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6 Dicembre

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In questi giorni si parla molto di riforme della scuola da parte del governo e delle giuste proteste realizzate dagli studenti, che vedono un loro diritto scivolare lungo una china che da anni non fa che sminuirlo e peggiorarlo. Un modo per non aver più un futuro.
Oggi, 6 dicembre, è un giorno per parlare di scuola, ma non in questi termini: è un giorno della memoria.
Vent’anni fa, alle ore 10,35, un aereo militare s’abbatteva sulla scuola Salvemini di Casalecchio di Reno. Un giorno come tanti, allora, che si svolgeva nella sua normalità, con le sue difficoltà e le sue gioie; ma quando giunse al termine, era divenuto un giorno di morte e così sarebbe stato ricordato negli anni a venire.
Dodici ragazzi rimasero uccisi nell’incidente, vite spezzate in un attimo, senza preavviso, perchè la morte può arrivare in qualsiasi momento e non si può mai sapere per chi suona la campana.
Vite stroncate per chi è deceduto in quel momento, esistenze straziate per chi è rimasto ed era legato a loro.
Ma non solo amici e parenti delle vittime devono ricordare: tutti dovrebbero farlo, perché la vita non è solo quella falsa felicità e spensieratezza che media e governo vogliono far vedere, la vita è anche dolore, perdita. E rabbia, perché il parlamento italiano è l’unico in Europa a non aver finora provveduto a una legge che riconosca lo status di “vittime” di disastri e stragi, per non costringere più le famiglie a coprire con sottoscrizioni popolari le spese processuali, in un fatto in cui in qualche modo è coinvolto lo Stato, nonostante una proposta vecchia di 15 anni.
Un giorno per non dimenticare, perché il ricordo faccia agire e cambiare le cose, in modo che non si ripetano.

Violenza

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Molti pensano che la violenza sia parte dell’essere umano; alcuni ipotizzano che esista un gene contenente tale caratteristica.
Preferisco pensare che l’uomo venendo su questa terra perda la purezza della sua essenza, alla stessa maniera dello spirito che perde la sua purezza e diventa imperfetto quando entra nella materia.

Che siamo esseri immortali
caduti nelle tenebre, destinati a errare;
nei secoli dei secoli, fino a completa guarigione

