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Wolf children - Ame e Yuki i bambini lupo

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Wolf children - Ame e Yuki i bambini lupoWolf children – Ame e Yuki i bambini lupo è probabilmente il film più conosciuto di Mamoru Hosoda. Hana è una studentessa universitaria che un giorno incontra in facoltà un ragazzo da cui rimane colpita; il ragazzo, come scopre, non è iscritto all’università, ma la frequenta lo stesso per imparare. Hana prende a frequentare Takao, questo il nome del ragazzo, e in breve i due si mettono insieme; Takao le rivelerà essere un uomo lupo, l’ultimo discendente dell’estinto lupo giapponese, ma il fatto non la spaventa affatto. Benchè giovani, metteranno su famiglia, avendo due figli, una femmina e un maschio, nel giro di un anno. Nonostante le ristrettezze (lui lavora per una ditta di trasporti, lei in una lavanderia), la loro è una vita felice; almeno fino a quando, per portare a casa della carne, Takao muore cercando di prendere un volatile. Hana, nonostante sia sconvolta nel vedere il corpo dell’amato (trasformatosi in lupo) portato via come se fosse spazzatura, si fa forza e cresce da sola i bambini, nonostante abbia sempre paura che la loro natura sia scoperta, visto che i piccoli possono trasformarsi in lupi (per questo quando stanno male non li porta in ospedale). Proprio per tale ragione decide di trasferirsi in campagna, vicino alle montagne.
Yuki e Ame, questi i nomi dei piccoli, possono vivere liberi, senza timore di essere scoperti, ma le difficoltà non mancano: Hana cerca di vivere con i prodotti della terra che coltiva, ma essendo inesperta i suoi risultati sono fallimentari. Presto la giovane donna deve intaccare i pochi risparmi che ha, ma i vicini vanno in suo soccorso, aiutandola a coltivare la terra e finalmente a ottenere frutti dai suoi sforzi.
Gli anni passano e l’esuberante Yuki, una vera e propria forza della natura, sente il bisogno di conoscere altre bambini e vuole andare a scuola. Hana, nonostante i timori iniziali, acconsente ad assecondarla; Yuki, che subito si presenta come un maschiaccio, comincia a cambiare e a voler essere come le compagne, reprimendo sempre più la sua parte lupesca.
Suo fratello Ame invece fa il percorso inverso: sempre pauroso e timido, il bambino comincia a prendere confidenza con se stesso e ad apprezzare sempre più la vita a contatto con la natura. Proprio per questo a scuola si sente a disagio, fuori posto e col tempo comincia ad andarci sempre meno, preferendo accompagnare la madre che lavora come assistente in una riserva naturale; lì incontra un lupo in gabbia nato in cattività ed è ben diverso dal padre. Tuttavia, l’incontro lo spinge a voler vivere come tale. Desiderio che prende forma quando un giorno nella foresta incontra una vecchia volpe che gli fa da maestro, insegnandogli come vivere nella natura e a prendersi cura di essa per divenire un giorno suo custode.
Yuki a scuola comincia ad avere problemi quando arriva un nuovo bambino in classe con lei: Souhei sente su di lei odore di cane e ciò la spaventa. Yuki prende a evitarlo, ma lui non le dà tregua, iniziando a seguirla dappertutto; la bambina un giorno perde il controllo e si trasforma in lupo, ferendo Souhei a un orecchio. Spaventata, smette di andare a scuola. Souhei però non si perde d’animo, portandole sempre i compiti a casa e cominciando a conquistare la sua fiducia.
I due bambini crescono e le differenze tra loro si fanno sempre più forti: Yuki si fa sempre più vicina al mondo umano mentre Ame se ne allontana sempre più e la cosa un giorno li fa litigare violentemente, mettendo a soqquadro tutta la casa.
Durante un tifone, Yuki rivela a Souhei, dopo essere rimasti soli a scuola, la sua natura di lupo; il compagno le dice che già lo sapeva e che preserverà sempre il segreto. Ame invece si allontana definitivamente da casa, andando a prendere il posto del suo vecchio maestro. Hana lo insegue cercando di convincerlo a restare, ma durante la tempesta cade e sviene. Ame torna sui suoi passi e la porta in salvo, guardandola un’ultima volta prima di trasformarsi in un lupo ormai adulto e d’inoltrarsi nella foresta.
Yuki invece l’anno dopo lascerà casa, vivendo nel dormitorio delle scuole medie che frequenta.
Hana, che rimane a vivere nella casa di campagna, ricorda con gioia i dodici anni passati insieme ai suoi figli, serena perché Yuki e Ame hanno trovato la propria strada.
