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Morti per denaro

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strage Mottarone: quattorci morti per denaro (foto Ansa)Il denaro è tutto nella nostra società e tutto viene messo dopo di esso, è risaputo, eppure in tanti oggi si scandalizzano per i fatti di Mottarone dove quattordici persone sono morte per la scelta di bypassare i sistemi di sicurezza per ovviare ai problemi della funivia. In tanti dicono che non è possibile morire per denaro, ma invece di fare tanti proclami e usare frasi di circostanza, dovrebbero invece accettare che siamo nell’Era dell’Economia e che è la normalità mettere il profitto prima di tutto, anche della vita umana. Occorre prendere atto che l’essere umano ormai è solo un mezzo per fare soldi, l’unica cosa che conta: uomini, donne, ormai non sono che oggetti da usare finché sono utili e basta. Tutto il resto (dignità, rispetto, sogni) non vale assolutamente nulla: è importante solo il Dio-Denaro. Anzi, il Demone-Denaro, perché Mammon non è mai stato un dio, ma soltanto un demonio.
Non ci si deve scandalizzare di questo, visto che le varie classi dirigenti di un paese con le pezze al culo come il nostro non hanno fatto altro che parlare di lavoro, di come farlo andare avanti non importa a quale costo, e mai hanno parlato dei lavoratori, della qualità delle condizioni in cui dovrebbero operare. Troppo spesso si è sorvolato sulla questione sicurezza e i fatti hanno dimostrato quanto tragica è stata tale scelta: è così nel presente con il caso Mottarone, è stato così nel passato recente con il ponte Morandi, preferendo risparmiare i soldi della manutenzione. Una scelta fatta consapevolmente, il che rende il quadro più chiaro della realtà in cui si vive e che è stata creata: si deve prendere atto di tutto ciò e smettere d’indignarsi, di fingersi sbigottiti. Occorre smettere di essere ipocriti e accettare che questa ormai è la nostra quotidianità e che si è responsabili di quanto sta accadendo, perché troppo spesso si è lasciato andare, troppo spesso ce ne si è fregati. Ogni giorno ci sono morti sul lavoro perché si sono voluti fare tagli sulla manutenzione, si è voluto sorvolare sulla sicurezza perché fa perdere tempo e così si perde guadagno: una piaga che va avanti da decenni, ma che dal 2000 in poi non ha fatto che peggiorare anno dopo anno. Mottarone, ponte Morandi, sono solo due tanti casi di morti per aver ignorato di mettere la sicurezza delle persone prima di tutto. E la cosa, se non ci si metterà un freno, non farà che peggiorare.
Ne ho parlato sia in L’inizio della Caduta, dove ho denunciato questo modo di fare.

Si muore per il lavoro. Un fatto inconcepibile per un paese la cui forza è fondata su questo principio. Una realtà a cui si è giunti perché i diritti conquistati sono stati perduti e calpestati. Anni di sacrifici buttati al vento: grazie a questa scelleratezza è peggiorata la condizione lavorativa, come dimostra l’aumento delle morti bianche.
In meno di un quadrimestre esse hanno superato le mille unità, un dato drammatico di cui governo e industriali avrebbero dovuto farsi carico e creare un provvedimento che tuteli maggiormente i lavoratori. Invece, nemmeno dopo le tragedie si è voluto prendere atto del problema e affrontarlo. Le tutele strappate alla classe dirigente grazie agli scioperi, alla luce dei fatti di quest’ultimo periodo, sono state vittorie di Pirro. Per ogni incidente sul lavoro si sono sprecate lacrime, ma, a ben vedere, le istituzioni hanno guardato altrove. Peggio: hanno cancellato il reato d’omicidio colposo a seguito d’infortunio sul lavoro.
Il comportamento della classe dirigente è sconcertante, impegnata solo a difendersi e allontanare ogni responsabilità per le tragedie avvenute, puntualizzando che in nessun caso c’è stata violazione degli standard di sicurezza; non sa fare altro che emettere comunicati scritti con mano burocratica, dove non esistono autocritica su quanto accaduto e parole d’umanità nei confronti dei morti e delle loro famiglie.
Di chi è la colpa di tutto ciò?
Del mercato privo di soggettività e del guadagno esasperato che non si cura della condizione dei lavoratori perché manutenzione e sicurezza costano, facendo abbassare i profitti. Ci sono persone che la mattina si alzano e vanno a rischiare la vita per salari bassissimi, lavorando “in nero”, senza condizioni di sicurezza; muoiono per uno stipendio che non fa arrivare alla fine del mese, costretti ad accettare turni e straordinari massacranti, a sopportare i rischi di un lavoro pericoloso perché è difficile trovarne un altro.
Giornali, televisione e social riportano ogni giorno notizie tragiche di lavoratori feriti gravemente o deceduti sul posto di lavoro, ma ce ne sono altri che non vengono neanche nominati, che muoiono silenziosamente. Tutto ciò reclama giustizia, ed è compito nostro, muovendoci secondo le regole democratiche, dar voce a chi non può più parlare.

