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Un altro anno che se ne va

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un altro anno che se ne va

L’anno che se ne va è stato un anno di violenza. Donne uccise come mosche (femminicio è stata scelto per questo come parola dell’anno), fronti di guerra che non fanno che crescere (non bastavano l’Ucraina e i tanti conflitti non menzionati nei tg in Africa, ma ci si doveva aggiungere quelli tra Israele e Palestina, senza contare quello possibile nel Mar Rosso) e la crescente voglia di violenza che certe nazioni hanno (Iran su tutti, un paese guidato dal fanatismo, dove si ammazzano le donne solo per un velo mal posizionato e chiunque sia sospettato di spionaggio).
Un anno dove la politica continua a non fare nulla per il paese e la popolazione, ma si esalta e si elogia per cose che non ha compiuto, prendendo in giro le persone ritenendo che gli si possa far credere tutto quello che si vuole.
Un anno come tanti, si potrebbe dire, dato che è un continuo ripetersi di cose già viste, solo che pare che dopo la pandemia la gente si sia impegnata a dare il peggio di sè e non a tirare fuori il meglio che ha.
Un anno che verrebbe da dire sarebbe meglio dimenticare. Ma sarebbe un errore, perché a furia di dimenticare, soprattutto voler dimenticare, quello che di sbagliato si è fatto si ripeterà negli anni futuri. Per questo occorre fissarsi bene nella mente questi sbagli, questi orrori e tenerli ben vivi per far sì che non si ripresentino: solo così si potranno avere dei migliori anni a venire.

 

P.s.: qualcosa per riflettere: https://www.fanpage.it/esteri/il-2024-non-e-ancora-iniziato-e-gia-assomiglia-a-un-incubo-orwelliano/