Wolf children – Ame e Yuki i bambini lupo è una storia che parla del rapporto tra genitori e figli, del trovare la propria strada. Una pellicola che nella parte centrale ricorda anche un po’ Il vento fa il suo giro di Giorgio Diritti (solo dai risvolti più positivi, con Hana che stringe rapporti amichevoli con i vicini), ma che soprattutto è debitrice di due delle storie più famose di Jack London: Yuki incarna Zanna Bianca, che da più selvaggia diventa più civilizzata, decidendo di non essere più lupo ma di vivere come donna; Ame invece incarna Il richiamo della foresta, che si allontana un passo alla volta dal mondo umano e s’inoltra sempre più nella foresta, fino a non ritornare più da essa.
In mezzo c’è Hana, che da sola ha dovuto crescere due bimbi (cosa di per sé già difficoltosa) e non due bimbi comuni, ma appartenenti a un mondo di cui praticamente non sa nulla, salvo quel poco che le ha raccontato Takao, che però è troppo poco per essere di supporto. Tuttavia, con grande inventiva, coraggio e sacrificio, è riuscita nel suo compito, non senza patemi e ferite, come quella di lasciare che i suoi figli prendano la propria strada e si separino da lei.
Wolf children – Ame e Yuki i bambini lupo è forse il film di Mamoru Hosoda con meno parti divertenti ma è tra quelli che più meritano di essere visti.

Foibe

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Foiba di Pisino, una delle tante foibe esistenti.In una recente dichiarazione, la premier Meloni asserisce di aver spezzato la congiura del silenzio sulle foibe, che per decenni ha ignorato le vicende del confine orientale italiano. Sarebbe stato meglio precisare chi ha voluto passare sotto silenzio il fatto, perché di tale eccidio se n’è parlato, lo si insegna a scuola. O si è trattato di un qualcosa per enfatizzare la presenza all’evento oppure si sta cercando di far passare le cose per quelle che non sono. Si vuole rivisitare in qualche modo la storia per tirare acqua al proprio mulino, cosa che non accadrebbe per la prima volta, visto che da tempo la destra sta cercando di effettuare modifiche sui libri in questo senso.
Proprio per questo modo di fare, occorre sottolineare come le dichiarazioni fatte non corrispondono a realtà, che la storia è diversa; adesso si vuole far credere che gli italiani e i fascisti uccisi nelle foibe furono tutti vittime e martiri. Per alcuni di loro fu effittivamente così, ma per avere il quadro reale occorre conoscere tutto il contesto e come andarono le cose.
Quello che successe al confine orientale italiano si può dire che è lo stesso di quanto è successo e sta succedendo tra israeliani e palestinesi: per anni gli israeliani hanno commessi sopruso e ingiustizie ai danni dei palestinesi e a un certo punto questi ultimi li hanno ripagati con la stessa moneta. Discorso molto riduttivo e magari superficiale perché non prende in considerazione tutti i dettagli, visto che la situazione è molto più complessa di quanto mostrato da un riassunto di poche righe, ma serve per fare da preambolo all’analisi che si vedrà a seguire. Sottolineatura importante prima di andare avanti: non ci sono innocenti, sono tutti colpevoli, tranne i bambini che pagano per le colpe degli adulti.
L’occupazione italiana dell’allora Iugoslavia durante la seconda guerra mondiale scatenò le forze di opposizione; in tale area la lotta dei fascisti contro i partigiani fu durissima, con spietate ritorsioni nei confronti di civili sloveni, tra i quali villaggi incendiati ed esecuzioni sommarie. I vescovi di città come Trieste, Gorizia e Fiume denunciarono le violenze e le torture fasciste. A fronte di ciò, i partigiani iugoslavi risposero con rapresaglie, uccisioni di massa di fascisti e sospetti fascisti, ma anche gente comune, epurazioni e vendette private; i morti furono poi gettati nelle tristemente famose foibe.
Con la vittoria degli Alleati ci fu l’esodo verso l’Italia di famiglie compromesse con nazisti e fascisti.
Ora si vogliono far passare quegli italiani come vittime innocenti, ma ci si dimentica di quello che era stato fatto prima alle persone dei paesi occupati. Non ci si deve meravigliare di certe reazioni. Non si sta dicendo che erano giuste: è stato tutto sbagliato, da una parte e dall’altra. Questa è la guerra e in essa non c’è nulla di giusto.
