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Alcune riflessioni sul tempo del Covid-19

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Covid-19Il virus Covid-19 sta mostrando delle debolezze che la società e il sistema attuale avevano; sta ridimensionando alcune cose. Di certo ne ha fatte fermare molte: o succedeva questo oppure era una guerra che lo avrebbe fatto, perché sinceramente c’era qualcosa che non andava. Adesso ci si sta accorgendo come il sistema sanitario, gli ospedali hanno della lacune; mancanze dovute ai tanti tagli fatti negli anni e alla mancanza d’investimenti. Se solo la metà dei soldi investiti nel mondo calcio fossero stati messi nella sanità, forse non ci sarebbe tutta questa emergenza. Si è preferito dare priorità al superfluo e non al necessario; nonostante i fatti continuino a dimostrare la gravità della situazione, c’è ancora gente che non vuole capire come stanno le cose e si continua a paralre di quando riprendere le manifestazioni sportive, il tutto perché in questi ambienti girano ingenti quantità di soldi. Il denaro è stato messo al di sopra di tutto, ma senza la vita, che valore può avere?

Tutte le volte che si afferma che le misure restrittive verranno prolungate e rese più dure per rallentare i contagi di Covid-19, i supermercati vengono presi d’assalto, andando a creare assemblamenti, proprio quello che si dovrebbe evitare. Questo a dimostrare quanto grande sia la paura e il panico prenda possesso delle persone: la situazione è grave e l’informazione non può che vertere su quello che sta accadendo, ma questo non fa che aumentare preoccupazione, ansia e stress. Tuttavia tutto ciò è necessario perché ancora molti non entrano nell’ottica d’idee che non è più tempo di fare quello che si vuole ma di seguire le regole, ma non perché lo ordina qualcuno, ma perché lo si fa per la salvaguardia personale e degli altri. Eppure, nonostante le denunce effettuate, si vede e si sente molta gente insofferente di queste restrizioni; nonostante sia chiaro del perché si fa ciò, c’è ancora chi cerca di fare il furbo e le vuole aggirare. Di certo il cambiamento per alcuni è stato drastico: dall’uscire sempre e comunque e andare ovunque a passare al dover stare sempre in casa è un adattamento duro da accettare. Ma non è il solo perdere le abitudini acquisite che pesa, c’è qualcos’altro: la gente non è più abituata a stare sola con se stessa. E questo la spaventa non poco.
Per questo si capisce che si cerca di fare stare calme le persone, ma il continuo ripetere “Andrà tutto bene” stride e non poco con la situazione in cui siamo. “I morti e i contagiati aumentano”, ma “Andrà tutto bene”. “Gli ospedali sono al collasso, non ci sono più posti dove mettere i malati” ma “Andrà tutto bene”. “Infermieri e dottori sono allo stremo, presto non potremo più curare altre persone” ma “Andrà tutto bene”. “Bisogna fare restrizioni ancora più pesanti” ma “Andrà tutto bene.”
No, non va tutto bene e non andrà tutto bene. Andare a dire una cosa del genere a tutti i parenti delle vittime del virus è privo di sensibilità. A livello comunicativo si è commesso un errore: si poteva scegliere uno slogan differente. “Stringiamo i denti, ma ce la faremo”, “Teniamo duro, ma supereremo anche questo momento”. La scelta fatta è stata sbagliata: non va bene per niente. E neanche fra un po’, quando sarà passato il contagio, le cose saranno tanto rosee.
In base a ciò, pure il mettersi a cantare da finestre e balconi risulta stridente con tutti i morti che ci sono e ci saranno: ci vuole rispetto per essi, le loro famiglie, tutti quelli che stanno male e lottano in prima linea e così facendo non lo si fa. Forse lo si fa per alleggerire la tensione, forse è solo un pensare a loro stessi, forse è un modo perché (come già detto) non si sa più satre con se stessi, ma è un comportamento inoppurtuno.

Le figure politiche da settimane stanno, giustamente, insistendo che si seguano le regole date per arginare l’avanzata del Covid-19 e lo fanno per la salvaguardia della popolazione; si meravigliano però che tutto ciò sia così difficile da recepire. E qui vengono al pettine dei nodi di lunga durata. Per decenni, la classe politica italiana (tutta quanta) non ha fatto altro che mostrare che si poteva fare tutto quello che si voleva, che ce se ne poteva infischiare delle regole, che tanto la si sarebbe passata liscia. Ora quella classe politica che tanti danni ha fatto, vuole che la gente segua le regole e non si rende conto che se questo non avviene è anche per una parte di responsabilità sua che ha dato il cattivo esempio. Morale, etica, serietà, professionalità, buon senso: per anni sono stati calpestati e ora ci si appella a essi per superare il brutto momento. Se la situazione non fosse drastica (non c’è da stare allegri con il Covid-19), ci sarebbe da sorridere su come la vita alle volte rende il conto da pagare; e invece c’è solo da prendere atto di uno dei tanti errori commessi e perpetrati così a lungo.
Certo, non si può dare tutta la responsabilità a essa: è una concomitanza di colpe. La politica è certo specchio della popolazione, ma la popolazione se uno fa cavolate può fermarsi e seguire altre strade; invece non lo si è fatto, si è continuato a ripetere sempre lo stesso errore. Si è entrati in un circolo vizioso da cui occorre uscire per osservare e comprendere cosa è successo. La popolazione ha scelto i politici a sua immagine e somiglianza oppure è la classe politica che con l’aumento dei mezzi d’informazione ha plasmato la massa come gli faceva comodo?
Trovare risposta non è facile, ma occorre capire subito che questo modo di fare è sbagliato. Si è stati costretti a fermarsi e lo è stato fatto in modo duro: che questo tempo di sofferenza e di prova causato dal Covid-19 sia anche un tempo di riflessione per comprendere che d’ora in avanti occorre prendere un’altra rotta, dando importanza a ciò che è veramente importante: la vita e tutti quei valori che sono superiori all’economia e al suo spietato mondo, a cui per troppo tempo ci si è sottomessi.

