diventato lo Kwisatz Haderach, la figura tanto ricercata e programmata dalle Bene Gesserit; tuttavia non è lo Kwisatz Haderach che si aspettavano (sottoposto al loro controllo): Paul, alla guida dei Fremen, scatena una jihad che lo porta a conquistare un mondo dopo l’altro, facendolo divenire il capo dell’universo conosciuto.
Nonostante la posizione acquisita e il grande potere che possiede (la prescienza, la capacità di vedere i futuri possibili), Paul non è al sicuro: gli Harkonnen sono stati sconfitti, l’Imperatore piegato, ma altri tramano alle sue spalle: le Bene Gesserit, la Gilda, i Tleilaxu e persino la sua consorte, la principessa Irulan, figlia dell’Imperatore. Tutti mirano per un motivo o per l’altro a controllarlo, a trovare un punto per renderlo debole e soggetto al loro potere: chi attenta alla salute di Chani, la sua amata, rendendola sterile perché non possa dargli degli eredi, chi invece cerca di colpirlo nei suoi affetti facendo ritornare in vita, sotto forma di ghola (una sorta di clone), Duncan Idaho, suo amico e protettore fin da quando viveva su Caladan.
A tutto ciò si aggiunge che Paul è schiavo delle visioni che ha del futuro e non può sfuggirgli, pena scatenare degli scenari ancora peggiori; così, è costretto a scegliere tra tutti i mali quello minore, ma lo stesso per lui sarà un prezzo alto da pagare.
Ogni personaggio (da Paul, a Duncan/ghola, Irulan, Stilgar, Alia) affronta i suoi conflitti interiori, i propri demoni e Herbert lo mostra con lunghi monologhi interiori, dove le questioni sono sviscerate con profondità e intensità. Così è per buona parte del romanzo, dove tutto è una preparazione per il finale; macchinazioni, complotti, ogni cosa fa parte di una partita a scacchi fra i vari contendenti, dove ognuno cerca di avere la meglio sull’altro. L’azione vera e propria è concentrata praticamente tutta nel finale e questo è una cosa che ai lettori moderni potrebbe non piacere, dato che per buona parte del libro non succede nulla; se a questo ci si aggiunge la bassa soglia di attenzione che in diversi hanno adesso e la difficoltà a seguire trame che non siano lineari (ci si può immaginare cosa ne potrebbero pensare della saga Malazan, molto più complessa e articolata di quella di Dune), si può capire come Messia di Dune sia un romanzo che attualmente non riscuoterebbe grande successo.
Sinceramente, questi elementi che seguono i più per me non hanno valore e posso dire che Messia di Dune è una lettura interessante; non siamo al livello del primo romanzo, Dune, tuttavia mostra bene i limiti del potere, i dubbi e le debolezze di chi sta in certe posizioni di guida o comando, evidenziando come spesso determinate figure vengono idolatrate e idealizzate. Paul, nonostante i poteri che ha acquisito, è un uomo e come ogni uomo ha dei limiti che non possono essere superati; purtroppo, avendo creato un sistema di governo dove la religione ha una parte importante (si può dire fondamentale) è quasi giocoforza che i sudditi, di cui molti sono anche fedeli, lo venerino come un profeta o un dio, aspettandosi da lui sempre qualcosa di eclatante, che possa risolvere ogni problema o richiesta.
C’è però un’altra cosa da tenere conto: l’arrivo o la nascita di certe figure porta cambiamenti e non sempre questi piacciono, perché c’è chi vuole rimanere ancorato alle tradizioni. Allora dallo scontento nasce il tradimento, la scissione, anche tra quelli che dovrebbero essere grati per quello che è stato fatto. Da tempo i Fremen sognavano che su Dune ci fosse più acqua, ma quando questo è cominciato ad accadere, ad alcuni la cosa non è piaciuta perché andava a cambiare il loro modo di vivere e di vedere la vita; a questo punto il tanto decantato messia non è più stato tale e Paul oltre ai nemici esterni si è trovato ad avere a che fare anche con il fuoco amico.
