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Suzume

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SuzumeCosa dire di Suzume di Makoto Shinkai? Si tratta di un film a due facce: la prima molto buona, spumeggiante, coinvolgente, mentre la seconda non mantiene lo stesso livello. Forse da uno come Shinkai ci si aspetta sempre tanto, ma in questo caso si va a finire in qualcosa di già visto, sia da parte dello stesso regista, sia da parte di altre storie. E la morale alla fine è che occorre sia accettare la scomparsa di coloro cui si tiene e andare avanti (Suzume), sia accettare le proprie responsabilità (Daijin): niente che non sia già stato affrontato.
Suzume è una liceale che vive con la zia, dato che la madre è morta quando lei era piccola. Il suo obiettivo è diventare infermiera, proprio come lo era il genitore (del padre non si ha traccia: la madre l’ha cresciuta da sola). Fa spesso un sogno ricorrente, in cui lei è piccola e sta cercando disperatamente la madre in mezzo a rovine e distese d’erba, fino a quando incontra una donna di cui non riesce a vedere il volto.
La sua è un’esistenza tranquilla fino a quando mentre va a scuola incontra un ragazzo che le chiede se nelle vicinanze ci sono delle rovine, dicendo che sta cercando una porta. Suzume rimane sia perplessa sia colpita da questo incontro e dopo un poco decide di seguire il ragazzo; raggiunge le rovine ma di lui nessuna traccia. Tuttavia, in mezzo a uno specchio d’acqua creatosi al centro di una grande struttura sta una porta solitaria; incuriosita, la apre, trovandosi davanti a uno splendido paesaggio sovrastato da un magnifico cielo stellato che le ricorda il sogno. Appena però attraversa la soglia, si ritrova nel mondo reale, non importa quanti tentativi faccia; l’unica cosa diversa è che all’improvviso compare una statuetta di gatto. Appena la estrae dal terreno, questa si trasforma in un gatto vero, che corre via.
Spaventata, Suzume scappa e torna a scuola, ma la sua tranquillità dura poco, dato che vede comparire dal punto in cui sono situate le rovine un fumo viola e nero. Torna alle rovine e ritrova il ragazzo incontrato poco prima che sta tentando di chiudere la porta dalla quale fuoriesce lo strano fumo. Dopo tanti sforzi riescono nell’impresa, ma il giovane, che si chiama Suota, rimane ferito a un braccio. Accoltolo in casa propria, Suzume lo cura e da lì viene a sapere che di porta come quella che ha visto, che sono dei passaggi dimensionali, ce ne sono diverse in tutto il Giappone e il compito di Souta è quello di chiuderle per impedire che da esse escano delle forze chiamate il Verme che si trovano sotto il terreno (il fumo che ha visto) che, abbattendosi sulla terra, causano i terremoti; la cosa è solo temporanea, dato che per fermarlo in modo più duraturo occorre usare la chiave di volta.
Mentre stanno parlando compare un gatto macilento: Suzume gli dà da mangiare e il gatto per la sua gentilezza cambia di aspetto e fa diventare Souta la piccola sedia a tre gambe di Suzume. Il gatto, infatti, che verrà chiamato Daijin, si rivelerà essere la chiave di volta che però non vuole più essere tale ma bensì divenire l’animale domestico della ragazza; inizierà così un lungo inseguimento a tratti comico, dove Suzume sul suo cammino incontrerà diverse persone che l’aiuteranno nel suo viaggio inaspettato.
Presto però Souta non potrà più essere con lei, dato che dopo essere stato mutato in sedia perderà sempre più se stesso; il che è una logica conseguenza dell’essere diventato lui la chiave di volta. Suzume, per fermare una manifestazione particolarmente potente del Verme è costretto a usarlo, ma non si rassegnerà a perderlo e andrà a parlare col nonno del ragazzo per sapere se c’è un modo per poterlo far tornare indietro.
Naturalmente esiste ed è proprio lei che può farlo, basta che ritrovi la porta che ha già attraversato una volta: infatti, Suzume è in grado di vedere l’Oltremondo (il mondo dei morti) essendoci stata da piccola. Qui scoprirà che quello che crede un sogno in verità è stato la realtà e per lei comincerà un altro viaggio non solo per riportare in vita Souta, ma per venire a patti anche con un passato che la tormenta ancora.
Ed è da questo punto in poi che il film Suzume perde quella verve che l’aveva caratterizzato; un po’ perché ripete in parte temi già visti in Viaggio verso Agartha, conosciuto anche come I bambini che inseguono le stelle (non per niente la scatola che Suzume dissotterra nei pressi nella sua vecchia casa distrutta porta scritto sopra il nome di Agartha), un po’ perché vuole rendere omaggio a ciò che è successo l’11 marzo 2011 (l’incidente alla centrale nucleare di Fuchushima avvenuto dopo il terremoto e il successivo maremoto). Se a questo si aggiungono i conflitti generazionali tra giovani e figure genitoriali, tra sogni infranti e rinunce in nome della responsabilità e difficoltà a comunicare i propri sentimenti, si capisce come Suzume venga appesantito più del dovuto prima di avviarsi verso un lieto fine, con Suzume che finalmente viene a patti con quello che è successo in quel tragico giorno di tanti anni prima (e come Shinkai suggerisce di fare in un qualche modo anche al Giappone).
Visivamente magnifico, Suzume fa un passo indietro rispetto ai film precedenti, soprattutto se lo si confronta a Your name; rimane un buon film, ma da Makoto Shinkai ci si aspetta qualcosa di più.

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