Sia in L’ultimo Potere, dove ho mostrato dove aveva portato la scelta di asservire tutto il lavoro al profitto.

…il mondo in cui si era dovuto muovere fin dai primi passi era follia, degradazione, violenza. Le strade erano un campo di battaglia, i palazzi fortezze o prigioni. Erano sempre in movimento, sempre all’erta perché non esisteva un luogo sicuro. Una vita difficile, ma erano liberi, esseri umani capaci ancora di scegliere, non come quelle persone che aveva visto rinchiuse nell’immenso fabbricato che Vecchio gli aveva mostrato: vicine a macchine enormi e rumorose, passavano ore e ore a ripetere gli stessi identici movimenti, giorno dopo giorno. Vecchio gli aveva spiegato che erano operai che lavoravano per una fabbrica che produceva armi.
Era rimasto a fissare a lungo quelle tristi figure, mogie e sconsolate. Quello non poteva essere un lavoro, nessuna persona libera poteva vivere in quelle condizioni: non potevano muoversi per più di pochi passi incatenati com’erano alle macchine e c’erano sempre individui che sorvegliavano accanitamente lo svolgimento dei compiti; alle volte sentiva urla e vedeva quei personaggi sempre nervosi scagliarsi con rabbia contro i lavoratori. Una volta al giorno veniva portato un vassoio con un pezzo di pane e un piatto con della brodaglia: avevano pochi minuti per mangiare prima di riprendere a lavorare; solo a tarda notte potevano dormire per qualche ora, coricandosi su cartoni distesi sul pavimento vicino alle macchine, a poca distanza dai vasi dove scaricavano i loro bisogni fisiologici. Soprattutto c’erano i volti di quelle persone a mostrargli la verità della loro natura: il loro sguardo era spento e rassegnato, sempre a capo chino e spalle piegate. Non li vedeva mai sorridere, erano sempre tristi. Erano soltanto degli schiavi.

