«”Caro, dove andremo quest’anno in ferie?”
“Da nessuna parte. Tra il caro bollette, il caro vita, il caro affitti e i tagli allo stipendio, non ci sono soldi per le ferie.”
“Proprio non ci sono soldi…?”
“No. Mica li posso rubare.”
… “Sostegno vittime di violenza? Salve, mio marito non mi rispetta e mi tratta male, potete intervenire? Non ce la faccio più, la mia vita è un inferno…”
Fu così che tante segnalazioni fatte al 1522 (il numero telefonico contro la violenza sulle donne) iniziavano. Così tante che le istituzioni non riuscivano a risolverli; le donne allora decisero di scendere in massa in piazza all’urlo di “Uomo! Bastardo! T’infiliamo nel gnulo il petardo!”, richiedendo una soluzione immediata alle vessazioni maschili che costantemente subivano.
Il governo fece delle proposte ma nessuna soddisfece le donne, che a gran voce richiesero un referendum per l’istituzione di un nuovo corpo di polizia. La loro richiesta passò e così nacquero i Caschi Rosa, un corpo armato in stile polizia morale dell’Iran, i cui membri erano tutte donne e avevano poteri di giudice, giuria e boia, in stile Dredd (un vecchio fumetto che anni prima di quei fatti andava di moda; ci fecero anche due film).
“Mio marito non mi ha fatto ridere ieri sera.” 10 manganellate.
“Mio marito non mi porta fuori a cena tutte le sere.” 30 manganellate
“Il mio fidanzato mi ha chiesto di fare sesso ieri sera, ma io ero stanca perché l’avevo data ai miei amanti in un foursome.” Brutto bastardo! 100 manganellate più sodomizzazione, così impara cosa si prova a prenderlo!
Queste erano solo alcune delle punizioni che gli uomini subivano per le accuse che venivano fatte loro. Ci furono molti morti per punizioni eccessive e furono fatte manifestazioni per questo, facendo notare che si stava facendo la stessa cosa di cui alcuni uomini si erano macchiate, ma furono represse con la forza e i pochi che continuarono a protestare furo messi a tacere.
Le donne non si limitarono a tutto ciò e ottennero la separazione dei sessi: scuole e ospedali per donne. Fu solo l’inizio: avanzando sempre più nei ranghi sociali, ottennero un potere sempre maggiore, arrivando nelle posizioni di comando. Nel lavoro venne dato sempre più spazio alle lavoratrici, mentre gli uomini venivano sempre più relegati a compiti di manovalanza e di scarsa retribuzione; certo questo non valeva per tutti: per i più belli e aitanti c’era un occhio di riguardo, purché, s’intende, fossi disponibili a soddisfare le voglie sessuali delle loro superiori.
Ma tutto ciò non bastava: le donne volevano una rivincità maggiore per tanti anni di sofferenze patite. Dapprima agli uomini fu vietato entrare in certi edifici, poi prendere i mezzi pubblici; poi intere aree gli furono proibite. Qualcuno protestò che si stava facendo come in America a metà del XX secolo con le persone di colore, ma le donne tacciarono le proteste asserendo che quello era un atto di giustizia dovuto; alla fine gli uomini furono costretti a vivere in paesi riservati solo a loro. Ma anche questo però non bastò e gli uomini furono mandati nelle regioni più lontane, così sarebbero state libero per sempre dalla minaccia dell’uomo.
All’inizio, vista la mancanza di manovalanza maschile, ci furono problemi, ma le donne seppero riorganizzarsi e creare una società funzionante: a quelle più avvenenti toccarono ruoli di comando e decisionali, mentre quelle considerate meno belle presero il posto degli uomini nei lavori più umili, quali quelli in fabbrica e di manutenzione.
La felicità della loro libertà dal lato maschile della loro specie non durò però molto, dato che la biologia della loro natura le spingeva ad avere voglia di fare dei figli. E soprattutto per uomini belli e aitanti, ma anche per chi aveva spiccate abilità, fu una fortuna, perché le donne erano disposte a pagare qualsiasi cifra per farsi dare il seme più promettente; sorse così il business dello spermatozoo, uno dei più fiorenti mai visti nella storia dell’uomo. Per il seme dei maschi migliori si creavano vere e proprie aste, dove le cifre raggiungevano vette monetarie mai viste. Questo logicamente valeva solo per le donne più ricche; per le altre c’erano i discount dello sperma, dove si poteva trovare il seme di uomini comuni.