Questa è una breve analisi di come sono andate le cose. Tuttavia, se si vuole approfondire, riporto il capitolo del libro di storia sul quale ho studiato alle superiori, a dimostrazione che i fatti avvenuti alle foibe non sono stati taciuti. (Non so se posso riportare un pezzo così ampio di un testo altrui, nel caso, se ci fosse un reclamo in merito, lo rimuoverò. Tuttavia, ritengo necessaria la scelta di pubblicare tale testo per dimostrare l’erronità di certe affermazioni e che idea distorta possa dare di come andarono le cose).

II confine orientale d’Italia: territorio conteso fra «snazionalizzazione» e violenza
da F. Molinari, Istria contesa, Mursia, Milano, 1996

Territorio tormentato, crocevia di due mondi, l’italiano e lo slavo, percorso da eserciti e lacerato da contrapposizioni nazionali, il confine orientale d’Italia era stato ridisegnato dopo la prima guerra mondiale: dalle ceneri dell’impero asburgico la penisola d’Istria era passata all’Italia (cap. II, par. 14) insieme a Trieste, col suo retroterra, e a parte della Dalmazia; ma queste zone, connotate, specie nelle campagne, da una forte presenza di Slavi, con l’annessione alla nazione italiana avevano dovuto pagare al regime fascista il tributo della «snazionalizzazione» forzata dell’elemento slavo. La politica fascista dell’assimilazione era passata attraverso la forte emarginazione degli Slavi, l’italianizzazione dei cognomi, l’obbligo di usare nei luoghi pubblici esclusivamente la lingua italiana, l’«italianizzazione dei territori occupati dai gruppi allogeni». Il movimento irredentistico filoiugoslavo era cosí venuto a legarsi, tra le due guerre, alle attività antifasciste clandestine, con tentativi di resistenza ai quali il fascismo rispose con estrema durezza, istituendo tribunali speciali che comminarono decine di condanne a morte, migliaia di anni di carcere e di «confino».
L’occupazione italiana della Iugoslavia, durante la seconda guerra mondiale, innescò l’immediata reazione di tutte le forze di opposizione che si trovarono naturalmente connesse ai gruppi antifascisti dell’Istria e di Trieste: in queste zone la lotta dei fascisti contro le organizzazioni partigiane divenne durissima; fra le spietate ritorsioni nei confronti dei civili sloveni non mancarono incendi di villaggi ed esecuzioni sommarie. I vescovi di Trieste, Gorizia, Pola e Fiume intervennero denunciando le torture e le violenze fasciste e si rivolsero a Mussolini: «sia impedito che si brucino case e villaggi; non siano uccise persone. Si dimostri che solo chi delinque viene colpito con severa giustizia».
Dopo l’8 settembre la zona fu contesa dai nazisti dagli Ustasa, dai partigiani di Tito: mentre Trieste, Gorizia, Pola e Fiume furono controllate dai Tedeschi, l’Istria fu occupata dai partigiani iugoslavi o filoiugoslavi. Per quaranta giorni, fra il settembre e l’ottobre 1943, i partigiani si abbandonarono a rappresaglie, uccisioni in massa di fascisti, «sospetti fascisti» e gente comune, epurazioni e vendette private, episodi di giustizia sommaria. Molti civili furono uccisi e i loro corpi gettati nelle foibe (profonde cavità scavate dall’acqua nel sottosuolo carsico); queste stragi provarono duramente il gruppo etnico italiano.
La riconquista tedesca dell’Istria, avvenuta nell’ottobre 1943, dopo il crollo italiano, apri una nuova va fase di soprusi e di repressione. La frontiera orientale, tutta in mano nazista, ribattezzata Litorale
Adriatico, venne considerata territorio del Reich: la risiera di San Sabba, a Trieste, venne trasformata in campo di sterminio per Ebrei e partigiani italiani, sloveni e croati. La violenza nazista raggiunse nel 1944 il parossismo, mentre fra i partigiani italiani e filoiugoslavi il problema dell’appartenenza nazionale nale veniva rimandato a guerra finita. Con il delinearsi della vittoria degli Alleati ebbe luogo il primo esodo verso l’Italia di famiglie compromesse con nazisti e fascisti: era l’«esodo nero» dei primi mesi del 1945, mentre si profilava, con l’ingresso delle armate iugoslave, la drammatica realtà descritta nella pagina qui riportata.
La vicenda dolorosa di queste terre di confine non vedrà rapidamente la fine; neppure il Trattato di
Parigi (par. 5), che sancí il passaggio dell’Istria e delle isole dalmate alla Iugoslavia, portò la pace: segnò soltanto l’inizio nelle zone ex italiane di una nuova «pulizia etnica», seguita dall’esodo verso l’Italia di circa 300.000 Istriani e Dalmati, «vittime di turno» dei contrapposti nazionalismi.