Non si rivela altro di Messia di Dune perché raccontare di più sarebbe fare uno spoiler troppo grande (anche se c’è chi potrebbe suggerire che essendo ormai passati più di cinquant’anni dalla sua uscita non lo sarebbe), ma è una lettura consigliata per chi cerca qualcosa che non dà la pappa pronta e fa pensare. Un romanzo non per tutti, ma un libro che tanti avrebbero bisogno di leggere.
Con Berserk 42 (edizione Collection, che unisce i numeri 83 e 84 dell’edizione regolare) riprende la narrazione delle vicende di Gatsu e compagni dopo la morte di Kentaro Miura. Basandosi su quanto lasciato dal creatore del manga, con i disegni realizzato dalla Studio Gaga e la supervisione di Kouji Mori, la storia continua dalla rivelazione che il bambino della Luna altri non era che Grifis, risvegliatosi da quello che era stato una sorta di sogno in cui lui, in una notte di plenilunio, diveniva un bambino e assaporava il calore di una famiglia. Per chi non ha seguito tutta la storia di Berserk, la cosa può sembrare complicata. Gatsu e Caska stavano aspettando un bambino prima dell’avvento dell’Eclissi; sarebbe stato solamente loro se non fosse stato per lo stupro perpetrato ai danni di Caska da Grifis rinato come Phemt, il quale contaminò il feto con il male derivante dalla sua nuova condizione. Sopravissuti alla strage, Gatsu e Caska videro nascere prematuramente il feto/bambino, deforme ma con poteri derivanti dal Grifis. Al tempo dei Capitoli della Condanna, ormai in fin di vita, il feto fu accolto da una strana creatura che utilizzando un Bejelit fece rinascere Grifis come uomo, dando il via a una nuova era. Il Grifis rinato era sì Grifis, ma aveva anche una parte del bambino di Gatsu e Caska e questa giustifica il suo voler passare del tempo con loro e assaporare quell’affetto cui un bambino anela.
La comparsa di Grifis sull’isola degli elfi ha un effetto sconvolgente: Caska rivive il trauma provato durante l’Eclisse, Gatsu va in berserk attaccando Grifis, l’isola viene attaccata da una sorta di marea/blob oscura. Nonostante tutto il suo impegno, Gatsu non riesce a colpire una sola volta il nemico, che rapisce Caska e vola via sulla schiena di Zodd arrivato sull’isola in volo. Il Guerriero Nero rimane sconvolto per non essere riuscito a infliggere un solo colpo; lui che non aveva mai creduto in niente, ma solo sulla sua spada, si vede venire meno l’unica convinzione che aveva. Sentendosi tradito, crolla. Salvato ancora una volta (lui e gli altri compagni) dal Cavaliere del Teschio, Gatsu viene messo al sicuro sulla nave con il quale sono arrivati mentre l’isola degli Elfi collassa e le creature fantastiche si dissolvono lasciando il mondo reale; così, uno sconvolto Isidoro vede svanire davanti a sé Isma (in parte sirena), tenendo tra le mani l’unica cosa che resta di lei, i vestiti.
Altrove, nella città di Falconia, Caska viene servita e trattata come una principessa, ma si capisce da subito che non è se stessa, è come se fosse in trance, vittima di un’ipnosi; riesce a uscire da questo stato e tenta di ribellarsi e scappare, ma viene ripresa e riportata nello stato in cui era costretta.
Sulla nave, le streghe e i maghi fuggiti dall’isola ormai scomparsa stanno perdendo i loro poteri, dato che non c’è più l’albero di ciliegio da cui traevano la magia, e così tutto quanto riguarda ciò che viene dal mondo spirituale dipende da Farnese e da Shilke. E mentre la piccola maga si appresta a dare il via a un rito per mettersi sulle tracce di Caska, e Gatsu deve fare i conti con lo spirito della sua armatura, la nave viene assalita dai Kushan.
Cosa dire del primo volume realizzato senza Kentaro Miura?
Per quanto riguarda la storia, è ancora presto per dare un giudizio, dato che non ci si è allontanati molto dalle ultime vicende narrate da Miura; l’unica cosa che ci può notare (non si sta dando una connotazione negativa alla cosa, è solo una costatazione) è che ci sono meno dialoghi rispetto a certi volumi realizzati dal Kentaro (questo però non vuol dire molto, dato che anche per certi capitoli l’autore di Berserk non ne ha usati molti, basta vedere il volume 80 dell’edizione regolare).