Senza rendersene conto, le donne avevano ricreato la stessa società maschile che tanto avevano odiato, fatta di privilegi e preferenze, di differenze sociali, ma che importava? Erano libere, erano al sicuro dal maschio prevaricatore.
Ma anche se gli uomini erano stati tolti di mezzo, la violenza non era finita, perché la violenza non ha nè sesso nè età nè ragione sociale: appartiene alla razza umana. Dopo un periodo di apparente tranquillità, l’aggressività era tornata a mostrare il suo volto e aveva bisogno di trovare sfogo di nuovo; le prime a darvi il via furono le donne più prepotenti e dominanti, che armate di megadildi dalla testa rotante presero ad abusare delle sottoposte, arrivando a giochi sempre più sadici dove si usavano fruste e corde. Le sottoposte a loro volta fecero lo stesso con chi stava sotto di loro, ripetendo il copione del potente che calpesta il più debole, proprio come gli uomini facevano con loro. Il vento fa il suo giro e cose che erano state, tornarono a essere come prima, con una storia già vista che ricomincia da capo, vestita in modo differente, ma sempre con le sue parti oscure.»
Il vecchio trasse un lungo respiro, appoggiandosi allo schienale della sedia, fissando negli occhi il bambino che lo guardava dall’altra parte del tavolo. «Ed è qua la risposta alla tua domanda del perché dove noi abitiamo tu non hai mai visto dal vivo una donna.»
Raccontino provocatorio scritto in risposta all’additare il maschio umano come unico problema della violenza sulle donne e alle tante iniziative sorte in questi giorni riguardo la questione. Come già detto in precedenza, la violenza non ha nè sesso nè età nè ragione sociale: se non si capisce ciò, il problema non verrà risolto, si avrà soltanto una risoluzione parziale, tampone, momentanea, che in apparenza farà andare meglio le cose per un poco. Ma la violenza riemergerà, sotto altri aspetti, e solo intervenendo su un’educazione che riguarda tutti, la si potrà limitare per davvero (probabilmente non è possibile debellerla del tutto, perché essa fa parte della natura umana).
Inoltre, tutto quello che si sta vedendo a seguito dell’omicidio di Giulia Cecchettin è una grave mancanza mancanza di rispetto verso tutte le altre donne uccise: la loro vita valeva meno di quella di Giulia? Meritavano di vivere meno di questa ragazza? Una vita tolta è sempre un atto grave, non c’è chi merita più attenzione e chi meno.
Convenuto su questo, ci si chiede perché questo omicidio ha così tanta attenzione, soprattutto adesso, specie dal governo. Di solito, quando questo accade, è perché si sta cercando di distogliere l’attenzione. Ma da cosa?
Quanto è successo a Giulia Cecchettin è grave, come lo sono tutti i femminici accaduti, ma va osservato che è divenuto uno dei tanti casi mediatici su cui per un certo periodo si focalizza l’attenzione pubblica. Il risalto che sta avendo questo omicidio è elevato e per questo viene da domandarsi il motivo di tutta questa attenzione: non bisognerebbe darlo a tutte le donne che vengono uccise? Invece molte volte si ha un breve articolo, una notizia di un paio di minuti sui tg e basta. Questi omicidi non meriterebbero di essere anche loro casi mediatici? Non meriterebbero di essere casi mediatici anche tutte le morti sul lavoro?
Invece, un risalto come il caso Cecchettin non viene dato alle quasi 700 vittime sul lavoro: una notizia veloce e via, si diventa un numero presto dimenticato. Si viene lanciati nell’oblio e poco ci manca che si dica “Vabbè, cose che capitano, uno s****o di meno, tanto ce n’è un altro che può prendere il suo posto.” Però i lavoratori non sono solo un numero, non sono carne da macello: hanno amici, famiglia, sogni e quando muoiono tutto gli viene portato via. Il mondo che rappresentano, fatto di pensieri, idee, sentimenti svanisce. E cinque minuti dopo che la loro esistenza è finita, nessuno ne parla più. Invece l’omicidio di una giovane donna, una purtroppo delle tante uccise da “chi le amava” (l’ottantunenne uccisa in garage non era donna anche lei? Non lo erano anche le altre giovani come Giliua? Non lo erano quelle donne che hanno lasciato bambini piccoli causa un marito o ex marito violento? Non meritavano anche loro di continuare a vivere?), ha un risalto mediatico gigante. Questo non è giusto.