Nella notte fra il 30 aprile e il 1° maggio 1945, formazioni del IX Korpus partigiano iu­goslavo scendono in città a Trieste e a Fiume, occupano l’Istria e penetrano a Gorizia. «Con le truppe che hanno raggiunto Trieste non ci sono reparti italiani. Delle tre formazioni garibaldine, inserite organicamente nell’esercito partigiano iugoslavo, la prima e la terza concorrono alle operazioni di liberazione di Lubiana, che cadrà 1’11 maggio […] Il dirottamento mento dei partigiani italiani aveva un significato politico che fu ritenuto dagli stessi comandi partigiani italiani contrastante con lo spirito degli accordi del 1944 tra i due movimenti di Resistenza».
La strategia di Tito è di occupare la Venezia Giulia fino all’Isonzo, secondo la politica del fatto compiuto, in sintonia con le aspirazioni annessionistiche di Croati e Sloveni. Secondo questo piano, la prima preoccupazione dei comandi iugoslavi è quella di togliere dalla scena i partigiani italiani, cui viene dato l’ordine di sciogliersi o di sostituire il bracciale del CLN con quello iugoslavo che reca la stella rossa. A Trieste si verificano anche sporadiche sparatorie tra gruppi italiani e reparti del IX Korpus, finché i dirigenti del CLN, avendo coscienza delle conseguenze che l’impari confronto avrebbe comportato, anche sul piano politico, invitano i propri uomini a ritirarsi in attesa degli eventi.
Il 2 maggio arrivano a Trieste i reparti corazzati neozelandesi agli ordini del generale Freyberg i cui ufficiali, assieme a quelli iugoslavi, trattano la resa dei Tedeschi asserragliaà nel castello di San Giusto. Trieste resta, tuttavia, in mano alle truppe di Títo, che invitano il generale Freyberg ad entrare in città in veste di «ospite». Il contenzioso tra Tito e gli Alleati sull’occupazione militare della Venezia Giulia resta comunque aperto: per Trieste, Gorizia, Fiume, Pola e tutta l’Istria inizia una nuova stagione di violenza e di incertezze, caratterizzata dalla fase píú confusa del confronto per il possesso del territorio, mentre si acuiscono le contrapposizioni nazionali.
Gli uomini della IV armata iugoslava che si impossessano della Venezia Giulia recano evidenti i segni della lunga lotta sostenuta contro i Tedeschi: divise di varie fogge, spesso sporche, trasandate; armi di tutti i tipi, sottratte al nemico; berretti con la stella rossa che denunciano le varie zone di provenienza, le diverse etnie. Sono combattenti che hanno conosciuto i disagi, le sofferenze della lotta partigiana, nei boschi e in rifugi di fortuna, con poco cibo, scarsi sostegni logistici, inadeguata o del tutto inesistente assistenza medica […]. Ostentano mitra e cannoni con la fierezza di chi ha battuto un nemico piú forte, odiato e temuto. La disciplina militare è ferrea: gli ordini arrìvano direttamente da Belgrado. Gli ufficiali suggeriscono distacco e fredda cortesia verso la popolazione italiana.
Accanto ai reparti regolari figurano combattenti delle formazioni partigiane slovene e croate della zona, che fraternizzano con quella parte della popolazione che è in festa per la fine della guerra e la caduta del nazifascismo: bandiere iugoslave còn la stella rossa e bandiere rosse ai balconi degli edifici pubblici e dì molte case, e nelle strade, specie nei paesi dell’Istria, i ritmi che scandiscono il «kolo», il ballo in gìrotondo della tradizione contadina balcanica. E aperta la caccia ai soldati tedeschi e ai «repubblichini» che si nascondono, ma anche a carabinieri, guardie di finanza, poliziotti, appartenenti alla guardia civica, e soprattutto a quanti sono stati inserítí negli elenchi dei «fascisà» dai commissari politici delle formazioni clandestine, sulla base di indicazioni dei loro collaboratori nelle varie città e nei paesi. Si consumano anche vendette personali e si registrano veri e propri atti di delinquenza comune per appropriarsi dei beni delle persone che vengono arrestate. Ovunque, a Trieste, Fiume, Pola, in tutta l’Istria, si ripete il fenomeno degli infoibamenti. «Le violenze perpetrate dai comandi della Difesa Popolare, da ufficiali di polizia segreta, da “commissari” e da improvvisati tríbunali partigiani […], provocano severi giudizi e negative reazioni in gran parte della cittadinanza, e anche sconcerto fra chi inizialmente simpatizzava per la causa iugoslava».