Promozione Primavera/Pasqua

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Fino al 30 aprile tutte le opere saranno in promzione a 0.99 E.

Fratello delle stelle

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Il vento soffiava con forza facendo turbinare le foglie, i rami si spezzavano sotto l’avanzare della corsa.
«Avanti, avanti» incitava Carlastian.
«Se continui con questo ritmo, scoppierai.»
«Dobbiamo andare avanti, senza fermarci, Erzinia» rispose ansando Carlastian. «Siamo vicini, non possiamo mollare proprio adesso.» Spinse con più forza nelle gambe, aumentando la falcata della sua corsa, addentrandosi sempre più nel bosco. Gli arbusti gli artigliarono la camicia e i pantaloni, strappando il tessuto, graffiando la carne. Il sangue correva copioso da diversi tagli.
«Devi prenderti cura delle tue ferite.»
«Sono dei semplici graffi, Lucylia. Non saranno sciocchezze del genere a fermarmi.»
Il piede scalzo scivolò sul sentiero fangoso, facendolo ruzzolare lungo il pendio. Il fiato uscì dai polmoni come uno sputo quando il fianco cozzò contro una roccia.
«Tutto bene?»
Carlastian si rimise in piedi sputando la terra che gli era entrata in bocca. «Naztur, dopo quello che ho passato, questo non si avvicina nemmeno al solletico.» La sua corsa riprese, anche se ora il suo ritmo era più zoppicante, la mano che teneva il fianco dolorante.
In lontananza cominciarono a sentirsi i rumori degli inseguitori.
«Sono già sulle nostre tracce.» Carlastian strinse i denti, aumentando il ritmo della corsa.
«Correre così da pazzi di notte è un suicidio.»
«Non c’è altra scelta, Gaitlin. Farsi prendere adesso vanificherebbe tutti gli sforzi fatti.»
«Non si può continuare a fuggire per sempre.»
«Non permetterò che Behemoth e i suoi seguaci abbiano la meglio, Erzinia.» Sputò sangue: probabilmente nella caduta si era rotta una costola che gli era andata a perforare un polmone. Scosse il capo, ricacciando indietro le ondate di nausea. Lanciò uno sguardo al sentiero dietro di lui: tra gli alberi si scorgevano feroci bagliori. La determinazione di Carlastian si fece più forte. «Andiamo avanti, senza remore, senza tentennamenti.»
Riprese ad avanzare, gli occhi fissi davanti a sé. Il bosco cominciò a farsi meno fitto e il sentiero prese a salire, facendosi più ripido a ogni passo, fino a quando fu costretto a usare anche le mani per potersi inerpicare.
Sanguinante e ansimante, Carlastian raggiunse la cima, scostando gli ultimi arbusti ed entrando nella radura. La vallata, fino ad allora celata dagli alberi, si aprì davanti ai suoi occhi. «Finalmente» mormorò in un soffio Carlastian, il timore di non farcela che si scioglieva come neve al sole, lasciando il posto a un senso di sollievo che pareva una brezza di primavera. «Finalmente» ripeté.
«Cos’è quel sorriso che ti si è stampato sulle labbra?»
Carlastian inspirò l’aria della notte: era così limpida e piena di profumi: l’odore della terra, dell’erba, dei fiori. L’odore della libertà. L’odore della speranza. «Lucylia, ora che sono qua, Behemoth e i suoi seguaci non possono più nulla: il loro potere è stato annientato, la loro forza spezzata.»
«Ne sei sicuro?»
«Sì, Naztur, come il respiro che pervade i miei polmoni.»
«Potrebbero ancora…»
«No» Carlastian bloccò Gaitlin, ben sapendo quello che stava per dire. «Non permetterò più che accada. Nessuno vi porterà più via. Anche se non abbiamo lo stesso sangue, voi siete la mia famiglia. Abbiamo riso e pianto insieme. Mi avete accettato quando nessun altro l’ha fatto, mi siete stati vicini. Mi avete accolto quando ero solo e abbandonato, sperduto come un passero nella tempesta. Solo perché eravate miei amici siete stati imprigionati. Senza colpa avete condiviso il mio destino. Ma ora, ora si torna a casa.»
«Non ti lasceranno tornare là: verranno di nuovo e tutto ricomincerà.»
Carlastian scosse il capo, ridendo con forza. «No, no: quella non è la mia vera casa, Gaitlin. La mia memoria è tornata, ora ricordo tutto.»
«Cosa vuoi dire?»
stelle«Ascolta, Erzinia. Ascoltate tutti.» Carlastian fece cenno di fare silenzio. «Non sentite?» Alzò lo sguardo al cielo della notte, il suo sguardo che vagava sull’infinito, rimanendo in attesa.
Le stelle cominciarono a parlare. «È come dici, fratello: la tua casa non è questa terra. Sei figlio dell’universo, il frammento di una stella che stava per nascere: il tuo sguardo un giorno si è posato su questo pianeta e ti sei innamorato dei suoi abitanti. In te è sorto il desiderio di vivere con loro e condividere le loro esperienze ed emozioni. Hai scelto di essere uno di loro, ma ora è giunto il tempo di tornare a casa e prendere posto nella tua vera famiglia.»
Carlastian avvertì un gran calore nel petto che non poteva essere contenuto ancora per molto. Si sentì espandere, divenendo sempre più grande, qualcosa che nemmeno i confini del cielo potevano contenere.
Sorrise, provando una libertà che mai aveva conosciuto. «Sì, è tempo di tornare a casa. E voi, amici miei, verrete con me e saremo per sempre insieme.»
Finalmente felice, sotto lo sguardo amorevole delle stelle, Carlastian quella notte ascese al cielo, librandosi sulla terra.