Per quanto riguarda i disegni invece, il livello rimane alto e non delude; certo, Miura era Miura, ma i membri dello Studio Gaga hanno reso onore al compianto mangaka dimostrando grande impegno e perizia.
Mori e Studio Gaga in questo Berserk 42 sono stati convincenti: ci si augura che continuino così (e anche meglio se possibile, così da dare una degna conclusione a questa lunga storia.)
Alle volte si vorrebbe scrivere altro, ma ci sono cose che vanno mostrate e di cui occorre parlare. Tante sono le polemiche nei confronti del governo e le reti televisive pubbliche, per molti divenute fonte di propaganda del governo, al punto da soprannominarle Tele Meloni; tutto questo non è certo nuovo, dato che una cosa simile accadeva già al tempo dei governi Berlusconi. Tuttavia, succede che certi fatti sono così grotteschi da non meravigliarsi se ci sono contestazioni. Ormai delle uscite infelici di Lollobrigida e Sangiuliano si è perso il conto (tra quelle del ministro della cultura vanno annoverate quella di essere giudice del premio Strega e il suo non aver letto “approfonditamente” (aggiunta dove aver fatto intendere di non aver letto i libri) i testi in concorso, di aver asserito che Dante era fondatore del pensiero di destra e che Colombo si era ispirato a Galileo Galilei (nato decine d’anni dopo la scoperta dell’America) per i suoi viaggi), però l’ultimo fatto avvenuto è sia grave sia ridicolo: Sangiuliano va al Taobuk e viene fischiato. Ma i fischi nel video trasmesso dalla Rai sono spariti e al suo posto ci sono applausi. La Rai interviene per dire che non è stata lei (responsabilità appartente, secondo la Rai, agli organizzatori di Taobuk). Questa cosa, oltre a falsare gli eventi, può che essere presa come propaganda per il ministro e il governo; ricorda un vecchio film, Fuga per la vittoria, dove, durante la partita tra nazisti e Alleati, il commentatore nazista metteva applausi finti per far credere che il pubblico incitasse il bel gioco della squadra tedesca, quando invece il pubblico se ne stava in silenzio.
Quello che fa sorridere, ma è un sorriso amaro, è che solo un giorno prima Salvini aveva parlato di ditttura delle minoranza: secondo il ministro, “C’è la minoranza che spesso e volentieri si comporta da maggioranza, pretendendo di imporre alla maggioranza politica e culturale del paese il suo modo di vivere e ragionare. Semmai quindi qua c’è il problema della dittatura delle minoranze, non il contrario”. Il suo intervento è nato in risposta alle parole di Mattarella: “Non trasformare il diritto della maggioranza a governare in un assolutismo della maggioranza; bisogna rimanere coscienti dei propri limiti nell’esercizio del potere: il “dovere di governare” non può mai significare una restrizione dei diritti da parte della maggioranza nei confronti della minoranza.”
E visto che per qualcuno le minoranze sono un problema, ci si domanda se, sempre per quel qualcuno, la soluzione sia come quella del film It – Capitolo 2, dove un omosessuale viene pestato a sangue e poi buttato da un ponte.
Una possibilità neanche tanto immaginaria, dato che in parlamento, forze della maggioranza hanno aggredito in branco il deputato Donno, prendendolo a calci e pugni (un fatto che ha ricordato lo squadrismo); un’aggressione che poi semplicemente è stata fatta passare dalle forze di governo come disordini.
Quale sia la direzione presa da questo governo italiano è chiaro; occorre vedere se la maggioranza delle persone che lo hanno votato capisca l’errore che ha commesso.
