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Maggio 2012
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L’Ultimo Potere – Primo Atto – X Canto di Natale (parte 1)

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La nebbia se n’era andata nel cuore della notte, lasciando un cielo stellato sopra i tetti squadrati dei palazzi somiglianti a merli di mura ciclopiche.
Alle prime luci dell’alba, Guerriero svegliò la ragazza, ignorando le sue proteste. Passando di nuovo per lo scantinato, risalirono le scale della botola, ritrovandosi nell’intrico del giardino abbandonato.
Con le braccia strette attorno al petto per proteggersi dall’aria pungente, Katrin aspettò che l’uomo sistemasse il pannello per non mostrare segni del loro passaggio.
«Chissà perché hanno murato la porta.» Mormorò persa nei suoi pensieri mentre fissava la facciata della casa.
Guerriero la superò districandosi nel groviglio di vegetazione. «Farebbe differenza saperlo?» Fermo sul marciapiede, aspettò che Katrin scavalcasse il cancello. «Se hai qualche domanda da fare, falla adesso; una volta in marcia, non ci sarà possibilità di parlare.»
«C’entra la nebbia?» Domandò con apprensione la ragazza.
Guerriero scrutò la strada. «No: siamo ancora in zona calda e ci sono sempre orecchie in ascolto.»
«Ah.» Rispose la ragazza impacciata.
«Allora? Nessuna domanda?» Si voltò impaziente Guerriero.
«Nessuna.» Sobbalzò Katrin come se dovesse scattare sull’attenti.
«Bene. Andiamo.»
I due s’inoltrarono nella penombra lattiginosa che evaporava con il passare dei minuti, camminando come fantasmi che cercavano di rifuggire la luce del giorno. Figure solitarie entravano di continuo nel loro campo visivo: sagome senza volto con code e tentacoli, irti di pelo o glabri come nudi bambini che scivolavano da un palazzo all’altro in una danza di cui non si capiva il senso.
Katrin si tenne sempre a un passo da Guerriero, spaventata dall’ambiente delle strade. Quei luoghi la sera precedente le erano sembrati una città di mostri: quella mattina le sembravano la città dei morti. Ma appartenevano sempre all’incubo che aveva cominciato a vivere nel mettere piede nell’urbe che aveva sempre osservato dalla sommità delle colline. Luogo in cui sarebbe rimasta, se non fosse stata mossa dalla necessità di trovare cibo. Una decisione necessaria, di cui ora però era pentita, ritrovandosi a pensare che era meglio sopportare i morsi della fame, piuttosto che quelle sensazioni allucinanti: ogni passo all’interno della città era una discesa verso l’inferno, attraversando gironi sempre più terrificanti. La sua incoscienza l’aveva spinta troppo avanti, troppo in profondità, al punto che non era più stata capace di risalire. Sarebbe stata perduta per sempre, se non fosse stato per l’apparizione dell’uomo: un improbabile Virgilio che aveva incrociato il suo cammino.
Aveva sempre ritenuto che la storia in quel linguaggio antiquato e difficile fosse solo un’invenzione. Una storia di cui riusciva a capire solo i disegni agli inizi dei capitoli, quando la leggeva da sola e nessuno gli spiegava il senso delle frasi arcaiche: troppo difficile il testo da seguire, la lingua troppo antica. Poesia, diceva suo padre. Poema, declamava suo zio.
Ora però si ritrovava a scoprire che quella storia parlava di realtà.
Dopo aver vissuto di persona l’esperienza terrificante, si rendeva conto di quante somiglianze ci fossero tra il disegno che aveva visto nel libro e la forma della città. Quand’era stata sulla collina non aveva fatto caso alla sagoma che i contorni della periferia gli conferivano: un triangolo allungato che ricordava uno stretto imbuto. La sua attenzione si era soffermata sull’intreccio dei palazzi, lunghe sagome affilate che facevano sembrare la città un immenso campo di lance. Un campo inquietante sulla cui sommità incombeva una densa foschia giallognola alimentata dalle colonne di fumo che nascevano dalle zone centrali.
La titubanza della vista di rovine d’acciaio e cemento, simili a lame smussate e dentellate, era stata vinta dalla certezza che dove c’era fumo, c’era anche fuoco. E se c’era fuoco, significava che c’erano degli esseri umani, con la concreta possibilità che avessero del cibo con loro.