«Maledetti loro e la loro ossessione d’essere efficienti e produttivi, il dover fare a tutti i costi qualcosa d’utile per aumentare il benessere della società. Guarda!» allargò le braccia come se volesse abbracciare i cumuli d’oggetti che si alzavano fino al soffitto del magazzino. «Non hanno fatto che continuare a produrre, non si sono mai accontentati. Volevano di più, accumulando ingordamente: non gli bastava mai quello che avevano, dovevano aumentare la ricchezza in un’ascesa che non doveva mai avere fine. Sciocchi!» sbottò seccato. «La montagna che si sono creati gli si è rovesciata addosso e li ha travolti; preoccupati di avere sempre più cose, non hanno saputo apprezzare quello che avevano ottenuto, finché non l’hanno perso. Guarda tutto quel darsi da fare che cosa gli ha portato: sono altri a godersi i frutti delle loro fatiche. Ma in un mondo in rovina, dove tutto è stato perso, che cosa vuoi che importi la ricchezza? Possediamo di tutto, ma che cosa può fregarcene? Abbiamo perso noi stessi. Siamo soltanto cenere, sparsa nel grigiore dei quattro venti. Noi siamo i figli dei figli dell’era dell’economia e malediciamo i nostri genitori per averci dato un mondo del genere. Loro e la falsa ideologia in cui credevano.»
«Che ideologia?» chiese Guerriero.
L’uomo lo guardò con sorriso sardonico. «Conosci solo questa rovina di mondo: per te è la realtà, ma ce ne sono state altre. La madre di quella in cui vivi era ricca, ma anche frivola e crudele: non guardava in faccia a nessuno e per imbellettarsi e vestirsi sempre più sontuosamente non si curava di camminare sulle carni di chi si era spezzato la schiena per arricchirla. Era bella, ma senz’anima. Identificava il suo essere con ciò che aiutava a vivere: il potere, la notorietà, la ricchezza. Vi era attaccata così fermamente che era arrivata a credere che senza queste cose la vita non potesse esserci. La sua mente rifiutava di comprendere che erano solamente degli accessori, che l’esistenza poteva andare avanti senza di essi; la sua paura era che scomparsi questi elementi, se ne sarebbe andata anche lei. Così ne fece la sua ossessione e pensò che per sconfiggere la sua paura avrebbe dovuto avere una ricchezza che non aveva fine. Era talmente forte che si trasformò in un credo cui aderirono milioni di fedeli: popolazioni intere fecero propria la sua ideologia, creando una società spietata, dove le persone scalzavano, schiacciavano e sacrificavano il fratello per salire sempre più in alto nelle grazie della signora. Fu una competizione mortifera: gli individui si scannavano tra loro per avere sempre di più. E alla fine persero tutto.»

«Tu vieni da là sopra: hai mai visto dei caseggiati grandi come campi, squadrati, molto lunghi e con poche finestre? Di solito ci sono delle spianate ricoperte di simili edifici.»
Di nuovo Guerriero assentì.
«Quelle si chiamano industrie. La gente vi stava rinchiusa per ore a lavorare, facendo sempre le stesse identiche cose tutti i giorni della settimana.»
Un brivido di repulsione scosse Guerriero.
L’altro se ne accorse. «Dalla tua reazione noto che ce ne sono ancora e che le hai viste» grugnì soddisfatto. «Mi domandi perché non abbiamo intenzione di fare nulla? La risposta l’hai avuta sotto gli occhi. Una vita da reclusi, da schiavi e per che cosa? Per arricchire una sola persona che si gode i proventi del lavoro, dando agli altri una minuscola parte dei profitti dopo che hanno svolto una giornata di fatiche. Non ne vale la pena» scosse il capo. «Se c’impegnassimo di nuovo a creare qualcosa e ad averla tra le mani, si arriverebbe al punto che anche gli altri comincerebbero a desiderarla, a volerla per sé. Arriverebbero a sentirne il bisogno, a pensare che potrebbe essergli utile in un qualche modo. A questo punto ci sono due strade per riuscire a ottenere l’oggetto del desiderio. Si cercherebbe di rubarlo, magari arrivando a uccidere, innescando una reazione che porterebbe a violenza e sopraffazione. Oppure, cercando di seguire una via più civile, si cercherebbe di produrla in gran quantità. E per coprire grandi volumi, occorrerebbe effettuare una produzione in serie, coinvolgendo un gran numero di persone nel processo di lavorazione. Ma prima di arrivare alla produzione bisognerebbe ricercare il materiale di costruzione, costruire i macchinari per lavorarlo, trovare l’energia per far funzionare questi ultimi» le labbra si piegarono su un lato, in un sorriso sghembo. «Inevitabilmente tutto ricomincerebbe da capo. E sarebbe di nuovo schiavitù. A questa e alla violenza è preferibile quella che si chiama apatia; non ci va di sprecare la vita per accontentare altri, per un semplice capriccio. Non ci va di tornare in un inferno che abbiamo avuto la fortuna di lasciarci alle spalle.»

Chi vuol negare la realtà può asserire che le cose non vanno così male, che sono solo eccezioni, che sono soltanto fantasticherie, ma spesso la realtà supera la fantasia.