Era da tempo che avevo intenzione di scrivere questo articolo, ma per un motivo o per l’altro mi sono ritrovato a rimandare; l’articolo di Andrea D’Angelo mi ha dato l’input di farlo. Il mio non voleva essere un pezzo che esamisse in generale l’argomento, per esso vi suggerisco di leggere quanto scritto da Andrea, ma una breve analisi su dei miei lavori, uno in particolare. L’Ultimo Potere appartiene al ciclo di I Tempi della Caduta, è il secondo che ho scritto di questa serie in ordine di tempo, ma non è il secondo in ordine cronologico per quanto riguarda il verificarsi degli eventi, bensì il terzo (il secondo, che si pone tra esso e L’inizio della Caduta, è in fase di stesura): per chi non lo conoscesse, si tratta di un romanzo che mette insieme fantasy (demoni), sovrannaturale (spiriti) e fantascienza (esperimenti genetici, mutazioni). Tuttavia, per non creare false aspettative, non è un romanzo di pura e semplice azione; chi ha letto le mie opere ha potuto vedere che lascio spazio all’introspezione dei personaggi, perché la ritengo parte importante sia per lo sviluppo della storia, sia per arricchire la lettura. Rispetto agli altri miei lavori però, in L’Ultimo Potere ho voluto fare qualcosa di diverso, ovvero, non ho voluto che fosse solo un romanzo, ma ho fatto sì che il romanzo si unisse alla saggistica. No, non c’è da aspettarsi un capitolo d’azione e un capitolo di dissertazioni filosofiche, eliminiamo subito i dubbi: semplicente all’interno della storia ho voluto creare delle scene, per lo più quelle inerenti al personaggio di Maestro, dove di analizzavano certi temi come se si facesse filosofia (forse non è il termine più adatto da utilizzare, ma serve per rendere l’idea, vista la ricerca di conoscenza, comprensione e verità che i personaggi fanno durante le vicende). In questa scelta devo ammettere che sono stato influenzato dalla visione del film Il settimo sigillo di Ingmar Bergman, in special modo dalla partita a scacchi tra Antonius Block (Max von Sydow) e la Morte (scena che ho voluto omaggiare in un qualche modo in L’Ultimo Potere).
Secondo alcuni pareri ricevuti questo è un difetto, per qualcuno il romanzo così non funziona; se si vuole, questo in un qualche modo è vero, perché non si tratta solo di un romanzo: una parte infatti non è romanzo. Ero conscio delle obiezioni che poteva sollevare la lettura di L’Ultimo Potere e rispetto l’opinione che viene data in questo senso; tengo però a precisare una cosa: è stata una scelta voluta, non si è trattato di un sbaglio. Quando ho voluto scrivere L’Ultimo Potere, volevo farlo esattamente così: può piacere o non piacere, ma non è stato un errore di valutazione. Sicuramente non rispecchia i canoni classici che la pubblicazione tradizionale richiede, come non rispecchia i dettami di opera commerciale, ma L’Ultimo Potere non è e non vuole essere un’opera commerciale, dove ci si adegua alle regole del mercato: se avessi voluto farlo, avrei scritto qualcos’altro. Questo perchè L’Ultimo Potere è nato da un impulso oscuro che voleva raccontare una storia che i più vorrebbero evitare di sentire.
Detta così, la cosa appare melodrammatica, tenebrosa, quasi da poeta maledetto, per questo meglio fare qualche passo indietro e raccontare come sono andate le cose.
Quando finii di scrivere Strade Nascoste, mentre facevo la revisione, subito partii con la prima stesura del secondo romanzo su Asklivion; scrivevo a ritmo costante, con buona ispirazione, al punto che in breve tempo scrissi diversi capitoli per un totale di circa duecento pagine. A un certo punto però cominciò ad affacciarsi alla mente un’altra storia che, nonostante cercassi di metterla da parte e di dirle di starsene buona perché dovevo continuare a scrivere altro, faceva sempre più pressione per prendere forma: era una storia cupa, una storia che toccava elementi reali come il mobbing, le morti bianche, il piegare tutto ai soldi, dignità calpestate, perdita d’umanità. Già in Strade Nascoste c’era l’idea (che poi ho applicato maggiormente in seguito) che la scrittura non dovesse essere solo intrattenimento; nella storia che stavo allora per scrivere era presente ancora con più forza, perché alle volte è necessario sensibilizzare su certe tematiche, denunciari certi problemi. Soprattutto se i più cercano di evitare di parlarne: a questo punto, diventa quasi dovesoro che qualcuno ne parli.