La ragazza che saltava nel tempo

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La ragazza che saltava nel tempoLa ragazza che saltava nel tempo è il primo film diretto da Mamoru Hosoda e c’è da dire che la sua è stata una buona prova, seppur ci siano dei punti in cui ci si fanno delle domande.
Ma andiamo con ordine.
Makoto è una ragazza delle superiori come tante, allegra, spensierata, alle volte un po’ distratta, che combina qualche pasticcio e non va tanto bene a scuola; passa le sue giornate assieme ai suoi compagni di classe e amici Chiaki e Kosuke andando in giro in bici e giocando a baseball.
Un giorno ha un piccolo incidente nel laboratorio di scienze, a cui non dà alcuna importanza. Mentre torna a casa da scuola, i freni della sua bici si rompono e non riesce a fermarsi al passaggio a livello del treno, venendo sbalzata sui binari e travolta; la sua sembrerebbe una morte certa, ma lei si ritrova invece ancora viva, ancora sulla strada che porta al passaggio a livello. Ne parla con la zia e lei le spiega che forse ha saltato nel tempo, una cosa che anche a lei era successa in passato; Makoto pensa che la stia prendendo in giro, ma scopre che saltando può davvero tornare indietro nel tempo e da allora in poi comincia a usare lo strano potere per mettere a posto tutto ciò che non le va. Per lo più si tratta di sciocchezze, anche se la zia la ammonisce che così facendo, ciò che per lei è un bene, per un altro può rivelarsi un male (scambiandosi di posto con un compagno di classe nella lezione di cucina evita di fare un piccolo incidente, che lo farà accadere invece il compagno, e tutto sembra finire lì, se non fosse poi che il compagno viene preso in giro e bullizzato e lui, reagendo, finisce per ferire una sua amica).
Makoto però non la ascolta e continua a fare di testa sua, fino a quando prima uno, poi l’altro dei suoi amici, le chiedono di uscire con lei; non volendo che il loro rapporto cambi, sfuggendo a sentimenti e responsabilità, usa il suo potere in modo che tutto ciò non accada. Tuttavia, si accorge che sul braccio ora ha tatuato un numero, che cambia ogni volta che fa un salto nel tempo; quando il conteggio è a uno, lei lo utilizza per evitare che Chiaki le faccia una domanda e con orrore si accorge che non può salvare Kosuke e la sua ragazza dallo stesso incidente in cui lei sarebbe morta se non fosse stato per il suo potere.
In quel momento il tempo si ferma e compare Chiaki, a sua volta anche lui capace di saltare nel tempo, che ha utilizzato la sua ultima carica; come rivelerà a Makoto, lui viene da un’epoca futura e può fare salti nel tempo grazie a un particolare congegno (che Makoto ha toccato quando ha avuto l’incidente nel laboratorio di scienze). Il suo scopo è trovare un particolare dipinto (che la zia di Makoto sta restaurando), ma avendo finito le cariche, ora non può più tornare nel suo tempo; inoltre, rivelando il segreto di ciò a Makoto, scomparirà.
Makoto è disperata, accorgendosi solo ora di essersi innamorata di Chiaki, ma mentre è a casa scopre che ha ancora una carica (il salto di Chiaki ha annullato il suo ultimo salto) e così può effettuarlo per tornare indietro nel tempo e parlare un’ultima volta con Chiaki prima che torni nel futuro; lei, che non sapeva cosa fare da grande, s’impegnerà a continuare il lavoro della zia e fare sì che il dipinto arrivi fino all’epoca di Chiaki. Lui, prima di andarsene, le dirà che l’aspetterà nel futuro.
Quello di La ragazza che saltava nel tempo è un finale dolceamaro, con Makoto che finalmente accetta le responsabilità e sa che strada prendere per il futuro, ma che probabilmente non potrà mai più rivedere il suo amore (non si sa quanto è lontana l’epoca da cui viene Chiaki); rimane comunque un buon finale e la storia è ben diretta, anche se non si sa come funziona il meccanismo di viaggio nel tempo e neppure come Makoto fa a utilizzarlo così bene. Senza contare che non si sa perché il dipinto che ricerca Chiaki è così importante da richiedere così tanti sforzi (si capisce che Chiaki ha viaggiato a lungo e in diverse epoche).
Questi punti sono oscuri probabilmente perché occorrerebbe avere letto Toki o Kakeru Shōjo di Yasutaka Tsutsu, da cui Hosoda prende ispirazione (il che serve ancora di più a capire come perché l’elemento fantascientifico è asservito alle storie dei protagonisti); la lettura del romanzo inoltre fa capire meglio il personaggio della zia di Makoto, visto che lei ne è la protagonista, e che in La ragazza che saltava nel tempo funge da anello di congiunzione tra le due opere (se si vuole approfondire di più la cosa, suggerisco la lettura di questo articolo).
Tuttavia, pure senza la lettura del romanzo e con i suoi punti oscuri, La ragazza che saltava nel tempo è un film godibile, che raggiunge il suo scopo.