Come non sono giuste certe dichiarazioni che ha fatto la sorella, soprattutto quella in chi asserisce in cui “Tutti gli uomini devono fare mea culpa.”; è comprensibile, visto il dolore della perdita dire certe parole, ma mettere praticamente tutti gli uomini allo stesso livello di chi compie certe azioni è sbagliato, sta passando il messaggio di “Tutti gli uomini sono colpevoli.” A parte che ci si può domandare se tali dichiarazioni sono diffamazione, se si cominciano a fare queste generalizzazioni, si rischia poi di farla anche con le donne, basta guardare certi video per poi dare giudizi come quelli fattti in questo caso.
E se si comincia a generalizzare, si entra in un circola da cui non se ne esce più. (Apro una piccola parentesi. A costo di diventare impopolare, antipatico, arrogante, volendo rispondere alle parole della sorella di Giulia, non ho bisogno di fare un esame di coscienza o mea culpa perché ho la coscienza pulita. Anzi, verrebbe da aggiungere che il mea culpa e l’esame di coscienza dovrebbero farlo certe ragazze e certe donne per come si sono comportate e si comprtano (vedere il video sopra per capire)).
Quello che però ora dobbiamo costatare è che i media italiani vivono di casi mediatici e si vorrebbe capire cosa fa decidere di dare più risalto a una notizia piuttosto che a un’altra. Ora è il momento dell’omicidio Cecchettin e ci si è già dimenticati dei morti per le alluvioni in Toscana ed Emilia Romanga, dei morti tra Israele e Palestina, dei morti della guerra in Ucraina, delle migliaia di morti per Covid… l’elenco di casi mediatici passati è lungo, ma non può essere tutto liquidato, come fanno alcuni, con il fatto che l’essere umano ha la memoria corta e tende a rimuovere quello che non gli serve per l’immediato. Perché se si elimina la memoria, inevitabilmente si cometteranno gli stessi errori.
P.s. Amadori ha asserito che l’aggressività è anche femminile. Ma ora, dopo il caso Cecchettin, se non ci si allinea con il pensiero che la violenza appartiene solo all’uomo, si viene criticati. Circa tre anni fa esprimevo la mia opinione sulla questione.
In una società sempre di corsa, dove i valori che più contano sono l’apparire, il sensazionalismo e l’avere il maggior seguito possibile, quello che ne risente è la qualità, in tutti gli ambiti. Si approfondisce sempre meno perché per fare un buon lavoro occorre tempo e anche perché le persone, dovendo essere sempre di corsa e volendo fare tante cose, hanno meno tempo da dedicare a quello che fanno. Questo è stato uno dei successi dei social (basti pensare il boom che ha avuto negli ultimi anni Tik Tok), che si basava appunto sull’immediatezza e la velocità dei contenuti per cogliere l’attenzione di chi guarda.
Purtroppo, per avere dei seguiti numerosi si è disposti a tutto, a scadere nella banalità o peggio, con titoli che sono urlati e travisanti: succede sempre più spesso di articoli il cui titolo non corrisponde ai contenuti che propongono. Un esempio? Gli articoli che parlano di calcio, dove per esempio si parla di esonero o un grave infortunio in una grande squadra e si mette un’immagine che fa pensare che si parli del personaggio mostrato; quando si va per leggere la notizia, si scopre che si parla di tutta un’altra cosa e non è quello che il titolo faceva credere.
Si è dinanzi al classico specchio per le allodole. Almeno per quel che mi riguarda, dopo un paio di volte in cui sono andato a leggere la notizia e mi sono accorto di come stavano le cose, ho smesso di prestare attenzione a simili articoli, andando oltre senza perdere tempo in una lettura che ha un modo di fare se si vuole disonesto, perché inganna il lettore e lo fa volontariamente per essere il più seguito possibile.