Così mi fermai col mondo di Asklivion (e purtroppo devo dire che è ancora fermo) e cominciai a scrivere quella storia; allora aveva un altro titolo, ma sarebbe poi diventata L’inizio della Caduta. La storia si rivelò complessa e non poteva certo essere messa in un unico volume: uno, perché sarebbe divenuta troppo lunga, due perché i fatti da narrare si evolvevano in tempi differenti, con dei lassi temporali che variavano da qualche anno a diverse decine di anni (o anche un po’ di più).
Il ciclo di I Tempi della Caduta non era stata prefissato, come invece era successo con quello di Asklivion, ma l’ispirazione non avvisa sul quando arriva: la si può accettare o non accettare. In un caso di possono cogliere, delle occasioni nell’altro… beh, se ne possono cogliere altre, che portano altrove.
Le opere che ho scritto non mi hanno fatto diventare ricco monetariamente (ben lungi dall’esserlo) e dubito che mai lo faranno, ma mi hanno permesso di migliorare il mio modo di scrivere, mi hanno aiutato a prendere atto di certi aspetti della vita e mi hanno permesso di vederli sotto altri punti di vista. Quindi, posso definire che quanto fatto è stato un successo; qualcuno potrebbe vederla come un modo di raccontarsela per non essere riuscito a raggiungere pubblicazioni danarose (una sorta di la volpe e l’uva, dove l’animale, non potendo raggiungere il frutto, si dice non interessato ad averlo) oppure definire quello che ho fatto un fallimento: non posso certo far cambiare idea a chi la pensa così. Certo, maggiori entrate economiche con la realizzazione delle mie opere non avrebbero certo fatto schifo, anzi, però bisogna anche vedere che ci sono aspetti della vita che vanno oltre il guadagno, perché non tutto gira attorno ai soldi (anche se è, al momento, necessario per la sopravvivenza).
Le Fasce del Lutto è il terzo volume della seconda trilogia di Mistborn di Brandon Sanderson e prende il nome dai bracciali feruchemici indossati dal Lord Reggente (l’antagonista del primo volume della prima trilogia Mstborn), contenenti un potere capaci di far divenire praticamente una divinità.
Waxillium, che si sta ancora riprendendo dagli eventi del romanzo precedente, sta per sposarsi con Steris come da contratto tra le due famiglie; naturalmente, trattandosi di lui, le cose non possono andare per il verso giusto e la cerimonia viene interrotta da un’inondazione causata dal ribaltamento di una cisterna d’acqua. Non bastasse questo, viene raggiunto da un kandra che lo mette a conoscenza di alcuni fatti importanti: un suo simile ha fatto una grande scoperta, il probabile ritrovamento delle Fasce del Lutto del Lord Reggente. Il problema è che gli è stato tolto uno dei suoi spuntoni (è grazie a essi che sono stati creati e hanno i loro poteri) e le sue memorie non sono affidabili. Sembra che dietro tutto questo ci sia Quadrante (zio di Wax e membro dell’Ordine); senza contare che la sorella di Wax sembra essere tenuta prigioniera proprio da Quadrante.
Wax, assieme al fido Wayne, Marasi, Steris e MeLaan parte per questa nuova avventura, che inizia subito con un assalto al treno su cui viaggiano. Giunti a Nuova Seran, la città esterna da cui far partire la ricerca, le cose appaiono più gravi del previsto: si sta creando una sollevazione contro la capitale Elendel. E naturalmente dietro tutto questo non può che esserci Quadrante e l’Ordine. Finiti di nuovo nei guai, Wax e compagni devono fuggire alla svelta, recandosi in una zona dove sta succedendo qualcosa di grosso. E qui mi fermo per non fare altri spoiler; ma ci saranno colpi di scena, tradimenti (l’unica cosa che si può aggiungere è che Quadrante non è così in alto nelle gerarchie dell’Ordine).
Brandon Sanderson con Le Fasce del Lutto amplia il mondo dei Mistborn, mostrando non solo le città esterne alla capitale, ma rivelando che ci sono altre regioni e popolazioni, con la loro storia e cultura; nuove tecnologie sono immesse, vengono date nuove informazioni sui poteri (si parla d’Investitura, già sentita nelle Cronache della Folgoluce) e si avvicina sempre di più la minaccia di Trell, che, per chi conosce il Cosmoverso di Sanderson, è qualcuno di molto potente, appartenente ai Frammenti.