Il nuovo regime sembra agire a due livellì. Le autorità militari hanno il mandato di ristabilire là legalità dopo le tumultuose giornate ínsurrezionali. Tendono ad assumere il carattere di esercito «regolare» di Stato, e a presentarsi agli Alleati con il volto ufficiale delle operazioni militari di occupazione, secondo le convenzioni înternazionali. Ma accanto all’ésercito entrano subito in funzione anche gli uomini dell’OZNA, la polizia segreta, che rispondono direttamente solo alle loro centrali di Belgrado, Zagabria e Lubiana. È 1’OZNA che effettua la maggior parte degli arresti ed esegue sentenze capitali con processi, quando si celebrano, soltanto sommari. […]
In questa fase torna in Istría l’incubo delle foibe già conosciuto nel 1943: vengono deportate 850 persone, delle quali 670 finiscono nelle cavità carsiche. «Un rapporto segreto stilato ìl 3 agosto 1945 dai servizi informativi del tredicesimo Corpo alleato e inviato al quartier generale delle forze alleate, sulla base di una serie di dati raccolti tramite la Croce Rossa e di denunce individuali, faceva ammontare a 31503650 il numero delle persone sicuramente arrestate e deportate da Gorizia, Trieste, Pola e Monfalcone. Sempre secondo questo rapporto, dei 3-4000 arrestati a Gorizia, 1500 erano stati rilasciati a metà del mese di giugno. Solo a Trieste risultavano arrestate, dal 1° maggio al 12 giugno, 17.000 persone, delle quali 8000 successivamente rilasciate, altre 6000 risultavano internate e ben 3000 uccise».
[…] Illustri antifascisti italiani scrìvono al governo italiano citando «arresti in massa di fascisti, ma anche di patrioti italiani che con il fascísmo non hanno nulla a che fare» […]. Le stesse autorità iugoslave devono intervenire per fermare alcuni eccessi. Il caso piú emblematico è quello della cosiddetta «squadra volante» di Trieste, composta da un gruppo di individuì autonominatisi «guardie del popolo». La «squadra volante» effettua perquisizioni, arresti, sequestra beni, esegue condanne a morte anche in massa [..,]. In genere le autorità iugoslave lasciano fare, ed anche gli Alleati, che dispongono di osservatori nelle principali città, si limitano a prendere nota di quanto avviene segnalandolo ai rispettivi comandi.
Non sono tuttavia le notizie di arresti e massacri a muovere gli Alleati, che iniziano un braccio di ferro con Tito per far ritirare il IX Korpus da Trieste, Gorizia e Pola. Il feldmaresciallo Alexander2 aveva già illustrato in precedenza allo stato maggiore iugoslavo la necessità, per gli Alleati, di avere il controllo dei due porti e dell’area di comunicazione con il confine austriaco «per mantenere le truppe di occupazione nell’Italia nord-orientale e in Austria». Tito dichiara di comprendere le necessità «logistiche» dell’esercito alleato, ma contrappone le sue ragioni di ordine politico; egli considera necessaria «la riconquista della Venezia Giulia ingiustamente annessa all’Italia con il trattato di pace dopo la prima guerra mondiale».
Negli Americani […] si fa strada la convinzione della necessità di far ripiegare le truppe iugoslave «anche a rischio di uno scontro armato». A metà maggio il capo di stato maggiore di Alexander si reca a Belgrado e tratta con i vertici iugoslavi la divisione della Venezia Giulia in due zone di occupazione, definite zona A e zona B, la prima affidata alla giurisdizione delle truppe alleate, la seconda a quella dell’Armata di liberazione iugoslava. La soluzione viene definita provvisoria «perché il destino di questa parte di mondo è affidato al tavolo della pace» (Churchill). La zona A comprende Trieste, Gorizia, la fascia confinaria orientale fino a Tarvisio, oltrè all’enclave di Pola; gli Alleati intendono inoltre disporre di «ancoraggi lungo la costa occidentale istriana». La zona B abbraccia Fiume, le isole settentrionali del Quarnaro e tutta l’Istria. Su questa proposta, che smembra la Venezia Giulia secondo quella che viene definita la «linea Morgan», le discussioni, anche aspre, continuano per una ventina di giorni, durante i quali gli Alleati mostrano i muscoli, ammassando truppe nel vicino Veneto e sorvolando l’intero territorio in discussione con incursioni di aerei da caccia e da bombardamento.