Kentaro Miura ci ha lasciati

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Kentaro Miura non disegnerà più le storie di GatsuKentaro Miura è andato a raggiungere la Squadra dei Falchi e Gatsu si trova orfano di un altro compagno. Anzi, del compagno che gli è stato vicino fin dalla nascita, che l’ha visto sopravvivere alla morte fin da quando ancora non respirava, che l’ha visto muovere i primi passi e impugnare una spada quando era ancora bambino, attraversare un campo di battaglia dopo l’altro, sopravvivendo a combattimenti sempre più ardui e disperati. Un compagno che ci ha raccontato le imprese di un combattente, le sue perdite, i suoi patimenti, i tradimenti che ha subito, discendendo in un inferno di sangue e follia dal quale è riemerso sì menomato ma anche più forte e feroce, facendo della vendetta la sua ragione di vita. Gatsu proseguirà il suo cammino, non si arrenderà, come ha sempre fatto; andrà avanti, soprattutto ora che Caska, la donna che ama, è riuscita a tornare integra mentalmente. Ma difficilmente sapremo quale sarà il fato che lo attende nel futuro: forse troverà quella pace che tanto poco ha conosciuto nella sua vita, forse invececi sarà ad aspettarlo lo stesso destino cui sono andati incontro Akira e Ryo (i due protagonisti di Devilman di Go Nagai).
Al momento è difficile sapere se qualcuno prenderà l’onere, come fece Brandon Sanderson con La Ruota del Tempo di Robert Jordan, di dare risposta alla domanda che si pongono i fan di Berserk su come terminerà la storia di Gatsu; anche se così fosse (cosa ardua), non sarebbe la stessa cosa, non sarebbe come l’ha pensata il Maestro.
Personaggio riservato, Kentaro Miura è morto il 6 maggio a 54 anni a causa di una dissezione aortica acuta, ma la notizia è stata data solo il 20 maggio con un tweet pubblicato dalla casa editrice Young Animal Comics sull’account ufficiale della serie. Miura non ha realizzato solo Berserk (tra le sue altre opere c’è anche Gigantomachia), ma l’autore di manga sarà ricordato per quest’opera e non solo per l’elevato numero di vendite, ma per il suo spessore, la sua profondità e la grande ricchezza che l’ha fatta divenire qualcosa di unico (per farsi un’idea della maestosità del lavoro di Miura ecco una serie di articoli che la mostrano: uno, due, tre, quattro). E di questo, non gli si può che dire grazie.

Giornalismo

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Terzani parla del giornalismo nel suo libro La fine è il mio inizio…erano i tempi eroici del giornalismo… prima che il giornalismo, maledettamente distrutto dalla televisione nel suo tentativo di imitarla, è stato costretto a diventare spettacolo.
In quegli anni si scriveva davvero. Purtroppo la televisione, riducendo i tempi dell’attenzione che l’uomo riesce ormai a dedicare a una cosa – oltre all’orribile problema, uguale dovunque, della sovraofferta di tutti quei prodotti che sono lì a disposizione perché tu abbia « la scelta » – ha fatto sì che i giornali siano diventati dei contenitori in cui dentro c’è di tutto, ma solo per l’attenzione di tre minuti, come uno spot televisivo, e in cui tutto si perde nel grande minestrone delle cose che ti arrivano dal mondo.
Oggi è impossibile scrivere cose lunghe come si scrivevano un tempo. Allora, qual è la tendenza? Fare spettacolo. Non cercare di andare in profondità. Fare una sceneggiata: un bigolino con la foto, una storia sbalorditiva. Basta, chiuso, non se ne parla più. Questo è un grande svilimento anche della missione giornalistica.

…il problema è che tutto si è inquinato. La vicinanza al potere, la necessità della protezione del potere hanno creato una situazione che non è più quella di un tempo, in cui la forza del giornalismo era la sua indipendenza. Sai, una indipendenza anche economica. Quando i giornali dipendono dalla pubblicità, come succede in Italia, e la pubblicità è in mano a chi ha il potere politico, come puoi essere libero? Quando i giornali sono posseduti dalle grandi aziende contro le quali non potrai mai scrivere e che hanno i loro interessi politici, come fai a fare del vero giornalismo? Pensa invece che Le Monde è posseduto dai giornalisti, che il New York Times è posseduto da una vecchia famiglia che tiene moltissimo alla sua indipendenza, che il Washington Post era posseduto da una signora di grande famiglia, di grande tradizione. Be’, questo cambia molto le cose. Molto. Infatti, sarebbe stato impossibile Watergate se il Washington _Post non fosse stato posseduto dalla signora Martha Graham, perché ci sarebbero stati subito legami politici che rendevano necessaria la soppressione della storia. Ed è vero che gli americani hanno perso la guerra in Vietnam anche a causa della stampa. Perché allora c’era una stampa libera, una stampa che guardava, che vedeva, che andava a grattare.

