Il vento soffiava con forza facendo turbinare le foglie, i rami si spezzavano sotto l’avanzare della corsa.
«Avanti, avanti» incitava Carlastian.
«Se continui con questo ritmo, scoppierai.»
«Dobbiamo andare avanti, senza fermarci, Erzinia» rispose ansando Carlastian. «Siamo vicini, non possiamo mollare proprio adesso.» Spinse con più forza nelle gambe, aumentando la falcata della sua corsa, addentrandosi sempre più nel bosco. Gli arbusti gli artigliarono la camicia e i pantaloni, strappando il tessuto, graffiando la carne. Il sangue correva copioso da diversi tagli.
«Devi prenderti cura delle tue ferite.»
«Sono dei semplici graffi, Lucylia. Non saranno sciocchezze del genere a fermarmi.»
Il piede scalzo scivolò sul sentiero fangoso, facendolo ruzzolare lungo il pendio. Il fiato uscì dai polmoni come uno sputo quando il fianco cozzò contro una roccia.
«Tutto bene?»
Carlastian si rimise in piedi sputando la terra che gli era entrata in bocca. «Naztur, dopo quello che ho passato, questo non si avvicina nemmeno al solletico.» La sua corsa riprese, anche se ora il suo ritmo era più zoppicante, la mano che teneva il fianco dolorante.
In lontananza cominciarono a sentirsi i rumori degli inseguitori.
«Sono già sulle nostre tracce.» Carlastian strinse i denti, aumentando il ritmo della corsa.
«Correre così da pazzi di notte è un suicidio.»
«Non c’è altra scelta, Gaitlin. Farsi prendere adesso vanificherebbe tutti gli sforzi fatti.»
«Non si può continuare a fuggire per sempre.»
«Non permetterò che Behemoth e i suoi seguaci abbiano la meglio, Erzinia.» Sputò sangue: probabilmente nella caduta si era rotta una costola che gli era andata a perforare un polmone. Scosse il capo, ricacciando indietro le ondate di nausea. Lanciò uno sguardo al sentiero dietro di lui: tra gli alberi si scorgevano feroci bagliori. La determinazione di Carlastian si fece più forte. «Andiamo avanti, senza remore, senza tentennamenti.»
Riprese ad avanzare, gli occhi fissi davanti a sé. Il bosco cominciò a farsi meno fitto e il sentiero prese a salire, facendosi più ripido a ogni passo, fino a quando fu costretto a usare anche le mani per potersi inerpicare.
Sanguinante e ansimante, Carlastian raggiunse la cima, scostando gli ultimi arbusti ed entrando nella radura. La vallata, fino ad allora celata dagli alberi, si aprì davanti ai suoi occhi. «Finalmente» mormorò in un soffio Carlastian, il timore di non farcela che si scioglieva come neve al sole, lasciando il posto a un senso di sollievo che pareva una brezza di primavera. «Finalmente» ripeté.
«Cos’è quel sorriso che ti si è stampato sulle labbra?»
Carlastian inspirò l’aria della notte: era così limpida e piena di profumi: l’odore della terra, dell’erba, dei fiori. L’odore della libertà. L’odore della speranza. «Lucylia, ora che sono qua, Behemoth e i suoi seguaci non possono più nulla: il loro potere è stato annientato, la loro forza spezzata.»
«Ne sei sicuro?»
«Sì, Naztur, come il respiro che pervade i miei polmoni.»
«Potrebbero ancora…»
«No» Carlastian bloccò Gaitlin, ben sapendo quello che stava per dire. «Non permetterò più che accada. Nessuno vi porterà più via. Anche se non abbiamo lo stesso sangue, voi siete la mia famiglia. Abbiamo riso e pianto insieme. Mi avete accettato quando nessun altro l’ha fatto, mi siete stati vicini. Mi avete accolto quando ero solo e abbandonato, sperduto come un passero nella tempesta. Solo perché eravate miei amici siete stati imprigionati. Senza colpa avete condiviso il mio destino. Ma ora, ora si torna a casa.»
«Non ti lasceranno tornare là: verranno di nuovo e tutto ricomincerà.»
Carlastian scosse il capo, ridendo con forza. «No, no: quella non è la mia vera casa, Gaitlin. La mia memoria è tornata, ora ricordo tutto.»
«Cosa vuoi dire?»
«Ascolta, Erzinia. Ascoltate tutti.» Carlastian fece cenno di fare silenzio. «Non sentite?» Alzò lo sguardo al cielo della notte, il suo sguardo che vagava sull’infinito, rimanendo in attesa.