Mirai

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MiraiMirai, pellicola d’animazione del 2018 diretta da Mamoru Hosoda, è una storia di crescita, raccontata attraverso l’esperienza un po’ particolare di Kun, un bambino di quattro anni un po’ viziato, e di come la sua vita cambia con l’arrivo della sorellina Mirai (che in giapponese significa Futuro: una scelta non certo casuale, visto come si svolgeranno le vicende).
Dapprima entusiasta, il piccolo Kun vedendo tutte le attenzioni dei genitori rivolte alla nuova arrivata, si sente geloso, tradito e abbandonato, convinto che il papà e la mamma vogliano più bene a Mirai che a lui. Dopo l’ennesima volta in cui si sente messo da parte, corre in giardino, sotto l’albero cui la casa è stata un po’ particolarmente costruita attorno, e in quel momento accade qualcosa di strano che non capisce; dopo quel fatto compare uno strano uomo con baffetti che si fa chiamare Principe; oltre ai baffetti ha anche una coda, che presto Kun ruberà e farà sua. In breve scoprirà che Principe altro non è che il suo cane Yukko, che gli rivelerà che lui ha provato proprio quello che sta passando lui, dato che con la nascita di Kun è stato messo da parte e ha ricevuto meno attenzioni.
Ma le sorprese non sono finite qui: quando il padre si dimentica di mettere a posto le bambole dell’Hinamatsuri (festa delle bambine che cade il 3 marzo: seconda la credenza, i genitori, pregando, passano la sfortuna alle bambole, proteggendo così le loro figlie dalla malasorte), compare una ragazza che gli spiega di essere la Mirai del futuro (questo sempre dopo che Kun è andato nel giardino) e che deve aiutarla a mettere via le bambole altrimenti non si sposerà (sempre secondo tradizione, se le bambole non vengono riposte il giorno dopo la fine della festa, la ragazza sarà costretta ad aspettare un anno per sposarsi); aiutati da Principe/Yukko, e non senza peripezie per non farsi scoprire dal padre intento a lavorare in casa, riusciranno nell’impresa.
Dopo l’ennesimo capriccio fatto con la madre per avere una bicicletta, Kun corre in giardino e viene trasportato in un altro luogo, dove incontra una bambina che riconosce essere sua madre da piccola (ha visto una sua foto in precedenza); andrà a casa sua e scopre che anche a lei è stato negato di avere qualcosa (la nonna non gli ha preso un gatto per via dell’allergia). Insieme metteranno a soqquadro la casa, salvo poi sentire il forte rimprovero della nonna per la confusione creata.
Un nuovo incontro avviene quando Kun s’arrabbia perché il padre, preso dall’occuparsi della piccola Mirai, non l’ha aiutato a imparare ad andare in bici senza rotelle: sbalzato dal giardino a un hangar di motori di aeroplani, incontra un uomo che pensa essere il padre (mentre invece si tratta del suo bisnonno) che gli dice che c’è una prima volta per tutto e facendolo andare a cavallo e in moto gli fa vincere la paura di provare. Il giorno dopo l’esperienza, Kun chiede di andare al parco e riprovare a imparare ad andare in bici; dopo diversi tentativi, ci riuscirà.
L’ultima esperienza Kun l’ha quando litiga con la madre perché vuole un paio di pantaloncini diversi e si rifiuta di partire con loro per le vacanze; appena mette piede in giardino, sente la voce di un ragazzo (lui fra qualche anno) che lo redarguisce, ritrovandosi all’improvviso a una fermata di treno dove chi gli ha rivolto la parola gli spiega che sta sbagliando, ammonendolo di non salire sul treno. Ma Kun non lo ascolta e si ritrova nella grande stazione dei treni di Tokyo, perdendosi; si rivolge allo strano uomo degli oggetti smarriti, ma non conoscendo il nome di nessun parente, rischia di finire sul treno che conduce nella Terra dei Bambini Soli. E rischia di finirci anche la piccola Mirai, comparsa all’improvviso; ma Kun riesce a salvarla e a dire che è suo fratello. A quel punto l’addetto agli oggetti smarriti chiama Mirai e al posto della neonata compare la sorella adolescente che viene dal futuro, che lo riporta a casa. Mentre stanno volando verso casa, dirigendosi all’albero del giardino, Mirai gli spiega che quello è il grande albero della storia della loro famiglia, dove sono raccolti i capitoli (passati, presenti e futuri) dei suoi appartenenti; adesso devono trovare il capitolo esatto in cui Kun deve rientrare.
Kun scopre eventi che riguardano il padre (le sue difficoltà da piccolo a imparare ad andare in bici), la madre (che non volle più un gatto dopo che uno di loro uccise una rondine), il bisnonno (ferito gravemente durante la Seconda Guerra Mondiale, che decise di voler vivere a tutti i costi e così poter sposare la bisnonna) e il suo cane (che da cucciolo lasciò la madre per andare a vivere con i genitori di Kun) e capirà che senza di essi lui e la sorella non avrebbero potuto esistere.
Ritornato nel suo tempo, andrà in vacanza con la sua famiglia.
Mirai è un bel film, senza però essere eccezionale; certe scene sono divertenti, altre toccanti, il tutto con un protagonista che alterna tra l’essere dolce e l’essere irritante, come spesso fanno i bambini della sua età. Una pellicola che lascia qualcosa di buono alla fine e per questo occorre fare un plauso a Mamoru Hosoda.

