Ferma sulla collina, Katrin fissava la città. Sulla pianura sembrava uno stretto imbuto, ma lei non ci fece caso, la sua attenzione rapita dall’intreccio dei palazzi, lunghe sagome affilate che facevano apparire la città un immenso campo di lance. Un campo inquietante, sulla cui sommità incombeva una densa foschia giallognola alimentata dalle colonne di fumo che nascevano dalle zone centrali.
Erano soprattutto le rovine d’acciaio e cemento della periferia, simili a lame smussate e dentellate, a renderla restia ad avanzare. Stava per tornare sui suoi passi, ma un gorgoglio dello stomaco le ricordò che da due giorni non mangiava. Alzò lo sguardo di nuovo sulle colonne giallo/grigie che salivano al cielo.
“Dove c’è fumo, c’è fuoco” pensò. “E se c’è fuoco, ci sono anche esseri umani, che sicuramente hanno del cibo con sé.”
Si fece coraggio e riprese il cammino.
Dopo un paio d’ore raggiunse i primi edifici della periferia, casermoni sventrati o collassati su se stessi. Tenendosi lontana da loro, proseguì lungo la strada principale per un pezzo, ma quando cominciò a trovare tracce di animali, piegò alla sua sinistra, percorrendo strade più strette e invase dai cadaveri di auto arrugginite.
Spaurita e disorientata, avanzò in mezzo a palazzi che sembravano volersi chiudere su di lei. Presto iniziò a sentire versi che non aveva mai udito; aggredita dalla loro durezza, fu presa dal panico, cominciando a svoltare a destra e a sinistra come un animale in fuga. Saltò sul marciapiede quando un forte sbuffo risuonò vicino a lei.
Fissò per alcuni secondi la nuvoletta di gas che si levava dal tombino; poi, disgustata dall’odore, tornò a camminare sulla strada.
Gli umori acuti e penetranti dei peti dei tombini la circondarono, invadendole le narici e impregnando gli abiti e la pelle con la loro malsana emanazione. In pochi istanti si sentì sporca, provando l’impellente bisogno di lavarsi.
“Questo è troppo.” Ritornò sui suoi passi, decisa a lasciare quel letamaio. Quando raggiunse l’incrocio, si rese conto di non sapere quale direzione prendere per tornare alle colline.
“Mi sono persa.” Il panico crebbe ancora di più.
Con uno sforzo cercò di calmarsi.
Andrà tutto bene, te lo prometto.
Si ripeté la frase che le diceva suo padre quando doveva affrontare qualcosa che le faceva paura.
“Se solo fosse qui con me. Se solo lo avessi fermato quando è partito con mio fratello alla ricerca di cibo. Perché non ho dato retta al mio istinto?” Ma già conosceva la risposta: perché aveva avuto paura, perché voleva sentirsi dire da suo padre quelle parole.
Andrà tutto bene, te lo prometto.
Si costrinse a calmarsi. Con lo sguardo al cielo, usò le volute di fumo come punti di riferimento, come se fosse un marinaio che seguiva le stelle.
Continuando a schivare i vapori sulfurei che uscivano dai fori dell’asfalto, finì in quartieri sempre più sporchi, dove le pareti dei palazzi degradavano in colorazioni che passavano dal grigio al marrone al nero e tutto sapeva di fumo.
Le strade si mutarono presto in budelli tortuosi, dove ogni buco era stato trasformato in fortificazione: istrici di spranghe e lamiere, rafforzate da auto ribaltate e mobili d’appartamenti depredati. Volti sporchi di cui s’intravedevano solo gli occhi la scrutavano dalle fessure delle barricate.
Cominciò a sentire un vociare soffuso, che presto si fece più vicino, accompagnato dal sottofondo di metallo che veniva divelto e di corpi che cozzavano contro i muri. Rallentò il passo.
Quando raggiunse l’incrocio, vide alla sua destra quello che era stato un negozio bruciare con furia, soffiandole contro una densa fumana nera che sapeva di carbone e plastica fusa.
Si allontanò da quel luogo, continuando a seguire il vociare. Vide di nuovo il fumo giallo/grigio che aveva scorto dalla collina salire da dietro un basso caseggiato. Dimentica di ogni timore, si affrettò a raggiungerlo.
Superato l’angolo dell’edificio, si bloccò.