Il Maresciallo Gualtieri salutò con un cenno del capo il medico legale che gli passava accanto, rivolgendo poi l’attenzione al corpo che veniva messo dentro il sacco e portato via. Con passo lento si avvicinò ai sottoposti.
«L’identità della vittima è confermata?»
L’appuntato Moschino fece un cenno affermativo. «Carlo Vanzini, fuggito dal reparto psichiatrico due notti fa. Lo stavano per riprendere, ma hanno perso le sue tracce quando è entrato nel bosco. Senza cani, di notte, è stato impossibile rintracciarlo. Solo con le prime luci del giorno hanno trovato la pista che aveva lasciato, ma ormai era tardi.»
«Deve essersi fatto prendere dal panico e non si è accorto del precipizio cui andava incontro.» Sul volto dell’Appuntato Pascuti era calato un velo di tristezza. «I suoi ultimi momenti prima di schiantarsi tra le rocce devono essere stati di paura. Che brutta morte.»
«Perché provi compassione per questo sfigato?» lo irrise l’Appuntato Bertelli.
«Sfigato?» domandò il Maresciallo voltandosi a fissarlo.
«Praticamente è quello che sta scritto sul suo fascicolo medico. E che altro potrebbe essere uno che per anni si è chiuso in casa, guardando cartoni e fumetti per cinni scemi? E’ normale che gli sia andato in pappa il cervello e abbia iniziato ad avere allucinazioni» sghignazzò l’Appuntato Bertelli.
Il Maresciallo aspettò che finisse di ridere. «Sei uno psicologo?»
«No» rispose confuso l’Appuntato.
«Hai fatto studi di psicologia?»
«No…»
«Allora non dare giudizi su cose che non ti competono, se non vuoi che ti chiami a rapporto. Ora vai a vedere se hanno bisogno di una mano per portare via il corpo.» Il Maresciallo lo osservò allontanarsi stizzito.
Dopo qualche momento, Pascuti prese parola. «C’è la possibilità che non sia stato un incidente, ma si tratti di suicidio.»
«Cosa te lo fa pensare?» indagò il Maresciallo.
«In passato c’è stata un’inchiesta sul reparto su come venivano trattati i pazienti. Tutti finì in un nulla di fatto per mancanza di prove. Però…»
«Però?»
«Non sarebbe il loro primo suicidio.»
«Se voleva suicidarsi, perché venire qui?» domandò l’Appuntato Moschino.
Pascuti levò lo sguardo sulla parete rocciosa, raggiungendo la cima. «Forse aveva dei ricordi legati a questo posto. Forse ha voluto morire in un luogo che significava qualcosa per lui e non andarsene tra quattro mura che sentiva nemiche.»
Moschino scrollò le spalle. «Per me è stato solo un incidente.»
Il Maresciallo sospirò. «La verità se n’è andata con lui. Torniamo in centrale.» Prima d’incamminarsi lanciò un ultimo sguardo alla zona; il caso sarebbe stato archiviato in fretta, come tanti altri. E come tanti altri, avrebbe lasciato domande che non avrebbero trovato risposta. Ma su una cosa era sicuro: Pascuti si sbagliava sul fatto che Vanzini fosse morto nella paura. Non poteva essere altrimenti, dato che non aveva visto il volto del morto: sul suo viso c’era un sorriso che la caduta aveva risparmiato.
“Comunque siano andate le cose, penso sia riuscito a trovare quella pace che in vita non ha avuto.”

Il Dio del Limite

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La situazione è diversa, però quello che si sta vivendo adesso, con tutte le limitazioni poste per cercare di contenere la diffusione del virus che ha colpito praticamente tutto il mondo, ricorda un po’ una storia che fa parte di L’Ultimo Demone e che avevo già pubblicato sul sito; visto quanto sta succedendo, ripropongo la lettura di Il Dio del Limite. Con la speranza che le cose, dopo tanti limiti sorti, possano migliorare.

Il falco - Una storia per genitori

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Il falcoIl falco è una storia per bambini e ragazzi, ma è anche una storia per genitori, dato che racconta le vicende di un falco adulto che si occupa di sette piccoli. Certo, si tratta di un genitore adottivo, ma si è genitori anche se non si hanno legami di sangue, anzi, alle volte lo si è di più di coloro che hanno messo al mondo una vita, anche se molti ritengono che l’essere tali dipenda solo dal legame biologico. I fatti tuttavia dimostrano che tale convinzione non sia propriamente corretta; certo, si trasmette parte del proprio materiale genetico, si hanno degli elementi fisici e caratteriali simili, ma ciò non basta a definire tale una persona, viste le continue notizie di cosiddetti genitori che maltrattano i propri figli, li fanno prostituire oppure li uccidono. Simili individui non possono essere considerati tali, anche se sono stati coloro che hanno messo al mondo un’altra vita.
E allora cosa vuol dire essere genitore?
Vuol dire prendersi a cuore qualcuno, occuparsi di lui, insegnargli, aiutarlo a crescere, stargli vicino nei momenti di difficoltà, incoraggiarlo a trovare la propria strada, a seguire le proprie aspirazioni. Messa così sembra una cosa pesante, che ricorda tanto un insegnamento scolastico, ma ci sono tanti modi per insegnare, anche in maniera divertente. Quello che occorre ricordare è che non esiste un modo d’insegnare valido per tutti, ma che c’è un modo unico per ciascun piccolo, e con unico in questo caso non s’intende “il solo” ma vuol dire “personale”. Chi è genitore deve per prima cosa conoscere il piccolo, sapere quali sono le sue caratteristiche, il suo approccio alle cose, la sua sensibilità, i suoi interessi; per questo essere genitore è un continuo divenire, perché il piccolo crescendo non fa che cambiare e un genitore per potergli stare dietro deve continuamente adattarsi momento per momento (in poche parole, crescere assieme a lui). Naturalmente ci sono sempre dei punti fermi, ma chi è genitore per poterli trasmettere deve adattarli al momento, alla situazione, a chi ha davanti: questa è la difficoltà di tale ruolo.
E’ in questo che chi è adulto può riconoscersi nel falco, ma non solo: la paura di come comportarsi, il domandarsi se si sarà all’altezza, il porgersi fisicamente in modo delicato verso i piccoli per paura di fargli male. E poi: il doverli sfamare diverse volte al giorno, il restare svegli la notte perché i piccoli non fanno dormire, le domande più strane.
Tutto ciò è la piccola grande avventura che è il crescere. Ad alcuni potrà sembrare banale, noiosa, insignificante, ma se ci si pensa bene ha tanto da dare, più di molti viaggi e vicende da romanzo.