Il vento fa il suo giro

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«Eddaiiiii! Su, schiva! Più veloce, più veloce!»
Tac, tac, tac.
«Noooooo, non così…»
Tac, tac, tac, tactactactac.
«Colpisci! Colpisciiiii!»
Tactactactactactactactactac. Aritactactactactactactactac.
«Avanti, rincoglionito d’uno Steiner! Dagli il colpo finale! Massacra il mostraccio, bastardo d’un cavaliere! Fagliela vedere a questo cazzone di boss! Massacralo! Massacralooooo!»
Tactactactactac.. tactactac… tac…tac…
Matteo abbassò il gamepad, osservando con espressione sconvolta le immagini sullo schermo della televisione che non si muovevano più.
«Macchecca… nooooo… non adesso che sono al boss finale… nooooo, non ti bloccare porca puttana, non ti blocc…»
«Non ci siamo bloccati, ci siamo stufati!» Sbottò il cavaliere sullo schermo voltandosi verso di lui. «E per dovere di cronaca, non sono Steiner: lui è di Final Fantasy IX, un altro gioco! Io sono l’ultimo dei cavalieri Valoriani!»
«Come?» domandò allibito Matteo.
«Final Fantasy IX, il gioco che ti ha prestato tuo padre quando gli hai chiesto com’erano i videogiochi ai suoi tempi» gli spiegò seccato il cavaliere sullo schermo.
«Ah, quello. Mamma quant’era noioso… e poi con quella grafica… troppo vecchio» sbuffò Matteo.
«Un po’ di rispetto!» tuonò il cavaliere. «Se noi siamo qui, è proprio grazie a giochi come Final Fantasy IX! Non scordarlo mai!»
«Oh no, un altro che fa il pippone…» bofonchiò Matteo.
«Non borbottare! E usa un po’ d’educazione!» il cavaliere piantò la spada nel terreno. «Il problema con voi bambini e ragazzi di oggi è che non sapete più apprezzare le storie! Volete spaccare tutto, far esplodere ogni cosa! Colpisci di qua, spara di là, fai saltare in aria questo, massacra quell’altro! E insomma!»
«Ma…» fece sbigottito Matteo. «Ma è quello che fai tu!»
«Il copione. Sono esigenze di copione: è quello che debbo fare quando tu ti metti alla console e giochi all’avventura dove sono stato messo.» Spiegò con calma il cavaliere. «Pensi che mi diverta a colpire a destra e a manca? A fare sempre le solite mosse? A dovermi sempre scontrare con lui?» Indicò il suo avversario. «A sentirti infamarlo tutte le volte?»
Matteo sgranò gli occhi. «Ma lo faccio perché sono dalla tua parte!»
«Beh, questo non mi piace. Non ti sei mai messo nei suoi panni? Ti farebbe piacere essere insultato? Trattato come tu tratti lui?»
«Lui è il cattivo!» protestò Matteo.
«Per forza: era l’unico ruolo rimasto» intervenne il boss finale. «Nessuno ci tiene a essere il cattivo del gioco: infamato, odiato… nessuno sta mai dalla tua parte. E poi ti tocca fare sempre le cose sbagliate, portare rovina, distruzione… Morti di qua, morti di là… il tutto perché voi ragazzini vi divertite a vedere queste cose. Pace e tranquillità davvero non vi devono piacere. Non le sapete apprezzare. E tutto perché vi annoiate e cercate un modo per passare il tempo.»
«Scusami, ma che cosa dovremmo fare per divertirci?»
«Vediamo… ci sono tante cose da fare. Io per esempio quando non devo essere il cattivo mi piace coltivare il mio orticello: ti rimette in pace col mondo.»
«A me invece piace starmene seduto sotto gli alberi a dipingere nuvole» disse il cavaliere Valoriano.
«Eccheppallle…» Matteo si bloccò quando il cavaliere lo guardò in cagnesco. Si schiarì la voce prima di riprendere a parlare. «Quindi… a voi non piace quello che fate nel videogioco?»
Il boss finale fece spallucce. «Si tratta di un ruolo come un altro. Quindi, va bene così. Quello che non ci sta bene è come veniamo trattati. Sai quanti cinni come te dobbiamo sopportare? Migliaia e migliaia! Scenate, urla, sedie prese a calci, anche bestemmie ci tocca sentire! E tutto perché avete perso una partita a un videogioco! Una partita che potete rigiocare in qualsiasi momento, tutte le volte che volete, perché tanto avete i salvataggi.»
«Sai com’è, la foga del momento…» provò a spiegare Matteo.
«Tutto quello che vogliamo è più di rispetto ed educazione» continuò il boss finale. «Più apprezzamento per la professionalità che ci mettiamo nell’interpretare il ruolo che ci è stato dato, anche se non ci piace.»
«Visto che tutto ciò viene a mancare, e non sembra esserci un qualche cambiamento nell’immediato, noi pg ci siamo stufati e abbiamo deciso di scioperare.»
«Voi volete fare cosa?» scattò esterrefatto Matteo.
«Scioperare. Sissignore. E non uno scioperino di qualche ora, come a qualcuno potrebbe passare per la testa: uno sciopero a oltranza, fino a quando voi cinni non avrete imparato educazione e rispetto. Non era nelle nostre intenzioni, né nei nostri compiti, ma visto che né la scuola né la famiglia ve le insegnano, è ora che qualcuno lo faccia. Per dovere d’informazione, tutti i personaggi di tutti videogiochi sono d’accordo e aderiscono allo sciopero.»
«Ma…»
«Puoi accettare o non accettare la nostra decisione, ma le cose così stanno.»
Matteo fece per protestare, ma il boss finale e il cavaliere Valoriano gli diedero le spalle, si misero le armi in spalla e s’incamminarono insieme, andando sempre più lontano fino a scomparire.
Matteo rimase a bocca aperta a fissare il paesaggio vuoto dello schermo. Per un attimo pensò a uno scherzo, ma i minuti passavano e i due non ricomparivano. Dopo mezz’ora spense la console e cambiò cd, ma la situazione era la stessa: partiva il gioco ma c’era soltanto il paesaggio. Nessuna traccia dei personaggi. Così per tutti i videogiochi che aveva. Ed era la stessa cosa per quelli online, che non necessitavano di una console.