Le stelle cominciarono a parlare. «È come dici, fratello: la tua casa non è questa terra. Sei figlio dell’universo, il frammento di una stella che stava per nascere: il tuo sguardo un giorno si è posato su questo pianeta e ti sei innamorato dei suoi abitanti. In te è sorto il desiderio di vivere con loro e condividere le loro esperienze ed emozioni. Hai scelto di essere uno di loro, ma ora è giunto il tempo di tornare a casa e prendere posto nella tua vera famiglia.»
Carlastian avvertì un gran calore nel petto che non poteva essere contenuto ancora per molto. Si sentì espandere, divenendo sempre più grande, qualcosa che nemmeno i confini del cielo potevano contenere.
Sorrise, provando una libertà che mai aveva conosciuto. «Sì, è tempo di tornare a casa. E voi, amici miei, verrete con me e saremo per sempre insieme.»
Finalmente felice, sotto lo sguardo amorevole delle stelle, Carlastian quella notte ascese al cielo, librandosi sulla terra.
Il Maresciallo Gualtieri salutò con un cenno del capo il medico legale che gli passava accanto, rivolgendo poi l’attenzione al corpo che veniva messo dentro il sacco e portato via. Con passo lento si avvicinò ai sottoposti.
«L’identità della vittima è confermata?»
L’appuntato Moschino fece un cenno affermativo. «Carlo Vanzini, fuggito dal reparto psichiatrico due notti fa. Lo stavano per riprendere, ma hanno perso le sue tracce quando è entrato nel bosco. Senza cani, di notte, è stato impossibile rintracciarlo. Solo con le prime luci del giorno hanno trovato la pista che aveva lasciato, ma ormai era tardi.»
«Deve essersi fatto prendere dal panico e non si è accorto del precipizio cui andava incontro.» Sul volto dell’Appuntato Pascuti era calato un velo di tristezza. «I suoi ultimi momenti prima di schiantarsi tra le rocce devono essere stati di paura. Che brutta morte.»
«Perché provi compassione per questo sfigato?» lo irrise l’Appuntato Bertelli.
«Sfigato?» domandò il Maresciallo voltandosi a fissarlo.
«Praticamente è quello che sta scritto sul suo fascicolo medico. E che altro potrebbe essere uno che per anni si è chiuso in casa, guardando cartoni e fumetti per cinni scemi? E’ normale che gli sia andato in pappa il cervello e abbia iniziato ad avere allucinazioni» sghignazzò l’Appuntato Bertelli.
Il Maresciallo aspettò che finisse di ridere. «Sei uno psicologo?»
«No» rispose confuso l’Appuntato.
«Hai fatto studi di psicologia?»
«No…»
«Allora non dare giudizi su cose che non ti competono, se non vuoi che ti chiami a rapporto. Ora vai a vedere se hanno bisogno di una mano per portare via il corpo.» Il Maresciallo lo osservò allontanarsi stizzito.
Dopo qualche momento, Pascuti prese parola. «C’è la possibilità che non sia stato un incidente, ma si tratti di suicidio.»
«Cosa te lo fa pensare?» indagò il Maresciallo.
«In passato c’è stata un’inchiesta sul reparto su come venivano trattati i pazienti. Tutti finì in un nulla di fatto per mancanza di prove. Però…»
«Però?»
«Non sarebbe il loro primo suicidio.»
«Se voleva suicidarsi, perché venire qui?» domandò l’Appuntato Moschino.
Pascuti levò lo sguardo sulla parete rocciosa, raggiungendo la cima. «Forse aveva dei ricordi legati a questo posto. Forse ha voluto morire in un luogo che significava qualcosa per lui e non andarsene tra quattro mura che sentiva nemiche.»
Moschino scrollò le spalle. «Per me è stato solo un incidente.»
Il Maresciallo sospirò. «La verità se n’è andata con lui. Torniamo in centrale.» Prima d’incamminarsi lanciò un ultimo sguardo alla zona; il caso sarebbe stato archiviato in fretta, come tanti altri. E come tanti altri, avrebbe lasciato domande che non avrebbero trovato risposta. Ma su una cosa era sicuro: Pascuti si sbagliava sul fatto che Vanzini fosse morto nella paura. Non poteva essere altrimenti, dato che non aveva visto il volto del morto: sul suo viso c’era un sorriso che la caduta aveva risparmiato.
“Comunque siano andate le cose, penso sia riuscito a trovare quella pace che in vita non ha avuto.”
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