Che siamo angeli caduti in terra dall’eterno
senza più memoria

direbbe Battiato ne “Le Sacre Sinfonie del Tempo”.
Se ci si pensa Lucifero era un angelo, un essere di luce, prima di precipitare nella dannazione che si è scelto. Una simbologia che sta a indicare la ribellione, il seguire una strada con la propria testa, anche se porta a sbagliare; certo in questo caso la vista si può dire che è ottenebrata, ma non è questo il punto su cui porre attenzione. Lucifero all’inizio era qualcosa di buono, o meglio di neutro: un’infinita possibilità di essere ciò che si vuole. Un foglio bianco da riempire nella maniera che si preferisce. E questo avverrà a seconda della percezione che si ha del mondo esterno, che dipende dal rapporto che si ha con quello interiore, in parte condizionato dalle influenze che arrivano da ciò che ci circonda. La mancanza di consapevolezza, di osservare ciò che accade può far agire e pensare in maniera sbagliata, ma non c’è niente di sbagliato nell’essere umano. E’ come una spugna: può dare liquido buono o cattivo (nel senso di sapore) a seconda di ciò che ha assorbito. Un bambino, che imita e apprende guardando chi ha intorno, assorbe senza essere in grado di distinguere il giusto o sbagliato; solo crescendo, se lo vorrà e ricercherà, potrà saper scegliere. Ma finché è piccolo, senza mezzi, difficilmente potrà farlo, condizionato com’è dal bombardamento cui è sottoposto.
E’ così che immette la violenza dentro di sè, è questo lo stimolo che acquisisce e che spesso esce allo scoperto. Se ci si pensa l’uso della violenza, o l’anelare a essa, rispecchia una mancanza, un limite che si avverte e che si vuole superare; perché pochissimi accettano la debolezza come parte dell’imperfezione dell’essere umano sulla terra in cui si vive.
Prendiamo due personaggi mitici a confronto: Achille ed Ettore.
Specie i bambini e gli insicuri, sono portati ad ammirare Achille: forte, sicuro, ammirato e acclamato dalla folla. Molti sono portati a preferirlo a Ettore che appare debole in confronto all’eroe greco. Perché l’ego reclama la sua parte, vuole essere riconosciuto e considerato, ha bisogno della folla per sentirsi qualcuno. E come può avere il consenso altrui se non dimostra il proprio valore? Con la forza, con il dimostrare, con ciò che appare: chiunque può valutare ciò che gli occhi mostrano.
Ma ciò che non si vede?
Per questo tante persone considerano Ettore debole, perché la sua forza non è in ciò che si vede. Certo, era un grande guerriero, ma non era questo che lo caratterizzava. Era l’affetto per la famiglia, per il popolo, per la sua terra: per questo si sacrifica, combattendo una battaglia che non può vincere contro Achille, subendo anche l’umiliazione oltre alla sconfitta (ci sono i segni di un’altro famoso scarificio: quello di Gesù).
Quindi Ettore era il buono, la vittima, e Achille il cattivo, il carnefice?
Le cose non sono mai come sembrano.
Ettore era un guerriero e pertanto uccideva: non gli piaceva, ma lo faceva; anche lui era macchiato di sangue.
Achille non era un mostro: anche se spietato in battaglia, non era un insensibile. Lui che non obbediva alle richieste e agli ordini dei re della Grecia, cede alla supplica di un vecchio padre che richiede la restituzione del corpo del figlio perché lo possa seppellire.
L’uomo è un insieme di scelte giuste e sbagliate, di sfumature grigie e colorate. Ciò che lo qualifica è ciò che sceglie di essere, alle volte consapevolmente, alle volte inconspevolmente. Quante persone s’accorgono d’essere attratti dalla violenza perché si sentono deboli, anelando d’essere forti e per sentirsi tali seguire sempre il più forte? Certo, tale scelta è quella che in apparenza dà risultati tangibili nell’immediato, ma i suoi frutti non sono duraturi, perché non sono fatti per crescere, ma per distruggere.

Neve, Vita

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Simili paesaggi fanno venire in mente passeggiate, pupazzi gelati e paffuti con sciarpa e cappello, con bottoni per occhi e carote per naso; piste da sci dove saettare veloci, bambini che fanno a palle di neve. Un inno alla vita, alla felicità, alla gioia di vivere.
Il bianco manto invernale esorta la mente a costruire pensieri positivi, immaginare storie da fiaba, sognanti e cullanti.
La neve per molti è questo.

Ma per molti è stato un triste scenario, un nemico in più con cui combattere, un aguzzino spietato che non dava tregua, che sferzava con il suo pungolo. Un sinomino di tristezza, dolore e mancanza di calore umano.
Per i deportati nei campi di concentramento nazisti la neve con il freddo che si portava appresso era sinonimo di morte: non c’era nessuna traccia di bellezza, solo il cercare di resistere alle sferzate di gelo che passavano attraverso abiti che erano sottili come pigiami. Ciò che vedevano non era il bianco della neve, ma il bianco di una tomba che aspettava d’incidere il loro nome sulla propria superficie. Un vivere giorno dopo giorno non sapendo quando sarebbe venuto il proprio momento d’andarsene, ma consci che si sarebbe presentato, conoscendo solo i tormenti che si dovevano patire, privati di tutto.

La neve è come la vita: tristezza e felicità. Fanno parte di un’essenza più grande, non sono nè bene nè male e tutti e due insieme.
Riso e pianto, non sono tanto differenti tra loro, davvero sottile è il confine che li separa. Un confine che pende alle volte da una parte, alle volte dall’altra, in un continuo alternarsi ed equilibrarsi.