Un’ingenuità che l’aveva spinta nell’incubo.
Una volta entrata nell’area urbana, aveva subito perso l’orientamento, smarrendosi senza avere più alcuna possibilità di tornare indietro. Brancolando per le strade, aveva continuato ad andare avanti, spaurita da versi che mai aveva sentito e che l’aggredivano con la loro durezza. Con lo sguardo levato al cielo, aveva usato le volute di fumo come punti di riferimento, come se fosse un marinaio che seguiva le stelle.
Gli umori acuti e penetranti generati dai peti dei tombini l’avevano circondata, invadendo le narici e impregnando gli abiti e la pelle con la loro malsana emanazione. In pochi istanti si era sentita sporca, provando l’impellente bisogno di lavarsi.
Cercando di schivare i vapori sulfurei che uscivano in zaffate dai fori dell’asfalto, era finita in quartieri sempre più sporchi, dove le pareti dei palazzi degradavano in colorazioni che passavano dal grigio al marrone al nero e tutto sapeva di fumo. Le strade si erano trasformate in budelli tortuosi, dove ogni via, ogni buco era stato trasformato in fortificazione: istrici di spranghe e lamiere, rafforzate da auto ribaltate e mobili d’appartamenti depredati. Volti sporchi di cui s’intravedevano solo gli occhi l’avevano scrutata dalle fessure delle barricate, seguendo ogni sua mossa.
Il vociare si era fatto sempre più vicino, accompagnato dal sottofondo di metallo che veniva divelto e il cozzare di corpi che venivano sbattuti contro i muri. Aveva visto quello che un tempo era stato un negozio bruciare con furia, soffiandole contro una densa fumana nera che sapeva di carbone e plastica fusa.
Trascinata dal vortice di percezioni sensoriali, si era smarrita, ritrovandosi a brancolare in uno stato di catatonia. Era stata afferrata da qualcosa e costretta a muoversi in fretta; solo quando aveva visto le maschere di gomma gialla con le grandi lenti scure nelle quali si era riflessa, aveva capito cosa stava succedendo.
Per un aiuto insperato era riuscita a uscirne viva, allontanandosi dal gorgo di follia. Anche se breve, l’esperienza l’aveva però segnata: non sarebbe più riuscita a guardare il fuoco allo stesso modo. Il fumo che aveva visto salire al cielo non apparteneva a falò da campo, dove il cibo veniva cotto: era l’esalazione di roghi di pile d’esseri viventi che venivano gettati all’interno di profondi crateri e lasciati bruciare fino a che non ne rimaneva che ossa. Gli sembrava che ci fosse dell’altro, ma la sua mente si era rifiutata di registrare quanto gli occhi avevano visto.
Adesso si ritrovava a seguire Guerriero, il suo salvatore, concentrandosi solo sul tenere il passo. Quando la periferia fu raggiunta, facendo intravedere gli spazi aperti della piana desertica, fu come se fosse tornata a respirare. Il sollievo la pervase in maniera quasi dolorosa. Sentì i muscoli distendersi, la tensione abbandonarla e una voglia crescente di ridere.
«Ce l’abbiamo fatta.» Disse reprimendo il riso che sentiva sulle labbra.
Guerriero la degnò appena di uno sguardo. «Fatta a far cosa?»
«A uscire dalla città, a esserne fuori.»
«Non si è mai fuori: la città arriva dappertutto.» Disse stroncando la momentanea gioia di Katrin. «Non molla mai la presa: in questi luoghi è solamente più debole.»
La ragazza rimase scossa dall’atteggiamento compassato dell’uomo. «Non sei sollevato di essere riuscito a scappare da quei luoghi, di aver trovato una via d’uscita?»
«Anche se è più difficile che entrarci, non è cosa impossibile uscirne. Ci vuole solo un po’ di pratica.»
Katrin sgranò gli occhi. «Vuoi dire che tu entri volutamente in quelle aree?»
Guerriero socchiuse gli occhi scrutando l’ombra di un vicolo. «Lo faccio per necessità.»
«Tu entri ed esci continuamente in quell’inferno?»