Ormai ci si abbassa a tutto per avere un alto numero di visualizzazioni, sfruttando qualsiasi cosa. Uno degli ultimi casi che mi viene da citare è quello di cui ha parlato Sommobuta sul suo canale Youtube (canale che suggerisco di seguire anche se non si è amanti dei fumetti, perché Angelo Cavallaro, questo il vero nome di Sommobuta, è una persona intelligente, che fa degli ottimi lavori (mi viene sempre in mente il magnifico documentario che ha fatto su Slam Dunk) e da cui si dovrebbe prendere spunto per la passione e il suo modo di fare che mette nel trattare gli argomenti); quando ho saputo dell’accaduto di cui parla, l’articolo in questione era stato rimosso dal sito Anime Everyeye, postando al suo posto uno di scuse.
Suggerisco di guardare il video realizzato da Angelo perché spiega molto bene la questione:
Come dice Angelo, ormai il mondo è andato in una certa direzione, ma forse non è troppo tardi per fare inversione a U e tornare sui propri passi, cercando magari di sfornare meno articoli, ma realizzare contenuti più qualitativi, evitando di ricercare il sensazionalismo, lo strepitare e volere l’attenzione a tutti i costi.
Anche la serie anime di Attack on Titan è giunta a conclusione; dopo quattro stagioni (di cui l’ultima divisa in quattro parti), la storia di Eren e dei suoi compagni del Corpo di Ricerca è arrivata alla fine della sua lunga corsa. Perché di lunga corsa proprio si tratta, dato che nel finale, per fermare Eren, i suoi amici si sono lanciati in un inseguimento disperato per evitare che eliminasse l’intera umanità, a parte gli abitanti dell’isola di Paris.
Ma per chi non conoscesse la storia tratta praticamente fedelmente dal manga di Hajime Isayama, un breve riassunto. Eren Jaeger è un ragazzino che vive all’interno di una città difesa da tre gigantesche cinte di mura, che la proteggono da ciò che vive all’esterno, i giganti; Eren non ha mai visto il mondo al di là delle mure e vuole arruolarsi nel Corpo di Ricerca (un gruppo dell’esercito al servizio della città) per scoprire se è vero quello di cui lui e il suo amico Armin Arelet hanno letto sui libri. La sua vita tranquilla viene squarciata quando due giganti mai visti prima sfondano la prima cinta di mura, facendo entrare tutti gli altri giganti; Eren vede la madre divorata da uno di essi e, sopravvissuto alla strage, giura che li sterminerà tutti.
Eren però è all’oscuro di tutto e non sa che pure lui è un gigante, il Gigante d’Attacco, un potere che ha ereditato dal padre, che lo era a sua volta prima di lui. Non solo: Eren dal padre ha anche ereditato il potere del Gigante Fondatore, un gigante capace di comandare tutti gli altri giganti (un potere troppo grande da gestire per un ragazzo; anzi, troppo grande da gestire per chiunque). Eren ha anche un fratello da parte di padre (che vive in un’altra nazione, Marley), che vuole insieme a lui cambiare il destino degli eldiani, il popolo cui appartengono, quello di Ymir, l’origine di tutti i giganti.
Eren scoprirà la verità sulle sue origini e sul perché la sua gente è stata tanto perseguitata; si troverà davanti a un tramandarsi di odio che non conosce fine, a cui si può rimediare solo con lo sterminio di tutti i nemici della città in cui è nato.
Verrà fermato dai suoi amici perché lui gli ha dato la possibilità di fare questa scelta e per un certo lasso di tempo il mondo vivrà nella pace, ma inevitabilmente l’umanità ricadrà nei suoi errori e la guerra di nuovo aprirà le sue ferite sulla terra, con la storia che farà il suo giro e ritornerà allo stesso punto. Attack on Titan è un’ottima serie, molto ben realizzata (i disegni sono migliori di quelli del manga e in diversi casi rendono il tutto più comprensibile, dato che in alcuni casi nella versione cartacea non era facile distinguere certi personaggi) e si può dire tranquillamente che rende in alcuni punti più comprensibile l’opera di Isayama. Ma qui non si è tanto a parlare del lavoro dell’autore giapponese (ne ho già parlato altrove), quanto questa storia è attuale, soprattutto alla luce di quanto sta succedendo tra israeliani e palestinesi.
E qui occorre fare subito una premessa. Hamas è colpevole. Israele è colpevole. I capi di queste due parti sono colpevoli della carneficina che sta andando avanti da anni, che non solo sta portando morti sui territori dove impazza la guerra, ma sta diffondendo un odio che si sta espandendo in tutte le parti del mondo.