Il fumo non apparteneva a falò da campo, dove il cibo era cotto: era l’esalazione di roghi d’esseri viventi che venivano gettati all’interno di profondi crateri e lasciati bruciare fino a che non ne rimaneva che ossa.
La sua mente si chiuse dinanzi al quadro d’orrore che aveva davanti.
Prese a correre all’impazzata, dimentica di tutto, se non che doveva allontanarsi il più possibile da quell’inferno. Poi, quando le forze scemarono, con i polmoni e le gambe in fiamme, dovette rallentare; continuò solo per disperazione, non aveva le energie nemmeno per alzare lo sguardo dall’asfalto.
Si sentì afferrare per un braccio, costretta a muoversi in fretta. Per un pezzo si lasciò guidare, ma poi la mente cominciò a schiarirsi. Lentamente si voltò verso chi la teneva: si vide riflessa nelle lenti scure di una maschera di gomma gialla.
L’uomo grugnì qualcosa che non riuscì a comprendere.
Katrin strabuzzò gli occhi, guardandosi attorno.
Un altro uomo con una maschera identica spuntò da dietro un palazzo e si diresse verso di loro; alle sue spalle saliva al cielo un’altra colonna di fumo giallo/grigio.
Lo vide avvicinarsi e solo allora si accorse che aveva quattro gambe.
“Questi non sono uomini…”
Riuscì a divincolarsi, ma si girò troppo in fretta e cadde a terra. Le due creature l’afferrarono per le gambe, trascinandola verso il fumo.
Camminando sgraziatamente a gambe aperte, i due esseri avanzarono a testa bassa, strattonandola senza pietà.
Katrin tentò di afferrarsi a qualsiasi appiglio trovasse lungo il marciapiede.
«Aiuto!» urlò disperata mentre veniva trascinata.
Stizziti, i due intensificarono gli sforzi, sballottandola di qua e di là con più violenza.
«Aiuto!» continuò a strillare Katrin, dimenandosi con tutte le forze.
Il fumo si avvicinava sempre di più.
«Aiutatemi!» I muscoli si tesero sul collo sottile e denutrito, scavando una fossetta sopra lo sterno mentre cercava di liberarsi. «Per favore, che qualcuno mi aiuti!» Katrin s’inarcò cercando d’avvinghiarsi attorno a un palo di metallo. «Io non voglio morire!»
Katrin lanciò uno sguardo verso il vicolo scuro alla sua destra prima di perdere la presa sul palo e tornare a essere trascinata verso la sua fine.
Improvvisamente le sue gambe furono libere.
Sentì un cozzo.
Si voltò appena in tempo per vedere un uomo afferrare le maschere delle due creature e strapparle dalle teste adunche. Le facce cadaveriche si contorsero come carta che bruciava, la pelle raggrinzì e si riempì di vesciche in pochi istanti. Un gemito strozzato uscì dalle bocche prive di denti, come di chi non riusciva a respirare. Una serie di spasmi violenti e i due giacquero immobili a terra, il volto che si liquefaceva in una poltiglia biancastra.
«Cosa stai aspettando? In piedi, sei libera!» si sentì intimare. «Forza! Potrebbero arrivarne altri!»
La prospettiva di una nuova cattura le diede la scossa di tornare a muoversi.
Seguì l’uomo che la precedeva a passo spedito.
Sdraiata sul letto della casa nella quale si erano rifugiati, Katrin guardava la nebbia che vorticava fuori dalla finestra e ripensava alle parole di Guerriero, l’uomo che l’aveva salvata.
Alle volte c’è qualcosa di strano in quel grigio: non è una nebbia normale. È viva: sembra un gigante che respira, che non riesci a vedere, ma che è vicino a te. Quando c’è, la realtà cambia. È come se si aprissero delle porte, delle finestre che si affacciano su altri mondi, facendo arrivare il loro alito sulla Terra. Un sospiro capace di mutare la realtà. Le persone spariscono in mezzo a essa.
All’interno dei palazzi erano al sicuro, le aveva detto, dato che la nebbia non passava oltre ciò che era chiuso.
“Ma sarà davvero così?” pensò con un tremito. “Era meglio se fossi rimasta sulle colline, a patire la fame, piuttosto che finire in questo inferno.” Si raggomitolò su se stessa, come se questo potesse proteggerla da un mondo dove tutto era ostile.
Andrà tutto bene, te lo prometto.
“Non ne sono sicura, papà.” Si strinse con forza le braccia al petto. “Non ne sono per niente sicura.”
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