La fine è il mio inizio. Tiziano Terzani. Longanesi 2006, pag. 115-117

La grotta dello stregone

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Alejandro fin da piccolo era stato affascinato dalle storie sulla vecchia miniera abbandonata. Storie di tesori dimenticati, di tane di creature mai viste, di passaggi che portavano a laghi sotterranei che si collegavano al mare. Ma la storia che preferiva era che nella parte più profonda della miniera si diceva ci fosse la dimora di uno stregone: i vecchi minatori raccontavano che era piena di meraviglie e che qualsiasi richiesta poteva essere esaudita.
Quando Alejandro sentiva quei racconti, si metteva a pensare a ciò che avrebbe voluto realizzare se fosse riuscito a trovare lo stregone: quello che più gli sarebbe piaciuto vedere divenir realtà era viaggiare per luoghi mai visti, dato che i suoi non erano abbastanza ricchi da potersi permettere di fare dei viaggi.
La paura però, almeno fino a quando era stato bambino, era stata più forte del realizzare i suoi desideri e lo aveva tenuto lontano dalla miniera: l’apertura nera che conduceva sottoterra gli sembrava la gola di un gigante pronto a ingoiarlo. Ma ora era cresciuto e non si faceva più spaventare da certe cose.
Prese il casco munito di lampadina del nonno e si diresse alla vecchia miniera. Superò i carrelli abbandonati e ricoperti di erbacce, camminando a fianco dei binari; quando fu davanti all’entrata un poco della paura di quando era bambino tornò a far capolino. Il buio sembrava denso come pece e gli pareva di veder muoversi delle ombre nell’oscurità, ma era giunto fino a quel punto e non si sarebbe certo tirato indietro; facendosi coraggio, entrò nella miniera, seguendo la galleria principale. Con la luce della lampadina si rese presto conto che quello che aveva creduto di vedere nell’oscurità era stato solo frutto dell’immaginazione: a parte lui, non c’era nessun altro. Continuò a camminare scendendo sempre più all’interno della terra, fino a quando si trovò di fronte a un bivio e lì gli venne un dubbio: qual era quello giusto che lo avrebbe condotto dallo stregone?
Ci pensò un po’ su, poi scelse la galleria che scendeva di più: i vecchi minatori avevano detto che si trovava nelle profondità della miniera e allora avrebbe dovuto incontrarlo lì.
Gli pareva di camminare di ore quando scorse davanti a sé una debole luminescenza. Si diresse verso di essa e si ritrovò in una grotta sulle cui pareti cresceva un muschio fosforescente; poco lontano dall’ingresso stava seduto un uomo che con un cenno della mano lo esortò ad avvicinarsi.
Alejandro si avvicinò titubante, ma mettendosi a parlare presto si trovò a suo agio con lui. Anche se se lo aspettava, rimase sorpreso nello scoprire che lui era lo stregone che era venuto a cercare: se l’era immaginato diverso, con mantello e cappello a punta, magari che camminava appoggiandosi a un bastone nodoso. Invece indossava jeans e maglietta come lui.
Quando Alejandro gli raccontò il motivo per cui era sceso nella miniera, lo stregone sorrise e gli disse di seguirlo. Fecero a ritroso tutto il percorso, tornando a spuntare alla luce del sole che stava tramontando.
«Guarda il cielo» disse lo stregone. «Che cosa vedi?»
«Nuvole» rispose Alejandro.
«Prova a guardare meglio.»
Alejandro tornò a fissarle. «Sono solo delle semplici nuvole.»
«Ti sembrano delle semplici nuvole perché non riesci a vedere oltre» disse lo stregone. «Ma se guardi meglio, ti accorgerai che sono delle immense montagne coperte di neve e sono così alte perché fungono da guardiani per una terra che non è stata ancora scoperta, abitata da animali che mai sono stati visti.»
«Io vedo solo delle nuvole» disse Alejandro.
«Prova a lasciarti andare all’immaginazione» gli suggerì lo stregone. «Ora però ti conviene tornare a casa.» Dopo averlo salutato, se ne tornò alla sua grotta.
Alejandro ripensò alle parole dell’uomo tutta la notte e più ci pensava, più riteneva che avesse voluto prenderlo in giro. Il giorno dopo se ne stava seduto sotto un albero, continuando a pensare a quello che gli era stato detto, quando una grossa nuvola comparve nel cielo; involontariamente prese a osservarla.
“Sembrano le pale di un mulino, come l’immagine del libro di geografia.”
Man mano che il tempo passava, la forma della nuvola cambiava. “Ora sembra una portaerei che naviga sul mare.”
E mentre faceva questi pensieri, gli tornò in mente la frase dello stregone. “Lasciati andare all’immaginazione.” Gli si bloccò il respiro: con la fantasia poteva fare tutti i viaggi che voleva, vedere tutti i posti conosciuti e anche quelli ancora da scoprire.
Alejandro sorrise felice, ripromettendosi che sarebbe tornato alla grotta per ringraziare lo stregone. Prima però aveva un paio di viaggi da compiere che non potevano aspettare.
Sdraiandosi comodamente sotto l’albero, lasciò che la fantasia lo prendesse per mano e lo accompagnasse verso luoghi fantastici.