Invogliare alla lettura

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La legge sulla lettura dichiara di avere come obiettivi:

-Il diffondere l’abitudine alla lettura, come strumento per la crescita individuale e per lo sviluppo civile, sociale ed economico della Nazione, e favorire l’aumento del numero dei lettori, valorizzando l’immagine sociale del libro e della lettura nel quadro delle pratiche di consumo culturale, anche attraverso attività programmate di lettura comune.
-Promuovere la frequentazione delle biblioteche e delle librerie e la conoscenza della produzione libraria italiana, incentivandone la diffusione e la fruizione.
-Prevedere interventi mirati per specifiche fasce di lettori e per i territori con più alto tasso di povertà educativa e culturale, anche al fine di prevenire o di contrastare fenomeni di esclusione sociale.

Intenti ammirevoli e condivisibili. Tuttavia, occorre soffermarsi su un quesito importante: si può invogliare alla lettura?
Possibile, ma si tratta di una cosa molto difficile e dal risultato per niente scontato.
Motivo?
E’ qualcosa che nasce da dentro, è lo scoccare di qualcosa che fa sorgere una passione per la lettura; questa scintilla dipende sempre dalla persona, è qualcosa di unico, che difficilmente può essere replicato perché quello che vale per un individuo può non valere per un altro.
Un bambino, un ragazzo, che cresce in una famiglia dove tutti leggono avrà più possibilità di appassionarsi a leggere; tuttavia, non è una cosa scontata, può anzi succedere che abbia una reazione opposta. Come non è scontato che chi vive in un ambiente povero di lettori debba seguire l’esempio dei modelli che ha davanti. Logicamente l’ambiente in cui si cresce ha la sua fetta d’importanza, come lo ha la scuola con le sue iniziative: più sono meglio è, perché più opportunità danno maggiori possibilità di far piacere la lettura.
Questo può però non bastare, perché deve esserci quella cosa che fa colpo, che non solo attira l’attenzione, ma fa centro, va nel profondo. Non è facile trovare quel particolare elemento che varia da individuo a individuo. Specie per bambini e ragazzi, l’interesse, il coinvolgimento, è un elemento davvero importante: deve esserci qualcosa che loro sentono personale e pertanto vicino.
Su questo aspetto la scuola ha spesso presentato dei limiti. Vuoi perché non tutte le scuole hanno una biblioteca interna fornita (alle volte neppure quelle comunali, specie nei paesi più piccoli: è sempre una questione di fondi), vuoi perché i testi da leggere dei programmi scolastici non sono il massimo dell’attrattiva; per quanto importante possa essere stato il verismo, le opere di Verga e Zola non sono certo quelle con la maggior attrattiva possibile (e non si sta parlando di ragazzi delle medie ma delle superiori), proprio per niente.
In questo, il modo di fare di un professore e i testi che propone, possono fare la differenza: possono avvicinare o allontanare un ragazzo alla lettura (questo vale per tutte le materie, piccola aggiunta). E per avvicinare occorre, si scusi il termine, rendere il prodotto attraente, far vedere che ha un suo fascino. Ho avuto la fortuna nella mia carriera scolastica d’incontrare in alcuni casi professori che mi hanno fatto apprezzare il leggere, anche se ero diventato lettore senza la loro influenza. Ricordo con piacere i libri scelti alle medie che tutta la classe doveva leggere, Il romanzo degli dei e degli eroi di Cesare Peri (questo potrebbe non fare testo nel mio caso, dato che dalle elementari ero appassionato di ciò che riguardava la Grecia Antica) e Là dove soffia il mistral di Giovanna Righini Ricci; così come ricordo con piacere la piccola biblioteca scolastica che mi ha permesso di leggere tutti i libri su Sandokan di Emilio Salgari.
Tuttavia, è stato alle superiori, grazie a un professore avuto al biennio, che ho cominciato a vedere l’italiano in maniera differente dalla materia che dava da fare compiti non proprio ben visti come temi, riassunti e cose simili. Questo professore, con il suo modo di fare, i testi che sceglieva e i film che ci faceva vedere, cominciò a farmi cambiare prospettiva e a farmi provare piacere nello scrivere (anche se la spinta per cominciare a scrivere fu un’altra e iniziai a farlo al di fuori della scuola solo qualche anno più tardi). I film Un lupo mannaro americano a Londra, Dracula di Bram Stoker, così come il testo che ci aveva proposto (e che lui stesso aveva curato), Il piacere di aver paura (una raccolta di racconti cui facevano parte autori come Kafka, Bradbury, Buzzati, Poe, Matheson), sono alcuni degli elementi che hanno reso interessante una materia che difficilmente lo sarebbe stata (almeno per un adolescente e per come altri professori la proponevano). Qui ci sono dei link che potrebbero far capire l’approccio che il professore, Guido Armellini, ha avuto e che tipo di persona è: Imparare dai classici, le cinque parole di Guido Armellini, sQuola Cafè p02 (molto interessante quest’ultimo per capire cosa pensa del rapporto professore/studente).
il libro che mi ha invogliato alla lettura del fantasy, I draghi del crepuscolo d'autunnoCome si è visto, l’interesse per qualcosa può essere dovuto a un incontro con una persona (in questo caso un professore, ma può anche essere un amico, un’amica, la persona con cui si sta insieme, o una persona più grande, che ha incuriosito a leggere libri di psicologia e saggistica). Ma può anche essere qualcosa che non dipende da un contatto umano, come è successo a me per quanto riguarda il fantasy. Benché conoscessi fin da piccolo, perché mi veniva letta La Storia Infinita di Michael Ende, il genere fantasy non lo seguivo, dedicando le mie letture ad autori come Verne, Stevenson, Kipling, London, Dumas. Cominciai ad appassionarmi a esso facendo visita una volta alla biblioteca comunale e trovandomi davanti la copertina di I draghi del crepuscolo d’autunno di Margaret Weis e Tracy Hickman: l’immagine su sfondo marrone di un arciere, un drago, una donna e un cavaliere attirarono la mia attenzione. Fu soprattutto il cavaliere, Sturm, che mi colpì: la sua armatura, lo scudo, la spada, il suo sguardo serio e fiero a incarnare perfettamente la figura del cavaliere, furono gli elementi per cui decisi di leggere quel libro e scoprire di più su quella storia e su quei personaggi. Potrà sembrare una banalità, ma la copertina ha una certa importanza nella scelta di un libro dato che è il primo elemento che si vede di un libro; certo, il contenuto è la cosa più importante, ma questo è un ragionamento che si fa da adulti, mentre per un bambino (come lo ero io allora) le cose che per prime colpiscono sono le immagini, e un’immagine ben fatta e pertinente ricopre un ruolo fondamentale (soprattutto in un tempo in cui non c’era la rete e non si avevano le stesse possibilità di adesso). Da quel libro è nata la passione per il fantasy.
Per me le cose sono andate così; un’altra persona ha un’altra storia e un’altra ragione per essersi appassionata alla lettura. Quello che si ha in comune è che in un determinato momento è scoccata una scintilla ed è qualcosa di personale che non può essere ripetuto. Ben vengano le iniziative che incentivano la lettura, ma non bisogna mai dimenticare che senza quella scintilla che nasce dell’individuo non si può fare nulla per spingere a leggere, per quanti sforzi si possono fare. Si possono dare possibilità, ma il resto dipende tutto dalla persona.