«Sì.» Guerriero riprese a muoversi.
Bloccata dalla rivelazione, rimase indietro di diversi passi prima di tornare a raggiungerlo. Affiancandosi, restò a guardarlo con un misto d’ammirazione e convinzione di aver a che fare con un pazzo.
«Come fai a farlo?»
«E’ la mia vita.»
«Questa?» Domandò stupita.
«Sì.»
«E come fai a viverla?» Katrin era sempre più incredula.
«E’ l’unica che ho. Che altro dovrei fare?» Rispose semplicemente Guerriero. «Non sei della città, vero?»
Katrin si ritrasse, allontanandosi di qualche passo. «Vivevo nelle colline, in una piccola comunità: vedevo la città da lontano. Solo alcuni di noi s’addentravano nell’area urbana e solo in caso di necessità.» Si strinse il bavero della giacca attorno al collo. «Questa è la prima volta che mi sono spinta quaggiù.»
«Non è stata una gran scelta; sarebbe stato meglio che fossi rimasta dov’eri.»
«Sono stata costretta.» Mormorò in un sussurro. «Dovevo procurarmi da mangiare e da quando sono rimasta sola non ho più avuto nessuno su cui fare affidamento.»
Guerriero non ribatté, proseguendo verso il rifugio. Non c’era nulla da commentare in una storia che si ripeteva all’infinito e di cui ormai si era vista ogni sfumatura. Non era stato così anche per lui? Certo non si poteva fare un paragone, dato che Vecchio gli aveva dato ogni mezzo per sopravvivere; ma questo non aveva evitato che incontrasse difficoltà: solamente, aveva saputo affrontarle. Quella ragazza stava pagando per non sapere come fare: o imparava o soccombeva. Semplice e crudele: se non si era capaci, non bisognava neppure tentare.
Alle volte, però, si doveva giocare anche se non si voleva. Un gioco maledetto, adatto a luoghi maledetti.
L’inferno, Katrin aveva definito la città. Un’analogia facile da fare, quasi scontata. Se era così, in quel momento si trovavano in un limbo; un mondo dove non si era ancora morti, ma non ci si poteva neppure definire veramente vivi, dato che quello era un semplice sopravvivere. Così vicini a essere fuori, eppure ancora dentro in quel luogo maledetto.
La foschia bassa che si scorgeva al limitare della piana era come un fiume che lambiva e racchiudeva l’area cittadina; una cerchia che delimitava il dannato territorio e che sembrava non andarsene mai, anche con il sole allo zenit, anche quando soffiava il vento. Una sorta di guardiano che prendeva nota di chi entrava e usciva. Solo una mente ingenua poteva entrare in un luogo simile con la speranza d’incontrare qualcosa di buono: non c’era posto per esso in mezzo alla civiltà decaduta e morente. Solo una lotta continua.
Imboccò il viale che conduceva al rifugio, lanciando occhiate penetranti a destra e sinistra.
Odiava quella città.
Odiava tutte le città.
Maledetta l’umanità che aveva creato un mondo dove la vita era come le foglie d’autunno, pronta a cadere al primo soffio; un giorno avrebbe varcato le porte di una città per l’ultima volta e non avrebbe più messo piede in nessuna di esse.
La penombra dell’appartamento li accolse all’interno dell’angusto spazio.
«Entra.» Con fare pressante Guerriero fece passare Katrin, sbarrando la porta appena superata la soglia d’ingresso.
Posò lo zaino e le armi sul divano, andando nel ripostiglio e ritornando con un paio di barattoli e un cucchiaio che posò sul tavolo.
«Mangia.» Disse in modo spiccio, prima di rivolgere l’attenzione al controllo dell’equipaggiamento.
Impacciata, Katrin si mise seduta davanti al cibo, tirando le linguette dei barattoli e affondando la posata nella carne avvolta dalla gelatina. In pochi minuti spazzolò l’intero contenuto.
«Ce n’è ancora?» Chiese con imbarazzo spazzandosi la bocca su un fazzoletto.
«Hai visto dove tengo le cibarie. Serviti pure.» Rispose Guerriero senza guardarla. «Ma prendine soltanto un altro.»
Vergognandosi, Katrin restò a giocherellare con il cucchiaio, prima che il buco che aveva nello stomaco la spingesse a servirsi del cibo in scatola.