Arrivati a questo punto è difficile capire se ci sono degli innocenti, dove tutti sono colpevoli, tranne quella parte della popolazioni che vorrebbero vivere in pace e che si trovano a pagare per la cultura d’odio voluta e diffusa dai sui governanti, proprio come succede in Attack on Titan; è vero, il popolo di Ymir, il popolo dei giganti, con il suo potere ha per lungo tempo imperversato sulle altre popolazioni, portando soprusi, sangue e sofferenza, ma quando il suo dominio è finito, quello che è venuto dopo non è stato da meno, portando vendetta su chi aveva dominato: persecuzioni, ghettizzazioni, discriminazioni, abusi sono stati all’ordine del giorno. Un odio così radicato che si è diffuso di padre in figlio, che non ha fatto che rinsaldarsi e generare altro odio, in un’escalation che è giunta a causare il tremendo Boato della Terra (migliaia di giganti colossali che marciano sulla terra per sterminare chi è nemico degli eldiani, il popolo di Ymir).
Occore soffermarsi a questo punto sulle colpe dei padri che ricadono sulle spalle dei figli. I marleyani hanno per anni oppresso gli eldiani, dopo a loro volta essere stati oppressi a lungo da questi ultimi, non avendo appreso nulla dalla storia e dagli orrori di cui essa era pervasa, ma ripetendo lo stesso copione; copione che inevitabilmente ha finito per ritorcerglisi contro.
Se il soldato marleyano non avesse massacrato la sorella del padre di Eren, questi non si sarebbe unito alla resistenza per cambiare le cose e ribaltare il governo di Marley; non avrebbe indottrinato il fratello di Eren al punto che si sarebbe ribellato contro di lui, tradendolo e facendolo andare incontro a una una fine orrenda, evitata solo dall’intervento di una persona che gli ha trasmesso il potere del Gigante d’Attacco. Potere e ricordi che suo padre ha poi trasmesso, senza consenso, ad Eren, facendolo essere colui che ha quasi distrutto il mondo.
Quanto di quello che è successo è responsabilità di Eren? E quanta è invece la colpa di chi l’ha preceduto? Il più colpevole è il padre? Il soldato che ha ucciso in modo così brutale la sorella? Oppure è il sistema che ha generato la mentalità e l’odio con il quale è cresciuto il soldato?
Come si vede si è dinanzi a una spirale d’odio senza fine , di cui non si riesce a vederne l’inizio tanto la cosa è divenuta complessa e aggrovigliata.
Lo stesso sta avvenendo in Israele e Palestina. Ma questo conflitto è solo la punta dell’iceberg, perché l’odio ormai da tempo si sta facendo sempre più largo nel mondo, anche dove non ci sono conflitti, basti solo pensare ai tanti omicidi che avvengono in ogni paese. Un’escalation che potrà essere fermata solamente quanto si apriranno gli occhi e si inorridirà di fronte all’orrore che si è creato.
Che piaccia o no la conclusione data da Isayama ad Attack on Titan, questa è la lezione che si dive imparare dal finale di tale storia.
Tratto dall’omonimo romanzo, il film Il castello invisibile vede come protagonista Kokoro, una ragazza delle scuole medie che ha smesso di andare a lezione; all’inizio non si riesce a capirne la ragione: viene da pensare che sia malata, che abbia dei problemi di salute, ma sta di fatto che c’è qualcosa che la fa stare male al punto da non riuscire a frequentare la scuola. La madre, preoccupata, le fa frequentare una struttura speciale, L’Aula del Cuore, dove, con l’aiuto della professoressa Kitagima, spera che il problema si risolva.
Kokoro appare come una ragazza introversa, riservata, che non si apre con gli altri, tenendosi tutto dentro; per questo anche i rapporti con i genitori si fanno più difficili. Passa così le giornate a casa, in maniera apatica; ma un giorno, lo specchio in camera sua s’illumina e lei, incuriosita, l’attraversa. Si ritrova davanti a una bambina con una maschera da lupo sul volto e a un castello situato in mezzo al mare; in modo poco ortodosso viene fatta entrare e lì scopre che ci sono altri sei ragazzi che sono stati invitati al castello e che hanno la possibilità, trovando una stanza segreta, d’esaudire un desiderio. Tuttavia hanno una possibilità di scelta: esaudire il desiderio dimenticandosi di tutta l’esperienza e le amicizie fatte, oppure rinunciare al desiderio e mantenere i ricordi di quanto vissuto insieme per tutto l’anno scolastico (questo il tempo che hanno a disposizione per stare nel castello e trovare la chiave). Devono rispettare però una regola: ritornare nel mondo reale entro le cinque del pomeriggio, altrimenti verranno divorati da un grande lupo.