Il 9 giugno a Belgrado si tiene un non cordiale incontro fra Tito ed Alexander. Viene siglato un documento in sette punti che accettano consensualmente la «linea Morgan»: si definisce il carattere temporaneo delle rispettive occupazioni militari, si limita a duemila il numero dei soldati iugoslavi «di qualsiasi grado» destinati ad occupare la zona B. L’accordo prevede anche che il governo iugoslavo «dovrà restituire le persone residenti nella zona che esso ha arrestato o deportato, ad eccezione delle persone che avevano nazionalità iugoslava prima del 1939, e riconsegnare le proprietà confiscate o trasferite».
Il 12 giugno l’Armata iugoslava lascia Gorizia, Trieste e Pola e si prepara a sgomberare anche le cittadine costiere istriane. La popolazione italiana celebra la fine di un incubo; nelle tre città si improvvisano grandi manifestazioni nelle piazze, riappare il tricolore. […] In un colloquio al castello di Duino, presso Trieste, i plenipotenziari statunitense e iugoslavo convengono che gli «approdi istriani» non sono essenziali alla logistica degli Alleati, che rinunciano quindi ad occuparli e si riservano di farlo solo in caso di «inadempienze» iugoslave. Le inadempienze si verificano. Gli Iugoslavi restituiscono solo una parte dei prigionieri (piú della metà, soprattutto guardie di finanza e carabinieri, moriranno di stenti nei campi di concentramento), e l’Istria resta presidiata da oltre diecimila armati di Tito. Ma gli Alleati hanno altro a cui pensare, e da quel 12 di giugno la «soluzione provvisoria» si trasforma di fàtto in definitiva. Dopo ventisette anni di appartenenza allo Stato italiano l’Istria passerà sotto la sovranità iugoslava, al di là della «cortina di ferro». (1)

1. Storia e storiografia. Il Novecento: dall’età giolittiana ai nostri giorni 3. Terzo tomo. Nuovissima edizione. Casa editrice G. D’Anna Messina- Firenze. Antonio Desideri, Mario Themelly, con la collaborazione di Antonio Pantanelli e Margherita Platania. Pag. 1074, 1075, 1076. Gennaio 1997.

I volti dello sport

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Grazie a Sinner lo sport sta vivendo un buon momentoLo sport in Italia sta vivendo una pagina luminosa, questo soprattutto grazie al tennis e alle vittorie conseguite negli ultimi tempi da Sinner. Cosa non per niente strana, tanti italiani si sono ritrovati improvvisamente appassionati ed esperti di tennis, alcuni addirittura sono diventati praticanti; il fatto non sorprende, dato che il successo di alcuni in uno sport (calcio, basket, nuoto) abbia entusiasmato molti, portandoli a emulare chi era al centro dell’attenzione, del successo, della fama. Altra cosa non per niente strana è che chi è vincente viene preso come modello; non che la cosa sia sbagliata, se il modello dà degli input positivi (Sinner rappresenta l’impegno, la costanza, ma fa anche affermazioni che dovrebbero fare riflettere: “I social non mi piacciono, non è quella la verità, vedi certe cose ma non sono quelle”, “Ai ragazzi dico di stare attenti… personalmente vivo meglio senza i social e continuerò a fare così” (1). Senza contare che fa scelte che dimostrano carattere, come aver educatamente declinato di partecipare a San Remo, perché l’apparire non è tutto, perché si vuole evitare la spettacolarizzazione, l’idolatria a tutti i costi, perché ci si vuole focalizzare su ciò che si vuole per davvero).
Molta di questa reazione è dovuta all’euforia del momento, che si dissolve poi col passare del tempo; in alcuni casi però lo spirito di emulazione fa voler percorrere la stessa strada, soprattuto se si è spinti dalla voglia di ottenere fama, successo e denaro. E ciò non è per niente sano, perché si sta mettendo in atto uno dei meccanismi della società che limita il valore di una persona all’apparire e nient’altro; e i risultati che questa cultura ha portato dimostrano quanto sia nociva.
Questo allora porta a fare una domanda: che valore ha lo sport?
E non si pensi minimamente all’aspetto economico: non è di questo di cui si vuole parlare. Ma di cosa porta lo sport a livello personale.
Divertimento? Salute fisica? Aiuto? Crescita personale?
Tutte queste cose.
Ma anche il loro opposto.
Prendiamo due manga sportivi che mostrano un percorso simile, ma con esito diverso.