Tutto questo è interessante, così com’è interessante il ritorno di una figura già vista nella prima trilogia (come già detto, niente spoiler), tuttavia, benché si sia davanti a un altro buon lavoro di Sanderson (unica nota che mi viene da fare è il soffermarsi, durante una frenetica scena d’azione, in una descrizione del paesaggio), è un po’ meno d’impatto del volume precedente, dove Wax non solo scopre che la donna che aveva amato nelle Lande non era morta, ma che altro non era che il kandra impazzito che stava minando la società e che lui ha dovuto fermare a tutti i costi, uccidendola definitivamente.
In Le Fasce del Lutto c’è più azione e meno mistero, ma questo è pure logico, perché arriva il momento in cui si deve dare risoluzione a quanto mostrato, non potendo lasciare tutto avvolto nelle nebbie (affermazione che in questa ambientazione calca alla perfezione); questo però non inficia la godevolezza del volume (finito di leggere in poco tempo, benché l’avessi centellinato per godermelo il più possibile).
Che cosa dire delle elezioni di giugno 2024?
Che c’è stato un aumento dei voti per la destra, anche se la maggioranza continua a essere europeista. La cosa divertente, se la si vuole mettere in questo modo, è che al termine delle votazioni sono tutti contenti, è come se avessero tutti vinto, anche se c’è chi ha perso (e pure male); che piaccia o no, che sia solo apparenza, questo è il gioco della politica.
Ma che cosa hanno portato queste elezioni?
In alcuni casi hanno portato delle scosse non indifferenti in certi paesi. In Francia, per la vittoria di Le Pen, è stato deciso di sciogliere il Parlamento e di andare a elezioni anticipate. In Belgio, il primo ministro si è dimesso. In Germania, con l’AfD al secondo posto, il partito del Cancelliere Scholz ottiene uno dei risultati peggiori e la sua posizione non è più forte come prima. In Italia, a parte le delusioni di Renzi e Calenda (ma la cosa non sorprende, visto lo spessore dei due politici), c’è solo da annotare i malumori interni della Lega, con uno dei suoi fondatori, Bossi, che ha preferito votare un esponente di FI piuttosto che il suo partito vista la scelta di Salvini di puntare su Vannacci (figura che strizza sempre più con forza l’occhio al fascismo, anzi è più di uno strizzare l’occhio): ci si dovrebbe domandare se c’è davvero da esultare, visto che con Vannacci si saranno ottenuti dei voti, ma ne sono stati persi anche da una parte interna che è contraria alla sua scelta.
Questi risultati sono sorprendenti, come dice qualcuno?
In verità, no. Uno, perché da tempo si respira un clima d’intolleranza e la voglia di autoritarismo che sono propri delle destre. Due, perché ciclicamente la gente, stanca di vedere sempre i soliti problemi e costatare che non ottengono soluzione, si stanca e allora vota per la parte opposta a quella al momento al comando, con la speranza che tale scelta porti al cambiamento. Cosa che spesso non avviene e così, alle elezioni successive, fa cambiare di nuovo il voto. Ormai è divenuta una cosa ripetitiva.
Che cosa porteranno queste elezioni?
Al momento nulla: le cose dovrebbero rimanere come sono. Tuttavia, non si può rimanere indifferenti alla crescita dell’intolleranza, dell’odio verso il diverso, del desiderio di autoritarismo e di certe derive che vedono come soluzione l’uso del braccio e del manganello più che della ragione; come bisogna prestare molta attenzione al correre dietro qualsiasi cosa che possa portare maggior consenso o a certe dichiarazioni che vengono fatte tipo quelle di Salvini: “Il popolo ha sempre ragione nel bene e nel male”: un modo di dire non solo sbagliato, ma molto pericoloso: con simili frasi e mentalità si giustificano anche le cose più orribili. Seguendo quanto affermato da Salvini, il popolo tedesco eleggendo Hitler aveva ragione e aveva ragione con tutto quello che ne è seguito: la Seconda Guerra Mondiale, con le sue decine di milioni di morti e la macchia indelebile dei lager e dell’Olocausto. Il fatto che poi tanti pensino che una cosa sia giusta non la rende giusta, la maggioranza non è sinonimo di giustezza: per tanti anni in tanti hanno reputato che l’amianto fosse una grande scoperta e si sono costruite tante strutture con esse, salvo poi scoprire che l’amianto era molto dannoso per la salute delle persone.