Dopo aver ascoltato le parole della Venerabile Lupo (la bambina con la maschera), i sette ragazzi (quattro maschi e tre femmine) esplorano il castello, ma senza darsi tanta pena da subito a cercare la chiave. Col passare dei giorni e delle settimane, cominceranno a stringersi dei legami e a farsi più forti quando scopriranno che tutti sono stati vittime di soprusi in famiglia o a scuola; tutti provano un forte senso di isolamento e di solitudine, ma parlando tra loro riusciranno a farsi forza e a prendere coraggio. Scopriranno anche che frequentano la stessa scuola media (tranne uno, che però se non si fosse trasferito avrebbe frequentato lo stesso istituto) e decidono d’incontrarsi, anche se nessuno di loro, per via dei propri problemi, la frequentava più.
All’appuntamento però i ragazzi non si riescono a incontrare; Kokoro anzi scopre che non c’è nessuno che porti il nome degli altri sei ragazzi. Quando si rivedono, e ognuno dice che è andato all’appuntamento, uno di loro fa l’ipotesi che appartengono a mondi paralleli, ma la Venerabile Lupo smentisce subito la teoria.
Kokoro, dopo aver parlato con le altre due ragazze invitate nel castello ed essersi aperta rivelando il motivo per cui non va a scuola (è vittima del bullismo di una sua compagna di classe e delle sue amiche), parla con la madre di quello che la affligge e assieme affrontano la situazione; tornata a scuola, rivede l’amica con la quale non parlava più causa le bulle e andando a trovarla a casa prima che si trasferisca, capisce, vedendo un quadro che rappresenta la favola dei sette capretti, come trovare la chiave (ogni luogo dove i sette capretti si sono nascosti è un indizio per trovare la chiave della stanza segreta).
Mentre sta tornando a casa, vede qualcosa di strano accadere nella sua stanza: quando vi entra, scopre che lo specchio è andato in frantumi e uno dei ragazzi l’avverte che una delle ragazze è rimasta nel castello oltre l’orario ed è stata uccisa dal lupo. Stessa cosa poi è toccata agli altri.
Kokoro si fa coraggio e rientra nello specchio ancora funzionante, trovando la chiave seguendo le indicazioni date dal dipinto; raggiunta la stanza segreta, esprime il desiderio e salva gli amici divorati dal lupo, scoprendo dai ricordi lasciati quando sono stati divorati la verità che li riguarda (senza fare spoiler, avevo capito da prima il motivo per cui non si erano incontrati, non pensando ai mondi paralleli).
Essendo stato espresso il desiderio, dovranno tornare a casa e dimenticarsi dell’accaduto, ma con la consapevolezza che le difficoltà possono essere superate (verrà rivelata la natura della Venerabile Lupo e di quella del castello, ma questo è meglio che lo si scopra vedendo il film). Il castello invisibile è sì un film fiabesco che raccoglie e unisce diverse favole e storie del folclore (dai Sette capretti a Cappuccetto rosso fino ad arrivare alla leggenda del pescatore che dopo aver soccorso una tartaruga viene invitato al Palazzo del drago e i racconti di Lewis Carroll), ma è anche una pellicola che con delicatezza affronta temi come bullismo, abusi familiari, delusioni, e tanti altri problemi che s’incontrano durante l’adolescenza (cosa fare da grandi, quale strada intraprendere). In tutto questo il castello rappresenta il luogo sicuro dove rifugiarsi, l’angolo di pace e tranquillità in cui ritrovarsi (un po’ come succede quando ci si rifugia nell’immaginazione per proteggersi da un realtà dura o crudele). Forse visivamente non è all’altezza di altre opere d’animazione (vengono in mente quelle di Makoto Shinkai), ma Il castello invisivile è una buona storia che alla fine della visione lascia una bella sensazione.
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