L'Ultimo Demone - Nave, virus, follia.

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Seduto all’imboccatura dello stretto passaggio, Naufrago osservava la calura che faceva ondeggiare l’aria sulla piana rocciosa. Pareva avere una consistenza quasi liquida, come l’increspare del mare mosso da una lieve brezza; quella distesa d’acqua che ora pareva così lontana e non a poche miglia di distanza.
“Quanto tempo è passato dalla vita che ho trascorso sul mare, lontano dalle ansie e dalle tribolazioni.”
Quel periodo sembrava appartenere a un altro tempo, troppo diverso dalle preoccupazioni del loro continuo spostarsi e arrabattarsi per avere da mangiare, del trovare un posto per dormire.
Sospirò. “Tutto allora era davvero più semplice.”
Nave, virus, folliaAllargò le narici, cogliendo una nota salmastra nella breve brezza giunta dalla piana. Si adagiò contro la roccia, chiudendo gli occhi. “Sì, quando vivevo sul mare la vita era diversa: più regolare, metodica, scandita dai compiti che ognuno aveva.” Non che ci fosse molto da fare: a parte la pesca e il cucinare, i lavori erano più che altro un modo per impedire alla noia e all’ozio che li incattivissero. Certo, alle volte sorgevano discussioni, contrasti (nella convivenza forzata era inevitabile), ma erano subito sedati e si risolvevano sempre in un nulla di fatto: le prospettive d’essere gettati in mare o fatti ritornare sulla terraferma erano un ottimo deterrente per raffreddare gli animi. Per quanto la vita a bordo alle volte potesse andare stretta, nessuno avrebbe rinunciato al senso di sicurezza e protezione che essa dava: erano lontani i ricordi delle barbarie, delle violenze di cui le città e le campagne erano ricche, delle razzie che gruppi di uomini impazziti e creature mutate effettuavano senza posa. Le urla strazianti, gli scricchiolii di ossa spezzate, il rumore della carne e dei muscoli che venivano stracciati: nessuno voleva più avere a che fare con simili orrori, nessuno voleva più provare la paura della preda sempre braccata, che da un momento all’altro poteva essere catturata e fatta a pezzi.
Non bastasse questo, nessuno sentiva la mancanza della terraferma, divenuta un luogo inospitale, senza più un equilibrio: terre aride fatte di sole rocce, deserti, lande spazzate da venti che sradicavano ogni forma di vegetazione. Trovare di che sfamarsi in esse era un’impresa al limite della sopravvivenza, costringendo inevitabilmente a cercare cibo, o almeno quel che restava dopo anni di razzie, all’interno delle città che ancora esistevano, divenute sacche dell’inferno. Rischi troppo grossi per ottenere gli scarti lasciati da chi era più forte e feroce. Niente in confronto alla ricchezza del mare e che con un minimo sforzo si poteva ottenere.
Del mare però ricordava soprattutto la calma delle ore che precedevano l’alba, quando piazzavano le reti, o i caldi pomeriggi sonnolenti, dove restavano in attesa che i pesci abboccassero per puro passatempo. “Già, i lunghi pomeriggi seduto sul ponte della nave con la canna da pesca in mano, osservando la grande distesa piatta del mare.” A quella vista il suo animo si placava, i cupi pensieri si dissipavano, come se un forte vento avesse spinto lontano i nuvoloni temporaleschi della sua esistenza, lasciandolo solamente con la pace dello sciacquio delle onde. Certo, non era una pace che durava a lungo, visto che spesso il ponte risuonava delle grida dei bambini.
Naufrago voltò lo sguardo all’interno del budello dove erano sistemati gli altri. I piccoli erano accucciati tra le rocce, mogi e silenziosi, lo sguardo perso nell’ombra che attenuava il calore cocente. Nella loro vita, a parte le storie di Bardo, non c’era nessun divertimento, nessuno svago; non avevano niente con cui giocare e anche se l’avessero avuto, non ne avrebbero avuto il tempo, dato che dovevano crescere alla svelta, perché non c’era spazio per chi era piccolo e debole: occorreva essere forti il più in fretta possibile per sopravvivere.
Lo sguardo non poté che cadere su Lettore: per quanto fosse il più grande tra i bambini, era quello che non sembrava maturare, chiuso in un mondo tutto suo. Per quanto non gli piacesse quel genere di pensieri, doveva accettare che Lettore non sarebbe durato ancora a lungo in quel mondo. Forse, se fosse stato con lui quando viveva sul mare, avrebbe potuto assaporare qualcosa di diverso dalla vita, ed era pronto a scommettere che gli sarebbe piaciuto. “Certo che gli sarebbe piaciuto: a tutti i bambini piace giocare.” Ricordava ancora lo stupore dei piccoli quando erano saliti a bordo della nave, trovandosi davanti dei ponti completamente adibiti al divertimento. Il gruppo di cui faceva parte era stato fortunato, dopo il lungo esodo, ad arrivare in quel porto e trovare ormeggiata una nave da crociera e non una petroliera o un grosso mercantile: con tutti quegli intrattenimenti, i bambini non avrebbero avuto tempo d’annoiarsi e questo avrebbe reso la situazione più facile da sostenere.
Un’improvvisa folata di vento sollevò un vortice di polvere a pochi metri di distanza.
Era difficile concepire che un tempo la gente avesse spazio per divertirsi; ancora più difficile scoprire che viaggiasse per divertirsi. Evidentemente non c’erano i pericoli con cui loro avevano a che fare ogni giorno; la loro quotidianità doveva essere diversa. Ben diversa, se avevano la possibilità di spendere così tante energie e risorse in qualcosa di mastodontico come una nave da crociera; senza contare il personale per la manutenzione dei macchinari e l’organizzazione di tutti i servizi dedicati ai viaggiatori. E da quel che aveva potuto capire dal computer centrale di bordo, quella non era l’unica nave dedicata al divertimento e al relax, ma faceva parte di una vera e propria flotta.