Il Castello Incantato

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Il castello incantatoIl castello incantato è come una vecchia pantofola che si mette quando si vuole stare comodi: è qualcosa di conosciuto, di confortevole, che non dà scossoni. Nessuna sorpresa, le vicende si svolgono secondo un copione ben conosciuto. Scritto nel 1984 da David Eddings, è il quarto volume della Saga di Belgariad. Nei volumi precedenti, il giovane Belgarion, allevato dalla zia Polgara e dal nonno Belgarath, ha lasciato la vita tranquilla della fattoria per cominciare un lungo viaggio avventuroso; naturalmente questa partenza è dovuta a una profezia e Belgarion si rivelerà essere una persona non comune, dotata di poteri magici che dovranno servire per combattere contro il malvagio dio Torak. Lungo il cammino incontrerà intrepidi compagni che si uniranno alla sua causa, portandolo a recuperare l’Occhio di Aldur rubato dal pericoloso nemico.
Naturalmente la missione non finirà, come crede Belgarion, col recupero del portentoso artefatto, dato che sarà proprio lui, come dice la profezia, a divenire il Re Rivano che manca da tanto tempo e a essere protagonista dello scontro finale contro Torak.
Il castello incantato è una gradevole lettura per chi non ha grandi pretese da una storia fantasy o vuole restare in una comfort zone, un libro da leggere per chi si approccia per la prima volta al genere e non vuole essere traumatizzato da qualcosa di forte oppure vuol ritrovare un senso di familiarità con i classici del genere.
Il castello incantato, e così tutta la Saga di Belgariad, incarna la tipica storia del cammino dell’eroe che scopre se stesso intraprendendo un viaggio di crescita che lo porterà al confronto finale con il male che minaccia il mondo in cui vive. Magia e nemici da affrontare, compagni coraggiosi, spade col potere di fermare il nemico: in questo libro ci sono tutti gli elementi che contraddistinguono il fantasy. Con personaggi praticamente stereotipati e uno stile non ricercato, la serie rientra tra le tante pubblicate; qualcuno potrebbe far notare che i romanzi della serie ricalcano la produzione del periodo in cui sono usciti (gli anni 80), ma va fatto notare che in quegli stessi anni veniva prodotta la Trilogia di Fionavar di Guy Gavriel Kay, con uno stile, un intreccio e una caratterizzazione dei personaggi nettamente superiore, e quindi tale osservazione perde ogni valore.