Le cose non migliorarono nei giorni successivi e gli scenari continuarono a essere vuoti: i personaggi dei videogiochi erano stati di parola e avevano davvero deciso di scioperare. Dopo la sorpresa iniziale, Matteo si era dapprima innervosito, poi aveva preso a sclerare: proprio sul più bello doveva capitare! Come avrebbe fatto a sapere come finiva il gioco?
Aveva preso a calci le sedie, aveva girato per la stanza come se avesse del peperoncino nel sedere, ma poi, piano piano, aveva cominciato a cercare di trovare una soluzione. Aveva acceso la console e si era messo a fare promesse di ogni genere: che non avrebbe più insultato, che si sarebbe comportato bene. Si era messo anche in ginocchio supplicandoli di tornare.
Ma dopo un paio di giorni di questa storia si era sentito un po’ pirla a fare così e si era rassegnato al fatto che per non si sa quanto i personaggi dei videogiochi non si sarebbero fatti vedere.
A scuola poi le cose non andavano meglio, senza contare che anche gli altri erano nella stessa condizione e se ne stavano tutti imbronciati a fissare gli smartphone. Gli intervalli i cambio d’ora erano un supplizio perché non poteva più fare le sue partitine veloci in rete. Certo, c’erano i social, ma non potendo raccontare delle sue videogiocate, non sapeva di cosa parlare. Rimanevano i video su TikTok, ma poter mettere solamente dei “Mi piace” alla lunga stancava.
«Uffa, che palle questi giochi che non funzionano più» gli scappò un giorno durante l’intervallo.
«Bro, possiamo provare a fare una partita a carte» gli suggerì Riccardo, il suo vicino di banco, tirandole fuori. «Mio nonno mi ha insegnato alcuni giochi.»
«Non saprei, non ci ho mai giocato…» disse poco convinto Matteo.
«Non sono male. E poi, è sempre meglio di stare qui a non fare niente.»
Matteo dovette ammettere che giocare a carte non era davvero poi così male, anzi, era divertente. Soprattutto quando a lui e Riccardo si erano uniti Andrea e Alessandro e avevano fatto una partita a briscola in quattro. Però la cosa non si era fermata lì: Andrea aveva suggerito nel pomeriggio di andare al parco a giocare a calcio, anche se non lo avevano mai fatto prima. Non doveva essere una cosa così difficile, date tutte le partite che avevano fatto sulla Play. Matteo non poté che convenire: il principio era sempre quello che vedevano fare con la console, che ci voleva a calciare un pallone e rifare le stesse azioni?
La realtà però fu un pochino differente. Anzi, più che un pochino fu totalmente differente. I tiri, le azioni che facevano con la Play non erano assolutamente paragonabili e quelle che facevano loro; la palla non andava mai dove volevano, gli stop e i dribbling erano una cosa da Gialappa’s. Ma alla fine della loro partitella (un parolone definire così un due contro due) si erano divertiti come dei matti (era stato più il tempo che passavano a ridere e a sghignazzare per gli sbagli che facevano che a giocare).
Il giorno dopo si misero d’accordo per andare a fare due tiri a canestro nel campetto vicino alla scuola e per quello dopo ancora sarebbero andati a provare il tavolo da ping pong che il padre di Alessandro aveva tirato fuori dalla cantina mentre la svuotava.
Nel giro di un paio di settimane si erano praticamente dimenticati dei videogiochi, occupati com’erano a fare altro.