Com’era stata la vita delle persone di un tempo, se potevano concentrare molte delle loro energie in simili cose? Oppure era qualcosa di limitato solo a qualcuno, mentre la maggior parte degli individui era nelle loro stesse condizioni, senza cibo, senza un tetto? Di certo, chiunque fosse salito su quella nave non doveva essersi preoccupato su come sopravvivere. Per tanti o per pochi, l’esistenza passata là sopra doveva essere stata fatta di agi e lussi: tutto era confort, tutto era piacevolezza. Nulla a che vedere con la vita di strada, dormire sull’asfalto o in buchi umidi e puzzolenti per non farsi trovare dai predatori, il sonno sempre leggero per essere pronto a scappare al minimo cenno di pericolo.
Già, era stato un bel periodo quello sulla nave, almeno fino a quando era durato. E che sarebbe terminato l’avevano capito quando l’energia che alimentava la propulsione dell’imbarcazione era venuta meno. Nessuno conosceva la sua tecnologia, i suoi meccanismi, era già stato tanto se erano riusciti a capire come farla partire e manovrarla: ripararla era qualcosa che andava oltre le loro capacità. Tutti avevano capito che le cose non si sarebbero messe per il verso giusto; l’atmosfera sulla nave era cambiata, infettata da una strisciante sensazione d’ineluttabilità. Eppure, rispetto a prima, l’unica cosa che era cambiata era stata la velocità di navigazione: la vita a bordo era sempre la stessa e non avevano mai penuria di cibo, la pesca sempre sufficiente per sfamare tutti quanti.
Ma quella sorta di stagnazione aveva cominciato ad avere effetto anche sui pensieri delle persone, che avevano cominciato a ripetersi in maniera ossessiva; una stagnazione che aveva portato un altro tipo di stagnazione. Le persone erano diventate tante piccole paludi che avevano cominciato a puzzare ogni giorno di più; cosa ancora peggiore, si erano rammollite, atrofizzate, perché divenute dipendenti dalla tecnologia della nave. Perdita d’iniziativa, disattenzione, apatia: quasi tutti a bordo si erano lasciati andare, abbassando il livello di guardia, come se tutto il mondo esistente fosse solo quello della nave, dimentichi di quello più grande che li circondava. Non erano altro che tante, piccole isole alla deriva, chiuse in se stesse e nella loro incapacità di comunicare: l’irritabilità si era fatta maggiore, la fatica a sopportarsi a vicenda era aumentata. Il fatto di restare limitati sempre nei soliti luoghi non faceva che accumulare tensioni. Essere impotenti, impossibilitati a fare qualsiasi cosa a causa della loro ignoranza quando, avendo tutto a portata di mano, sarebbe bastato un semplice gesto per rimettere le cose a posto, li rendeva delle tigri in gabbia: avevano a disposizione tutta l’energia che volevano e non potevano utilizzarla. Se ne stavano delle ore a fissare le gigantesche batterie solari, come se questo potesse far venire un’idea, un’illuminazione, che li tirasse fuori da quel guaio; ore in cui non accadeva nulla, dove restavano sempre in balia delle correnti, andando alla deriva in mezzo allo sconfinato blu. Ormai tutti pensavano che la fortuna li avesse abbandonati. E i cattivi pensieri spesso si materializzavano per davvero.
Alzò lo sguardo verso la direzione dalla quale erano venuti, le nubi nere ormai ridotte a una striscia sottile sopra l’orizzonte. “Anche quando ero sulla nave siamo stati colti da una tempesta.” Era giunta all’improvviso, sviluppando tutta la sua potenza in poche ore. Fulmini che cadevano in acqua a pochi metri da loro, ondate che non facevano che ingrossarsi si erano abbattute sulle fiancate della nave come se volessero sfondarle; per un giorno e una notte erano stati in balia delle forze della natura. Quando il sole era tornato a far capolino, avevano perso l’uso del timone, bloccato nell’ultima rotta impostata: erano in balia di quanto il destino aveva in serbo per loro.
Nel giro di un mese la terraferma era tornata a far capolino nel loro campo visivo. Con apprensione l’avevano vista ingrandirsi, divenendo più di una semplice linea. I timori un tempo dimenticati, e poi a lungo ignorati, erano tornati a galla come corpi di annegati; l’ansia e la paura si erano gonfiate a dismisura, impregnando le menti degli uomini, mutandone il carattere, il comportamento. Se prima i loro pensieri arrivavano appena a farsi sentire portando a galla un poco della loro puzza, ora spandevano tutta la loro putrefazione ed era divenuto impossibile stare vicino l’uno all’altro per più di qualche istante: gli adulti scattavano per un nonnulla, sempre tesi e nervosi, i bambini si erano fatti più mogi e fastidiosi, le loro risate e urla trasformate in snervanti piagnucolii.
L’impietoso scenario di coste rocciose piene di relitti di navi, baracche fatiscenti e auto arrugginite, era tornato ad aprirsi davanti ai loro occhi con la sua fauna ributtante: creature pelose e squamate, umani sporchi vestiti di stracci, strisciavano alla ricerca di cibo, arrancando senza una meta verso una precaria sopravvivenza, mescolandosi fino a che diveniva difficile distinguere gli uni dagli altri. Il fetore dei loro corpi e dei rifiuti dei quali si cibavano e nei quali vivevano arrivava fino a loro, facendoli ritrarre disgustati dalle paratie. Fortunatamente la nave era passata a una certa distanza dalle coste, tenendoli al sicuro. Solo il ricordo degli sguardi visti attraverso i binocoli li aveva perseguitati facendoli restare svegli la notte, sconvolti da quello che sarebbe potuto accadere se la nave si fosse avvicinata di più o se si fosse incagliata su un fondale basso: la fame che avevano visto in quelle creature prometteva solamente sangue e dolore.