In un periodo delicato come questo bisogna fare molta attenzione alle scelte che vengono fatte e pensare alle conseguenze che comportano, soprattutto con quello che sta succedendo, con tanti paesi in attrito tra loro, pronti a scatenare conflitti (Europa, Stati Uniti e Russia tra di loro; Israele con il mondo arabo; il mondo arabo pronto a farsela con chiunque non sia dei suoi; la Cina contro Taiwan; la Corea del Nord contro quella del Sud).
L’anno del Demone, secondo volume di Le Cronache delle spade di Inazuma di Steve Bein, è un buon libro ma non raggiunge il livello del suo predecessore, La figlia della spada. Come nel primo volume, la narrazione è divisa tra passato e presente: nel passato si narrano le vicende di Daigoro, personaggio già incontrato e possessore della spada Vittoria Gloriosa Indesiderata, e di Kaida, una ama (pescatrice subacquea) che vive in una sperduta isola e che sogna di andarsene per stare così lontana dalla gente limitata del suo villaggio e soprattutto dalla perfidia delle tre sorellastre, che fanno di tutto per rendere la sua vita un inferno. Nel presente continua la storia di Mariko, alle prese con un intricato e misterioso caso in qualche modo legato al lascito del suo senpai.
Tutto ruota attorno alla Maschera del Demone, un oggetto che pare avere un legame particolare con la spada Vittoria Gloriosa Indesiderata: la prima volta viene usata per ritrovare la spada da una nave inabissata (la parte che vede protagonista Kaida). Nella seconda il possessore dell’artefatto sviluppa un’ossessione verso l’arma dopo che essa l’aveva danneggiata ai tempi di Daigoro. Cosa che si ripete la terza volta quando viene rubata da casa di Mariko. In più ci i aggiunge la presenza del Vento, un clan di shinobi dalle grandi capacità e dall’ampio addestramento, che può essere considerato un protagonista del romanzo al pari di Kaida, Daigoro e Mariko.
La parte più interessante, a mio avviso, è quella riguardante Daigoro, giovane signore del casato Okuma (e ora anche giovane sposo) impegnato nel difficile compito di governare le sue terre e seguire il bushido, la strada del guerriero: essere governante, fare la cosa giusta e camminare sulla via dell’onore sono spesso difficili da far coesistere e per Daigoro le cose non si mettono bene, soprattutto quando per non far uccidere un innocente attira le ire di Shichio, generale agli ordini del reggente Hideyoshi (figura storica realmente esistita) e possessore della Maschera del Demone. Ossessionato dall’avere la spada di Inazuma, cerca in ogni modo di eliminare il povero Daigoro. E anche se quella di Daigoro è la parte migliore, presenta una scena che lascia perplessi: benchè possegga una spada prodigioda come Vittoria Gloriosa Indesiderata (capace di far vincere sempre chiunque non abbia sete di combattimento ma che combatte solo perché costretto), fa un po’ pensare come un diciassettenne menomato a una gamba fin dalla nascita possa mettersi a correre e sconfiggere (anche se con l’aiuto di un membro del Vento e di Katsushima, un ronin) una cinquantina di soldati. Personalmente la trovo una cosa un poco inverosimile (non lo sarebbe se fossimo in una seduta di D&D o in un fumetto di supereroi, ma in una storia del genere per me lo è).
La parte inerente Mariko è sì valida, ma non allo stesso livello del romanzo precedente: ci sono le indagini sulla setta che vuole cambiare l’ordine stabilito, c’è il nesso tra la maschera e la spada, c’è il ritrovamento della spada (che avviene un po’ per caso), ma benchè il tutto scorra abbastanza agevolmente, manca quel pathos che invece in La figlia della spada era ben presente.
In definitiva L’anno del Demone è una lettura godevole, ma un paio di gradini sotto il romanzo precedente alla saga scritta da Steve Bein.
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