In Slam Dunk di Takehiko Inoue, Hanamichi Sakuragi è un ragazzo che non ha obiettivi se non quello di correre dietro le ragazze (e ricevere due di picche uno dietro l’altro); è un attaccabrighe, un rissaiolo, in poche parole il classico teppista. La sua vita ha una svolta quando, arrivato al liceo, conosce Haruko Akagi, sua coetanea e appassionata di basket; innamoratosi di lei al primo colpo, decide, per compiacerla e così fare colpo su di lei, di giocare a basket nella squadra del loro liceo. Il motivo per fare questo sport non sarà tra i più nobili, ma col tempo Hanamichi si appassiona davvero al basket, arrivando ad amarlo profondamente; questo amore e l’impegno che ci mette per migliorare non lo fanno crescere solo come sportivo, ma anche come persona. Hanamichi ora non è più un perditempo, non è più coinvolto in scontri tra bande, ma ha un obiettivo, uno scopo da perseguire. Il basket è stata la sua redenzione, quindi lo sport nel suo caso è stato qualcosa di salvifico.
Questo non avviene invece in Rocky Joe di Asao Takamori e Tetsuya Chiba. Joe Yabuki è un giovane che vive nei bassifondi di Tokyo, fugito da un orfanotrofio senza aver mai saputo nulla dei genitori; conosce solo povertà e violenza. Un classico sbandato, senza prospettive. Fino a quando non incontra il vecchio Danpei Tange, ex pugile ed ex allenatore di boxe, che vede in lui il potenziale per farlo divenire un campione. Grazie alla boxe Joe si allontana dal mondo fatto di povertà e violenza in cui è cresciuto, cambia il suo modo di vivere, ma per perseguire l’obiettivo di diventare campione fa molti sacrifici e il suo fisico e la sua mente ne soffrono parecchio. Joe è talmente preso dalla boxe che è disposto a tutto, arrivando ad autodistruggersi, come succede nell’incontro finale quando combatte per il titolo di categoria contro il campione in carica. Emblematiche sono le ultime parole che proferisce prima di spirare nel proprio angolo alla fine dell’incontro: “Non c’è più niente da bruciare, solo le bianche ceneri.”
Lo sport può essere salvezza (Slam Dunk) o distruzione (Rocky Joe), ma tutto dipende da come viene vissuto e attuato da chi lo pratica; propbabilmente lo sport è semplicemente un mezzo con cui si dimostra ciò che si è, come si affronta la vita.
Di esempi come questo ce ne sono tantissimi prendendo spunto dalla vita reale. Tanti sportivi sono stati salvati o aiutati dallo sport, trovando un senso alla loro esistenza, salvandosi da certe condizioni. Molti invece sono stati rovinati a causa di esso, vuoi per non aver saputo gestire il successo, la fama, la ricchezza giunti con esso, vuoi per essersi rovinati con l’uso di sostanze dopanti.
Cose che succedono ai campioni, ma anche alle persone comuni, che praticano sport solo per divertirsi o stare bene, oppure che lo praticano perché forzati da altri, come succede con certi genitori che impongono ai propri figli di fare un determinato sport con la speranza che possa sfondare e “diventare qualcuno”. Non parliamo poi di tutto quello che ruota attorno allo sport, con le purtroppo tristi cronache di scontri tra tifosi, insulti razzisti, o di certe trasmissioni dove più che discutere si litiga. O dei social dove in più di un’occasione si fomenta odio. O delle scommesse illegali. O di tutti i soldi che ruotano attorno alle competizioni sportive, con tutto quello che ne consegue, più o meno lecito e morale.
Si può dire che lo sport può tirare fuori il meglio o il peggio dalle persone. Ma ancora una volta bisognerebbe capire che tutto dipende sempre dal’individuo e da come decide di fare.

The boy and the beast

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The boy and the beastThe boy and the beast (che, oltre al titolo, anche in parte della storia si rifà alla famosa favola di The beauty and the beast), racconta il legame che c’è tra Ren, un umano, e Kumatetsu, una bestia. I due vivono in mondi differenti ma vicini, dato che quello delle bestie è una sorta di mondo parallelo che può essere raggiunto dalla Terra da un passaggio segreto.
Ren, che all’inizio della storia ha nove anni, ha appena perso la madre (del padre non si sa ancora nulla) e deve andare a vivere con i parenti, ma non vuole e scappa lontano da essi. Rintanatosi in un vicolo di Shibuya, incontra due figure dall’aspetto bestiale, una di scimmia (Tatara) e una più grande di orso (Kumatetsu). Tra l’orso e il bambino c’è un lungo e intenso sguardo, con la bestia che gli domanda se vuole divenire suo discepolo. Ren, incuriosito, lo segue, scappando dalla polizia che lo vuole riportare a casa; si ritrova così all’improvviso nel mondo delle bestie, dove scopre che c’è una contesa tra Kumatetsu e Iozen (dall’aspetto di cinghiale), che lottano per succedere al posto del Gran Maestro che sta per trasfigurarsi in una divinità.