Ma in uno dei passaggi vicino alla costa, le cose non andarono altrettanto bene. Da miglia di distanza avevano scorto il riflesso del sole che si abbatteva sulla cupola di vetro di un edificio slanciato che si elevava su un promontorio. Al loro avvicinarsi, come le altre volte, un folto gruppo si era radunato a osservarli. E come le altre volte erano donne e uomini scalcinati, sporchi, stracciati; in quest’occasione però non c’erano creature di nessun genere assieme a loro, ma bambini. Al vederli, quell’accozzaglia umana male in arnese aveva preso a saltare, urlare, sbracciarsi, cercando d’attirare l’attenzione. Sfilandogli davanti avevano scorto la frenesia, l’ansia che s’impossessava di loro mentre non ricevevano nessun cenno di risposta alle loro grida: anche se fossero stati in grado di fermare la nave, non lo avrebbero fatto. Quando i profughi se ne erano resi conto, erano corsi ai barconi ammarati sulla spiaggia e li avevano spinti in mare, saltandovi a bordo e cominciando a remare con foga per mettersi nella loro scia.
L’inseguimento era durato un paio d’ore, con grida che ogni tanto si levavano per invitarli ad aspettare, prima che li raggiungessero. Venivano dall’entroterra, avevano spiegato gli improvvisati marinai: erano fuggiti dalle regioni più interne perché era scoppiata una violenta epidemia che aveva fatto strage di uomini e bestie. Era successo tutto all’improvviso, la malattia si era sparsa sulla terra nel giro di poche ore: non si sapeva se era dovuto a un virus sconosciuto o a un veleno allo stato gassoso; qualcuno era convinto che tutto fosse cominciato con il passaggio di un uomo avvolto da una nebbia verde. Quello che contava, era che ben pochi erano riusciti a scampare al pericolo; loro erano stati tra i fortunati, ma non si sentivano al sicuro, anche se si erano allontanati dalle aree contaminate: temevano che l’epidemia potesse spostarsi e raggiungerli. Per quel motivo si erano spinti fino alla costa, decisi ad attraversare il mare nella convinzione che fosse una barriera sufficiente a fermare il pericolo lasciato alle spalle: giunti sulla spiaggia avevano trovato dei barconi in disuso e li avevano sistemati perché potessero prendere il largo, ma quando li avevano visti arrivare avevano cambiato idea, decidendo di unirsi a loro.
Il tono deciso che avevano usato non era piaciuto per niente, come se fosse una cosa scontata che sarebbero stati presi a bordo, soprattutto dopo aver sentito la storia dell’epidemia: potevano essere infetti e averli con loro poteva essere una fonte di contagio, anzi, forse si erano già esposti al pericolo avendo permesso che si avvicinassero. Sulla nave era sceso il silenzio, ma non c’era bisogno di parole per capire quale sarebbe stata la decisione: negli sguardi tesi e impauriti c’era lo stesso pensiero. Prendere a bordo quei profughi sarebbe stato troppo pericoloso, mettendo a repentaglio la loro vita: dovevano essere allontanati dalla nave e il più in fretta possibile.
Ma i profughi non avevano accettato la scelta. Avevano continuato imperterriti a seguirli, implorando, insultando, minacciando; rampini erano stati lanciati sui parapetti. Le espressioni degli uomini erano divenute ancora più torve: a quel punto non era rimasta che una cosa da fare.
I bambini erano stati mandati sottocoperta, mentre sul ponte gli altoparlanti venivano messi al massimo: la musica aveva cominciato a riecheggiare come un tuono, facendo vibrare le paratie e i tavoli di metallo. Dalle stive erano stati portati dei fusti.
Naufrago raccolse un sasso e lo lanciò lungo la china sotto il loro riparo, osservandolo saltellare finché non si posò sulla sabbia. A distanza di anni la scena non aveva perso i suoi dettagli.
Il fumo nero che si levava oltre le paratie. La melodia degli altoparlanti che copriva le urla. Potevano volgere lo sguardo lontano dalle fiamme umane, chiudere gli occhi di fronte ai corpi anneriti di adulti e bambini che galleggiavano nella scia della nave, ma non potevano nulla contro la puzza di carne che bruciava. Ancora adesso, in un deserto dove c’erano solo sabbia e rocce, gli sembrava di poterla sentire. Ancora adesso le vecchie bugie continuavano a vivere, non avendo intenzione di farsi seppellire.
Tutti a bordo si erano detti che l’avevano fatto per il bene collettivo, che era un’azione necessaria per sopravvivere. In verità, non era stato altro che un modo per sfogarsi: tutta l’aggressività accumulata da quando erano sulla nave era stata scaricata su degli estranei che avevano avuto la sfortuna d’incontrarli. Una catarsi che li aveva ammansiti, perché si erano resi conto con orrore di ciò che erano diventati.
“E io sono restato fermo a guardarli mentre si accanivano su quegli estranei, incapace d’agire, immobilizzato da quella follia.” Si era sentito smarrito in mezzo a quel un branco di bestie impazzite. Da allora non aveva visto i compagni di viaggio come prima: sarebbe scappato lontano da loro, se solo avesse potuto.
In un qualche modo la muta preghiera era stata ascoltata. O forse, più semplicemente, era stato il castigo per quello che avevano commesso. Pochi giorni dopo il fatto, si era scatenata un’altra tempesta, più violenta di quella che aveva messo fuori uso il timone: erano stati scagliati contro gli scogli, dove la nave era affondata. Metà di loro erano affogati, ma forse erano stati i più fortunati: chi era sopravvissuto, aveva raggiunto la riva. Lì era ricominciato l’inferno.