Il vento fa il suo giroSeduti sotto l’albero sopra la collina, il cavaliere Valoriano e il boss finale si godevano il tramonto.
«Abbiamo agito bene» disse il cavaliere.
«Già» rispose il boss.
«Ora i ragazzi hanno ripreso a interagire e a socializzare tra loro.»
«Vero.»
«Si guardano di più in faccia e passano meno tempo con gli occhi attaccati ai vari schermi.»
«Infatti.»
«Tutto è bene quel che finisce bene.»
«Quasi.»
«Perché?»
«Ora siamo senza lavoro.»
«È vero. Sinceramente, a questo non avevo pensato.»
«Adesso cosa facciamo?»
«Potremmo entrare nel settore degli antivirus: lì il lavoro non manca mai.»
«Non è che come lavoro mi prenda molto.»
Il cavaliere scrollò le spalle. «A essere franchi, non mi darei pena più di tanto.»
«Perché?»
«Il vento fa il suo giro e cose che adesso non vanno più, un tempo torneranno a essere in auge. I vecchi giochi prima non li fumava quasi più nessuno, ma ora sono tornati di moda. Presto o tardi, saremo noi videogiochi a tornare sulla cresta dell’onda. In attesa di ciò, godiamoci questo bel paesaggio.»

(Il titolo e la citazione nel finale vogliono essere un omaggio al film di Giorgio Diritti del 2006).