«Da quanto vivi in questa città?» Chiese quando ebbe finito il pasto.
«Qualche settimana.» Mormorò Guerriero mentre controllava l’allineamento della canna del fucile.
«Oltre a te, ci sono…altri esseri umani?» Domandò a fatica, spaventata dalla possibile risposta.
«Certo. »
Katrin sospirò, sentendosi un peso sollevarsi dal petto.
«Avevi forse dei dubbi?» Guerriero le lanciò un’occhiata obliqua.
«Ecco…io, non…insomma, non sapevo…non ne ho visto nessuno…solo…» Deglutì a fatica, non riuscendo a trovare le parole «ho solo incontrato quelle creature…»
«Mutantropi e chimere.»
«Come?»
«Gli esseri con cui hai avuto a che fare.» Spiegò Guerriero. «Incroci tra umani e bestie i primi, tra più bestie le seconde. Brutti incontri, ma poteva andarti peggio.»
Katrin si rannicchiò sulla sedia. «Peggio? C’è qualcosa di peggio?»
Guerriero sospese il proprio lavoro, fissando l’arma che aveva in mano. «I Posseduti. I Demoni.» Si riscosse. «Ma non è un argomento da affrontare adesso.»
Katrin si mise a girovagare lungo il corridoio, sbirciando all’interno delle stanze. «Carino il tuo rifugio; una volta deve essere stato un appartamento con tutte le comodità.»
«Ormai tutto è allo sfascio. Che serve il superfluo, se non si ha la possibilità di avere l’essenziale?» Brontolò caustico. «Quello che vedi…Non toccare!» Sbottò seccamente.
Katrin ritrasse la mano dall’interruttore, come se si fosse scottata.
«Non lo toccare.» L’ammonì severamente. «L’impianto elettrico funziona perfettamente.»
«E allora perché rimani nella penombra?»
«Perché la luce rivelerebbe dove ci troviamo. E se vuoi sopravvivere, devi far credere di non esistere.» Guerriero la tenne sotto osservazione finché non si fu scostata dalla minaccia.
Katrin continuò ad aggirarsi per l’appartamento, osservando le mensole pendenti e i mucchi di ragnatele negli angoli. «Potresti renderla un po’ più accogliente.»
Guerriero sbuffò. «Il rifugio serve come magazzino per l’equipaggiamento che non posso portarmi dietro e per le scorte di cibo, oltre che per dormire la notte; nient’altro. Passo tutta la giornata fuori. Sarebbe una fatica inutile perdere tempo in qualcosa che so che prima o poi abbandonerò.» L’espressione del volto ebbe un guizzo. «O pensi che abbia intenzione di piantar radici in un luogo del genere?»
«No, certo che no.» S’affrettò a convenire con lui. «Era solo per fare un po’ di conversazione.» Tornò a sedersi presso il tavolo, osservando con una certa apprensione il lavoro dell’uomo. «Ti stai preparando a uscire di nuovo?»
«Controllo sempre l’equipaggiamento ogni volta che rientro.»
Katrin si sentì più sollevata.
«Temevi che ritornassi per le strade?» Scosse il capo. «Domani.»
«E mi lasci qui da sola?»
«Certo che no: mi accompagni.»
Il sollievo di Katrin sparì di colpo. «Io non voglio…»
«Inutile che protesti.» Fu categorico Guerriero.
«Prometto che starò attenta.» S’affrettò a dire Katrin. «Non accenderò la luce…me ne starò ferma in un angolo ad aspettare…»
«No.» Guerriero stroncò subito le suppliche. «Và a dormire, ne avrai bisogno: domani si parte presto.»
«Vuoi proprio tornare là fuori?» Katrin fece un ultimo disperato tentativo.
«Non possiamo starcene barricati qua dentro per sempre. Ma stai tranquilla, per un pezzo eviteremo le aree del centro: le acque si devono calmare. Andremo in zone vicine, abbastanza tranquille.»
«Perché?»
«Ho delle ricerche da fare.»
«Che tipo di ricerche?»
«Domani vedrai.» Guerriero richiuse la borsa e si lasciò andare contro lo schienale del divano. «Ora dobbiamo solo riposarci.»