Il falco - Una storia di crescita

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Il falcoIl falco, come scritto nella quarta di copertina, narra la piccola grande avventura che è il crescere e vede come protagonista un falco adulto che si prende cura di sette piccoli non suoi e neppure appartenenti alla sua specie. Se si vuole, può essere interpretata anche come una storia d’integrazione, dove essere diversi non è qualcosa da vedere con pregiudizi e diffidenza, ma qualcosa che serve per arricchirsi, da cui c’è da imparare.
Il falco non è nato per fare una critica a una società che diventa sempre più chiusa e aggressiva verso chi non è di una stessa etnia, eppure, se ci si pensa, fa anche questo. In altri lavori ero partito da un messaggio da dare (penso a Jonathan Livingston e il Vangelo e alla serie di I Tempi della Caduta), Il falco invece è stato qualcosa di spontaneo, che si è sviluppato da solo; pensandoci in seguito mi sono accorto che aveva qualcosa da dire su certi temi, anche se non sono partito con tale intenzione. Qualcuno potrebbe dire che, in un modo o nell’altro, si vuole fare la morale.
Ma che cos’è la morale?
Per rispondere a questo, riporto un brano tratto da Agenda degli Angeli di Igor Sibaldi.

«Morale» viene dal latino mores, «abitudini», e indica i comportamenti che non contrastano con ciò che una grande maggioranza è abituata a ritenere giusto. Un’abitudine poggia soprattutto sulla memoria (parola strettamente apparentata a mores): morale è innanzitutto ciò che ci si ricorda dei giudizi di persone nate prima di noi. E dunque una persona molto morale è chi, dovendo scegliere tra diverse possibilità di azione, invece di guardare verso il futuro preferisce voltarsi indietro, e basarsi sulle certezze della generazione precedente.
Se vi va stretta questa ipoteca del passato sulle vostre decisioni, potete rientrare in due categorie che godono entrambe di brutta fama: gli immorali, cioè coloro che tengono conte delle certezze passate, ma solo per prendersi la soddisfazione di disprezzarle; e gli amorali, a cui quel modo di ricordare non importa affatto.
LeLeHe’eL è l’Angelo di questi ultimi…
Alla maggioranza, ovviamente, i leleliani appaiono un po’ allarmanti, anche quando non fanno nulla di dannoso. Eppure sono più etici dei moralisti, dato che etica significa «essere veramente se stessi». Come può essere se stesso uno che si sforzi di comportarsi non solo come la maggioranza, ma addirittura come la maggioranza che vi era trenta o quarant’anni prima? E d’altra parte, come essere se stessi senza commettere ciò che la maggioranza chiama «peccato»? «Peccato» infatti significa, nelle nostre lingue, infrazione delle regole, dei mores stabiliti da una civiltà, da una società, da una cultura.
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Sembra che questo pezzo descriva perfettamente il protagonista della storia che ho scritto; non per niente il falco sarebbe un simbolo perfetto per questa figura descritta da Igor Sibaldi, data la sua natura rapace, il voler volare e superare confini, perché in esso c’è un desiderio di crescita. Sibaldi aveva già ben scritto tale figura in un altro suo libro, Il libro degli angeli.

I LeLeHe’eL crescono e sicuramente fanno crescere: è questo il loro compito. (2)

Ed è quello che il protagonista fa: aiuta a crescere i piccoli che ha trovato, fregandosene delle convenzioni, delle tradizioni, seguendo solo quello in cui crede, solo quello che è giusto. Non gl’importa se viene deriso, se gli altri uccelli pensano che sia strano perché i falchi sono dei predatori che danno la caccia ai loro simili. Al protagonista del lavoro che ho realizzato questo non importa, perché ritiene tale fatto una cosa ingiusta, dato che tutti gli uccelli sono fratelli perché vivono e volano sotto lo stesso cielo. E non gli importa nemmeno se i piccoli sono di altre specie: hanno bisogno di aiuto per crescere ed è l’impegno che si prende.
Ma non è solo lui che fa crescere: anche i piccoli, con le loro domande, le loro esigenze, lo aiutano a crescere. In fondo è questo che succede tra genitori e figli: si cresce insieme, in uno scambio reciproco. E allargando la cosa al di là del cerchio della famiglia, è quello che succede quando s’interagisce con gli altri, grandi e piccoli, maschi e femmine, giovani e anziani, appartenenti di etnie e credi differenti.

1. Agenda degli Angeli. Igor Sibaldi. Frassinelli 2012.
2. Il libro degli angeli. Igor Sibaldi. Frassinelli 2007, pag.28