La forma della voce

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La forma della voceLa forma della voce è davvero un bel film. In rete si possono leggere delle critiche secondo le quali, per quanto Naoko Yamada abbia fatto un buon lavoro, non sia riuscito a mettere tutto quello che il manga di Yoshitoki Ōima ha raccontato in sette volumi, rendendo non del tutto chiara la storia. Sicuramente il manga potrà dare un quadro più completo della storia come spesso succede, ma anche se non ho letto l’opera di Oima posso dire con certezza che La forma della voce di Naoko Yamada è perfettamente comprensibile ed è qualcosa di toccante e meraviglioso.
Certo, in un paio di occasioni ci si chiede se certe situazioni potevano essere affrontate e mostrate in modo differente (quando la madre di Ishida s’arrabbia con il figlio per l’aver provato a suicidarsi, minacciando di bruciare i soldi che lui ha racimolato per rimborsarla della cifra che lei ha dovuto restituire per i danni che ha fatto ai tempi delle elementari; o come la sorella minore di Nishimiya cambiare voce facendosi passare per ragazzo), ma la pellicola non ne risente per niente.
Shoya Ishida è un bambino esuberante e scalmanato, che va sempre in giro con i suoi amici Hirose e Shimada; vive con la madre che fa la parrucchiera e una sorella maggiore, e ha una esistenza tutto sommato tranquilla. La sua vita cambia quando in sesta elementare arriva una nuova bambina, Shouko Nishimiya, che è sorda e per comunicare inizialmente usa un quaderno, visto che nessuno dei compagni conosce il linguaggio dei segni; solo Sahara, sua compagna di classe, cerca d’imparare tale linguaggio, mentre tutti gli altri non ne vogliono sapere, a partire da Ueno, che è la prima a opporsi quando la maestra di musica propone di dedicare qualche minuto della lezione a imparare il nuovo modo di comunicare con Nishimiya.
Dopo un iniziale periodo in cui si cerca di accettare la nuova arrivata, le cose prendono una piega sbagliata e tutto comincia da Ishida, che comincia a prendere sempre più in giro Nishimiya e a farle scherzi sempre più pesanti, specie quando le strappa dalle orecchie i costosi apparecchi acustici e li rompe, gettandoli lontano.
Benché sia Ishida a dare il via alla bullizzazione di Nishimiya, nessuno si è opposto al suo modo di agire: spesso si è lasciato correre (anche il maestro della classe ha chiuso gli occhi), alle volte si è stati partecipi degli scherzi e delle prese in giro. L’unica che è stata vicina alla nuova arrivata è Sahara e per questo anche lei è stata presa di mira, al punto che ha cambiato scuola. Rimasta sola, a Nishimiya non è rimasto altro da fare che rivolgersi alla madre che ha denunciato la cosa alla scuola; invece di prendersi ognuno le proprie responsabilità, a partire dal maestro della classe, tutto è stato gettato sulle spalle di Ishida, che viene scelto come capro espiatorio. Anche i suoi due più cari amici gli voltano le spalle e anzi, gli si rivoltano contro, cominciando a bullizzarlo.
Nonostante quanto subito, Nishimiya non porta rancore e cerca di essere dalla parte di Ishida, rimediando per come può agli scherzi dei compagni a suo danno (pulisce il banco del ragazzo imbrattato dagli insulti lasciati dagli altri), ma Ishida non riesce a comprendere il suo modo di fare e prova repulsione nei suoi riguardi e i due finiscono per accapigliarsi.
Nishimiya non finisce l’anno nella scuola elementare e si trasferisce in un altro istituto. Ishida invece patisce quello che ha fatto patire e la cosa continua anche alle medie, al punto che si chiude sempre più in se stesso, non riuscendo a guardare negli occhi gli altri. Arrivato al liceo, pensa e va vicino al suicidio gettandosi da un ponte, ma mente sta per gettarsi, sulla riva del fiume alcune persone fanno scoppiare dei petardi e quel semplice rumore lo fa fermare.
Divenuto consapevole di ciò che ha fatto passare alla ragazza per via anche di quello che ha passato (essere isolato da tutti, non avere amicizie che lo sostengono nei momenti difficili), decide di rimediare ai suoi errori e la va a cercare, cercando di divenire suo amico, proprio come lei aveva fatto con lui; proprio per questo prima impara il linguaggio dei segni ed è nel centro dove viene insegnato che reincontra Nishimiya.
Superata la diffidenza di Yuzuru (la sorella minore di Shouko, che inizialmente scambia per un ragazzo), che funge un po’ da sua guardia del corpo, Ishida si avvicina sempre più a lei. Nel mentre comincia a uscire dal guscio depressivo in cui era caduto e fa amicizia con un suo compagno di classe, Tomohiro Nagatsuka, dopo averlo aiutato con un bullo. Questo fa avvicinare altre persone, come Miki Kawai, che è stata in classe con lui anche alle elementari, e Satoshi Mashiba, che frequenta Kawai.
Per un po’ le cose sembrano andare bene, ma il ritorno nella sua vita di Ueno, compagna delle elementari che odiava Nishimiya accusandola di essere responsabile di quanto accaduto a Ishida, rompe l’equilibrio che si era andato creando, facendo litigare il piccolo gruppo formato da Ishida, Nishimiya, Sahara, Kawai, Mashiba e Nagatsuka.