Kyuta, questo il soprannome dato da Kumatetsu a Ren per via della sua età dopo che non ha voluto rivelargli il suo vero nome, all’inizio non va d’accordo con la bestia (anche se, dopo averlo visto combattere con Iozen, ha deciso di stare con lui perché è solo, senza nessun supporto ma deciso a farcela con le proprie forze, proprio come lui), ma osservandolo e ricordando una frase della madre sull’immedesimarsi, impara come muoversi per anticipare l’avversario. Comincia così tra i due un connubio vincente, dove ognuno insegna qualcosa all’altro e, insieme, entrambi crescono e migliorano. Kyuta viene accettato dalle bestie, che all’inizio erano state contrarie al fatto che lui restasse perché gli umani erano predisposti a farsi possedere dalle tenebre, e grazie anche a Tatara e Hyahushubo (un bonzo dall’aspetto di maiale), acquisisce maggiore sicurezza.
A diciassette anni, Kyuta riattraversa per caso il passaggio segreto e finisce all’interno di una biblioteca, dove conosce una ragazza, Kaede, che lo aiuta a studiare e migliorare a leggere (è appassionato di Moby Dick), dato che la sua istruzione scolastica si è fermata a quando era piccolo. Da lì in poi comincia a fare la spola tra i due mondi, dato che vuole ritornare a studiare per iscriversi all’univerità, e magari andare a vivere col padre, che ha scoperto dove abita. In uno dei suoi viaggi vede in una vetrina il suo riflesso come un essere nero con un buco al centro del petto e ne rimane sconvolto; solo l’aiuto di Kaede evita di farlo impazzire.
Dopo essere stato assente a lungo dal mondo delle bestie, Kyuta vi ritorna proprio il giorno della sfida tra Iozen e Kumatetsu; il suo maestro e padre putativo sta perdendo, ma dopo il suo incoraggiamento e i suggerimenti su come muoversi, riesce a vincere l’incontro e così divenire il successore del Gran Maestro.
La festa è rovinata da un colpo a tradimento di uno dei figli di Iozen, Ichirohiko, che non accettando la sconfitta del padre, scaglia contro Kamatetsu la katana con i suoi poteri telecinetici, trafiggendolo alle spalle. Kyuta scopre che anche Ichirohiko possiede le tenebre e ha un buco al centro del petto, proprio come lui; si viene a sapere così che Ichirohiko è anche lui umano, adottato da Iozen quando era stato abbandonato in fasce.
Kyuta decide di inseguire Ichirohiko nel mondo umano e fermarlo, assorbendo lui e le sue tenebre all’interno del proprio corpo e poi togliendosi la vita con la spada. Sta per mettere in atto il suo piano e così salvare Kaede che è accorsa da lui (Ichirohiko ha assunto le sembianze di una balena blu dopo aver letto una pagina del libro Moby Dick caduto a Kyuta), quando dal cielo piomba sul terreno una spada luminosa: si tratta di Kumatetsu che, essendo divenuto Gran Maestro, ha chiesto al suo predecessore di svelargli il segreto per ascendere e prendere il suo posto, in modo da aiutare e salvare il discepolo. Kyuta la impugna e Kumatetsu diventa la sua spada nel cuore, proprio come gli aveva insegnato all’inizio del suo percorso d’apprendimento; sconfigge Ichirohiko ma non lo uccide, facendolo ritornare dalla sua famiglia adottiva.
Dopo i festeggiamenti per il pericolo evitato, Kyuta ritorna nel mondo umano, andando a vivere col padre e studiando assieme a Kaede all’università, con Kumatetsu che vive nel suo cuore e lo consiglia, vegliando sempre su di lui.
The boy and the beast è davvero un bel film, divertente e allo stesso tempo profondo, riuscito in tutte le sue parti e nei suoi personaggi. Molto azzeccato l’uso che viene fatto del romanzo Moby Dick, specie nella trasposizione del simbolismo che rappresenta lo scontro tra Ren/Kyuta e Ichirohiko. Molto apprezzato pure il ricordare Il libro della giungla di Kipling: come Mogli viene cresciuto dagli animali della giungla, così Ren viene aiutato nel suo percorso di crescita dalle bestie del mondo parallelo, ritornando in quello umano quando è cresciuto e ha i mezzi per cavarsela da solo.
Mamoru Hosoda ha fatto con The boy and the beast un ottimo lavoro.