Ishida si allontana da loro, rimanendo vicino soltanto a Nishimiya e Yuzuru, riuscendo perfino a farsi accettare dalla loro madre, che non l’aveva perdonato per quanto fatto alla figlia maggiore. Ma le parole di Ueno rivolte a Nishimiya fanno ricadere la ragazza in un forte stato depressivo (dopo gli atti di bullismo, era andata vicino al suicidio), al punto che prova a togliersi la vita gettandosi dal terrazzo di casa sua; solo l’intervento tempestivo di Ishida la salva, ma nel farlo il ragazzo rimane ferito e finisce in coma.
Al suo risveglio, lui e Nishimiya finalmente si chiariscono completamente e decidono di rimediare a ciò che è rotto, parlando con gli altri membri del gruppo e riappacificandosi, andando insieme al festival scolastico.
La forma della voce non è solo un film che denuncia il bullismo e quanto male può fare, ma mostra anche altri aspetti negativi dell’infanzia, come la crudeltà di cui possono essere capaci i bambini, perché non sono solo quelle creature innocenti e candide che spesso certe produzioni fanno passare. Ishida sicuramente è la figura che più mostra questo aspetto, ma gli altri compagni di classe non sono da meno. C’è Ueno, con i suoi commenti sprezzanti e il suo cinismo atto sempre a prendere in giro. Kawai, apparentemente gentile, ma che per non incorrere nella disapprovazione altrui, tace davanti ai soprusi, e anzi ride di essi, salvo poi fare la vittima quando viene tirata in ballo. Shimada, miglior amico di Ishida alle elementari, che non fa nulla per fermarlo e anzi, lui come tutti gli altri sorride delle angherie che commette, salvo poi colpirlo alle spalle davanti ai professori e dire che era colpa sua di quello che era successo a Nishimiya; non contento di ciò, comincia poi a perseguitare l’amico proprio come lui faceva con la ragazza, rivelandosi un individuo freddo, opportunista e doppiogiochista.
Anche gli adulti non ne escono ben rappresentati. Il maestro delle elementari è un menefreghista, infastidito dalla presenza di Nishimiya, che la vede come un peso e un intralcio per le sue lezioni; anche lui, come tanti alunni, lascia correre sugli scherzi feroci che fa Ishida. La madre di Nishimiya, troppo fredda, dura e iperprotettiva verso la figlia. In questo film i “grandi” o sono assenti o non agiscono, lasciando i giovani a cavarsela da soli; si salvano solo la mamma di Ishida e la nonna di Nishimya.
Bisogna parlare anche di un altro aspetto che il film mette in mostra: il suicidio. Il Giappone è un paese con un alto numero di suicidi tra gli adolescenti (anche se c’è da dire che è in aumento pure in altri paesi); il bullismo fa certamente la sua parte, ma lo è anche il sistema di vita del paese nipponico, che spinge a primeggiare, a ottenere buone posizioni, che alle volte fa ricadere troppa pressione sulle spalle dei ragazzi, divenendo insostenibile e spingendo a fare gesti estremi. E quando ci si trova vicini a questi fatti, ci sono sempre delle domande che tormentano chi resta. Perché è stato fatto questo gesto? Perché non ci si è accorti che qualcosa non andava? Si poteva fare qualcosa per evitarlo? Se solo gli si fosse parlato, gli si fosse rivolto un sorriso, un incoraggiamento, forse, allora, le cose sarebbero andate diversamente… E se…
Domande a cui non c’è risposta, che lasciano solo rimpianto e senso di colpa.
Fortunatamente, La forma della voce non è solo questo, anzi si può dire che più che altro è una storia di redenzione, della ricerca di una catarsi che liberi dal senso di colpa; certe azioni non possono essere cancellate e dimenticate, ma si può capire da esse gli errori che si sono commessi e più non commetterli. Le conseguenze del passato sono pesanti, e possono perseguitare e condizionare il presente e il futuro se non si riesce a comprenderlo e a superarlo. La cosa più pesante da affrontare però è accettare se stessi e non odiarsi per quello che si è o si è fatto: in questo Ishida e Nishimiya sono uguali. Lui odia se stesso per quello che ha fatto; lei per quello che è, anche se non ha alcuna colpa (nel film non viene mostrata l’origine della sua disabilità, cosa che fa invece il manga).
Questi però non sono gli unici punti in comune tra i due: entrambi non hanno padre (non viene spiegato se sono morti o se ne sono andati, ma questo non ha importanza: quello che ha importanza è la loro assenza), entrambi sono stati bullizzati e attraverso questa esperienza hanno sviluppato un modo di fare più compassionevole, che a un certo punto li farà avvicinare (è meglio dire che sarà Ishida a cercare di riavvicinarsi, perché Nishimiya aveva cercato di farlo da subito). E se si vuole, La forma della voce mostra anche come alle volte è difficile comprendere il confine che c’è tra odio e amore, al punto che si possono confondere i due sentimenti: Ishida è troppo piccolo per comprendere questo stato delle cose e nella confusione che si crea dentro di lui, finisce per credere di odiare e non sopportare Nishimiya, accorgendosi solo anni dopo che la questione era invece diversa.
Un film che tutti dovrebbero vedere e che soprattutto dovrebbe essere fatto vedere nelle scuole ai più giovani.